Camminare sulle acque: l’Italia incontra il surf da onda
Provando ad indagare una delle tante realtà sportive e — forse in primis— culturali che il Paese del pallone tenta di tenere al guinzaglio: il surf da onda
In Italia si può fare surf? O meglio: in Italia…si può fare surf?! *sguardo allibito*. La risposta è inequivocabilmente una: sì. Anche la nostra penisola può vantare la presenza di eredi della cultura hawaiana. Riguardo l’arrivo di questa cultura nelle coste del nostro Paese, diciamo che non ci sono fonti certe ma si raccolgono storie diverse. Un fattore è però comune a tutte: l’America.
Piano Marshall e chi più ne ha più ne metta. Dopo la guerra, la cultura americana si lascia assorbire dalla spugna italica assetata di conoscenza e novità. Le pareti buttate giù dalle bombe si aprono su anni che offrono infinite possibilità. Sono proprio gli anni ’50 il periodo d’oro del surf negli USA — si tiene nel ’56 la prima gara internazionale di surf — che presto arriva ad affermarsi come un vero e proprio stile di vita, oltre che una disciplina sportiva. Complici di questa rapida escalation sociale due rami dello spettacolo: la musica da un lato, con l’emergere di band che fanno proprio del surf genre il loro tratto caratterizzante (come i primi Beach Boys); dall’altro il mondo del grande schermo (sono numerosi i titoli lanciati in questi anni, da Gidget al grande successo di The Endless Summer).
Nella nostra penisola i primi contatti con questa cultura vengono fatti risalire agli inizi degli anni ’60. C’è chi sostiene che la pratica hawaiana sia stata esportata dalla nazionale americana di nuoto, nel periodo delle olimpiadi di Roma del 1960, oppure che sia stato il surfista australiano Peter Troy a cavalcare per primo le onde del belpaese nel 1963. Al di là di queste teorie, resta ancora aperta la dura lotta nell’affermare chi sia stato il vero pioniere del surf in Italia, il cosiddetto “surfista zero”.
Alessandro Masoni, con la sua lunga accurata ricerca raccolta nel libro Storia del surf in Italia, ci aiuta a ricostruire questi anni, cosiddetti del “pionierismo”. Se non è possibile ricercare il surfista zero, si possono senz’altro tratteggiare quelli che sono stati i primi gruppi attivi sul nostro territorio e, di conseguenza, individuare i primi spot scoperti. Sono gli anni ’70 e ’80 quelli che principalmente fanno da sfondo al formarsi di queste “tribù” che cercano nel surf anche un mezzo di ribellione ed evasione dalla società di quel periodo storico, gli anni di piombo.
Quattro le zone interessate dall’emergere di questo fenomeno, che sono poi quelle che si spartiscono la scena ancora oggi. Abbiamo la Sardegna, che dà i natali a due gruppi: quello cagliaritano e quello che fa base a Capo Mannu; la Toscana, che vede ben 3 gruppi storici: Tirrenia, Forte dei Marmi e Livorno. Stessa cosa per il Lazio, che vede emergere i gruppi di Banzai (lo spot di Santa Marinella), Coccia di Morto (zona Fiumicino) e Serapo (zona Gaeta e Formia); quarta regione è la Liguria con i gruppi storici di Savona, Bogliasco e Levanto. Quattro regioni, tutte e quattro localizzate sulla costa ovest, quella che maggiormente elargisce mareggiate nel corso dell’anno. Sulla costa est solo la zona di Ravenna fu interessata negli stessi anni dalla nascita di un gruppo di surfisti nemmeno troppo esiguo. Molti di questi pionieri erano, prima di approdare al surf da onda, praticanti di windsurf (realtà presente specialmente sulle coste sarde) o si limitavano a giocare con le onde con metodi rudimentali, in primis i materassini gonfiabili.
Lo step successivo fu determinato dall’uscita in Italia nel 1978 del film Un mercoledì da leoni di John Milius, che divenne una sorta di manuale d’istruzione del surf, un role model fatto a pellicola. Ecco quindi che The Big Wednesday (titolo originale del film) dà il via ad una vorace ricerca di informazioni e materiali di importazione. Dagli Stati Uniti, ovviamente, ma anche dalla cittadina della costa basca francese di Biarritz, che divenne una sorta di meta di pellegrinaggio per i primi surfisti italiani. A Biarritz si andava sia per importare cultura e stringere i primi legami con altre comunità che, dal lato più pratico, per fare incetta di tavole e mute — dato che l’industria dedita all’equipaggiamento da surf da onda era ancora inesistente da noi.
Mentre oggi sono diversi anche gli shaper italiani — che spesso però si spostano all’ estero per motivi economici, o che comunque faticano ad affermarsi sul mercato in un confronto con le due maggiorate USA e Aussie — all’inizio i nostri compatrioti si arrangiavano come potevano. Tavole create artigianalmente o su modello di quelle importante o rielaborando quelle da windsurf, k-way e scarpe da ginnastica che andavano a sostituire la muta, ed infine elastici da portapacchi che venivano riadattati a leash (la piccola fune che lega il surfista alla tavola). Mater artium necessitas. Siamo a fine anni ’80 quando arriva Fabio Giacomini, primo vero shaper italiano con la sua Pike a cui si affiancano i primi 3 negozi che si preoccupano di fornire ai nostri surfisti un equipaggiamento a livelli degli standard esteri. Sono il Natural Surf a Viareggio, il Dirty Surf Shop di Fiumicino e, sulla costa adriatica, il Danger Surf Area di Ravenna.
