Le radici americane di Captain Fantastic

Il mito della natura, coltivato dal ‘600 nel Nuovo Mondo, rivive nei film di Matt Ross e Sean Penn

Nicola Accattoli
La Caduta 2016–18

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Matt Ross, noto al grande pubblico per aver interpretato Gavin Belson nella serie televisiva Silycon Valley, è tornato a cimentarsi con la regia e la sceneggiatura, riuscendo a dare in pasto al pubblico un film piacevole e pieno di spunti di riflessione. Captain Fantastic ha debuttato solo la settimana scorsa nelle sale italiane, ma aveva già ricevuto critiche più che positive dalle maggiori testate internazionali: dal Guardian al New York Times fino a Rolling Stone, tutti hanno espresso il loro giudizio sotto forma di stelline, senza mai scendere sotto a quattro su cinque. Io non sono propriamente d’accordo, e apro una veloce parentesi che vedrò di chiudere in poche righe. E’ un bel film, ma sono felice di essermelo gustato con la promozione Cinema2Day, e forse non sarei stato altrettanto soddisfatto se avessi scelto di vedermelo a prezzo pieno. Tuttavia, devo confessare che dietro questa spocchia, che, ahimè, sembra sia parte di me oramai, c’è una ragione che affonda le sue radici nel declino del prodotto cinematografico al quale stiamo assistendo da qualche anno a questa parte, bilanciato però dalla rinascita delle serie-tv. Dovremmo giudicare Captain Fantastic per quello che rappresenta all’interno di questa cornice un po’ sbilenca, oppure possiamo permetterci il lusso del mi piace e del non mi piace, a prescindere da tutto? Chiudo la parentesi con questa domanda, e torno all’argomento principale, il film.

Un autobus per due film

Innanzitutto mi piacerebbe parlare con voi delle tante somiglianze fra questo film e Into the Wild. Partiamo dalla locandina e dagli autobus. Ben, interpretato da uno strepitoso Viggo Mortensen, potrebbe benissimo essere un Alexander Supertramp che ha scampato la morte, ha trovato l’amore e s’è trasferito in un ambiente più clemente, una versione light della gelida e innevata Alaska, insomma. Possiamo dedurre inoltre, dato il numero di figli (addirittura sei), che Ben e compagna abbiano fatto parecchio sesso non protetto e si siano ritrovati quindi nelle condizioni ideali per sperimentare, oltre a uno stile di vita alternativo, anche un metodo educativo altrettanto sopra le righe. Se in Into the Wild lo spettatore seguiva le vicende solitarie di Christopher McCandless, in Captain Fantastic c’è tutta una famiglia pronta ad intrattenere il pubblico. O meglio, tutta la famiglia meno uno. Il punto di svolta del film infatti, la catastrofe che si abbatte sulla pacifica e idilliaca vita selvaggia di Ben e figli, è il suicidio di sua moglie, Leslie, che soffriva da tempo di disturbo bipolare. E mai elaborazione del lutto fu più complicata: Ben, razionale fino al midollo e fedele al principio di verità a tutti i costi, cerca di spiegare la morte della madre ai propri figli con la stessa delicatezza con la quale sventra animali selvatici, e, nonostante possieda una vastissima cultura, sembra avere qualche lacuna in psicologia. O in buon senso forse. Senza tanti giri di parole infatti, comunica ai figli, usi alla schiettezza e all’assenza di formalismi, che la loro madre si è tagliata le vene. Un veloce pianto da parte di tutti e via, a letto, che domani mattina ci attende l’allenamento in montagna, la battuta di caccia, il pranzo, lo studio tutti insieme attorno al fuoco e il concertino serale. Sì, perché queste sono le attività che costituiscono la quotidianità di Ben e figli. Tuttavia, il trattamento sbrigativo del dolore psicologico non tarda a interrompere questa routine piuttosto strampalata. Sebbene il padre di lei glielo abbia proibito, e dopo aver litigato ferocemente con i figli per spiegare loro perché non potevano andare, Ben decide di punto in bianco di partire per la città con tutta la ciurma ed andare al funerale di sua moglie.