Gli anni ’80 vedono anche la nascita dei primi club. Nel 1982 nasce a Viareggio l’Italia Wave Surf Team, grazie ad Alessandro Dini, figura importante per il surf italiano in quanto promotore anche delle prime competizioni internazionali sulle nostre coste. Fu il primo club a portare una rappresentanza italiana agli Eurosurf tenutisi in Francia nel 1987. A Ravenna nacque invece il Riviera Surf Club, che andò tuttavia di lì a pochi anni ad identificarsi solamente con una realtà attiva in ambito comunicativo. Non mi addentro nella cavillosa storia delle federazioni di surf che nacquero negli anni ’90 e che furono protagoniste di una vera e propria guerra civile fatta di scissioni interne e lotte per riconoscimenti dal CONI e da altre organizzazioni a livello internazionale; ci basti sapere che il travaglio è durato anche più di un decennio e vide uscirne vincitrice la (ormai ex) Fisurf, di recente annessasi alla Federazione Italiana Sci Nautico e Wakeboard, su decisione dell’attuale presidente del CONI Giovanni Malagò.
Ma lasciando stare gli aspetti organizzativi, quelli che nel nostro Paese sembrano rendersi problematici per qualsivoglia realtà da che ne abbiamo memoria, è giusto parlare di come questa cultura stia prendendo sempre più piede in Italia. Anche la comunicazione aiuta in questo senso. Dalle riviste, tra cui forse la più famosa resta Surf News, al portale SurfCorner (ma forse già più indirizzate ad un pubblico avvezzo di onde), fino a produzioni letterarie e cinematografiche che si rivolgono non solo a chi è del settore, ma che anzi mirano ad indagare e far conoscere un lato della nostra cultura che merita di stare sotto i riflettori. Da La Polinesia è sotto casa di Goroni (trasposizione del romanzo di Saverio Smeriglio) fino ai progetti girati in 35 mm dal collettivo Onde Nostre, che hanno appunto ritratto, attraverso i volti dei surfisti italiani, questo tratto della nostra cultura per portarlo anche nei vari festival internazionali dedicati alla cultura gravitante attorno a questa disciplina. È sempre Onde Nostre ad aver portato proprio nel 2017 a Milano un pezzo di questa cultura con lo Skate & Surf Film Festival, 3 giorni di proiezioni a tema, evento che è riuscito ad avere una buona risposta dal pubblico, segno dell’aumentare di appeal di questa disciplina. Complice di questa nuova popolarità possono considerarsi anche i grandiosi traguardi raggiunti da alcuni nostri atleti nell’ultimo periodo. Infatti per la prima volta in assoluto un surfista italiano, il diciannovenne Leonardo Fioravanti, partecipa al Championship Tour della World Surf League, ora (e fino al 20 maggio) alla quarta tappa in Brasile. Oltre a Fioravanti, sempre il 2017 ha visto il sardo Francisco Porcella portarsi a casa il Biggest Wave Award per aver cavalcato a Nazarè, Portogallo, un’onda di 22 metri. E sticazzi. Ci si prepara alle olimpiadi del 2020, in cui il surf da onda sarà ufficialmente una disciplina olimpica.
Forse piano piano ci si riprenderà da quel complesso d’inferiorità vissuto su questo versante dall’Italia.Un handicap, quello italiano, dato dalla presenza di un mare chiuso al posto dell’oceano, che assicura al massimo 200 giorni di onde all’anno (e spesso non paragonabili a quelle oceaniche), oltre che una storia giovane rispetto a quella di altri Paesi. Eppure il surfista italiano dovrebbe essere elogiato proprio per la passione con cui travalica queste avversità per raggiungere il breve momento di estasi dato con il contatto sincero con la potenza della natura. Se nei Paesi considerati più “forti” come Stati Uniti e Australia la presenza massiccia di onde, oltre che di servizi dedicati, rende questa pratica facilmente vittima anche della mera moda, da noi si può dire che il surfista è animato da una vera passione. Una passione e una forza che spingono a inseguire le mareggiate invernali, contrapponendosi alla classica immagine californiana fatta di sole caldo e chioschetti sulla spiaggia.
Il surfer latino sverna al contrario; quando l’estate porta via le onde e riempie le spiagge di turisti ecco che parte e da local cambia la propria pelle in freesurfer, alla ricerca di spot suggestivi in giro per il mondo. Abbracciando una filosofia di vita si oppone alla leadership del pallone, stringendo un più sincero rapporto con la propria terra. Certo va riconosciuto che il nostro litorale non vedrà mai le onde delle Hawaii o delle coste australiane, ma questo non deve essere un aspetto inibitorio. Vanno tutelati gli spot del nostro territorio, tra i quali i quattro storici e ormai parte fondante della cultura del surf da onda: Banzai a Santa Marinella (Roma), Varazze in Liguria, Capo Mannu in Sardegna e Il Pontile di Forte dei Marmi.
E sebbene proprio negli ultimi anni questa cultura stia esplodendo (e renda più facile un approccio anche attraverso le scuole di surf, le attrezzature facilmente reperibili e chi più ne ha più ne metta) va detto che il surf resta una sottocultura. Un altro dei suoi paradossi perché, sebbene possa essere vista come una cultura trasversale (che abbraccia e unisce diverse generazioni e Paesi), resta comunque di nicchia. Ma questo avviene forse proprio perché si vuole farla rimanere tale. È una filosofia di vita che da un lato ricerca visibilità e vuole abbracciare i nuovi interessati ma, dall’altro lato, accudisce gelosamente la propria realtà quasi con paura che possa essere contaminata.
(Tutte le fotografie sono scatti originali di Tommaso Pardini, realizzati sulle coste italiane)