Un abbigliamento un po’ troppo stravagante per un funerale

Non solo: una volta arrivati e fattisi notare già solo per il vestiario (vedi foto), Ben decide di leggere pubblicamente il testamento di sua moglie, che voleva essere cremata e buttata nello scarico della toilette. L’opposizione del suocero a questa forma non tradizionale di funerale verrà presto scavalcata dalla strampalata famiglia, che deciderà di disseppellire mamma, di bruciarla su un altipiano verde durante una giornata soleggiata mentre la parte viva della famiglia intona una versione hippie di Sweet Child O’ Mine, e poi di versarne le ceneri giù per lo scarico di una toilette. Questo grottesco funerale serve ad esorcizzare la paura della morte, e nell’organizzarlo e poi realizzarlo, la pazza famiglia di Captain fantastic riesce per giunta a divertirsi e a ritrovare la serenità, poichè hanno fatto rispettare la volontà di Leslie. Che poi era bipolare, ma questo sembra non importare granchè.

Ma da dove arriva questa fascinazione così potente verso la natura? E come mai Captain Fantastic tiene così tanto alla verità, a punto tale da non risparmiare nemmeno i suoi figli più piccoli dal dolore della tragica morte della madre? Sia Into the Wild che Captain Fantastic sono prodotti americani, e il loro background culturale non può che esserlo altrettanto. Ecco come John Smith, uno tra i primi esploratori inglesi a tentare di stabilirsi nel Nuovo Mondo, descrive le coste più a nord della Virginia: “there is victuall to feede us; wood of all sorts, to build Boats, Ships, or Barks, the fish at our doores, pitch, tarre, masts, yards, and most of other necessaries onely for making” (Ci sono abbastanza provviste per tutti noi; legni di tutti i tipi, per costruire navi, barche, o velieri; il pesce a portata di mano, resina, ghiande, campi, e di altri beni tanti quanti ne vogliamo) (Smith, The Generall Historie of Virginia, New-England, and the Summer Isles, 1616, p. 27, traduzione libera). Il Nuovo mondo sembra il paradiso terrestre, una terra gentile e generosa che dà molti frutti con poco lavoro, ricca di cibo e materiali utili alla costruzione. Ricordandoci le Bucoliche virgiliane, Smith concilia il lavoro con il piacere: What pleasure, can be more then […] in planting Vines, Fruits or Hearbs, in contriuing their owne Grounds, in recreating themselves before their owne doores, in their own boates upon the sea, where man, woman and childe, with a small hooke and line, by angling, may take diverse sort of excellent fish, at their pleasures? ” (Come misurare il piacere che si prova nel piantare vigneti, frutti o erbe, nel costruirsi la propria terra, nel rilassarsi di fronte alla propria casa, nelle proprie barche, sul mare, dove uomo, donna e bambino, con un piccolo amo e un filo, possono, a loro gusto, pescare varie specie di pesci eccellenti?(Smith, ibid, p. 47, traduzione libera).

Tra i modelli letterari di Alexander Supertramp notiamo Walden

Christopher McCandless cita, parafrasando, Henry David Thoreau: “Rather than love, than money, than faith, than fame, than fairness, give me truth” (piuttosto che amore, denaro, fede; piuttosto che fama o giustizia, datemi la verità), alludendo alla verità della vita a stretto contatto con la natura. Walden, opera dalla quale Alexander Supertramp trae la citazione, è un resoconto dei due anni passati dallo stesso autore a vivere into the woods, nel bosco, a contatto con la natura selvaggia. I Trascendentalisti, figli del Romanticismo europeo, credono fermamente nel potere salvifico della natura, che consentirebbe all’uomo di sfuggire alla corruzione, alla falsità della società. L’identità natura=verità alla quale si appoggia con forza Ben affonda le sue radici nel pensiero trascendentalista. Siamo nell’ottocento, a due secoli di distanza dagli scritti di Smith, e tuttavia la natura continua ad essere oggetto di poesie, trattati, autobiografie, romanzi. Anche il poeta americano per eccellenza, Walt Whitman, nonché il filosofo trascendentalista più influente del tempo, Ralph Waldo Emerson, tratteranno a fondo il tema della natura sviscerandolo in ogni sua parte, reciprocamente con Leaves of Grass e Nature, ribadendo come solo attraverso una vita a stretto contatto con la natura sia possibile trovare la verità.

Insomma, da sempre nella storia del Nuovo Mondo la natura sembra possedere un’ambivalenza che rimarrà costante nella cultura americana fino ai giorni nostri: Into the Wild e Captain Fantastic continuano a trattare la problematica relazione tra uomo, natura e civiltà anche nel nuovo millennio.

Il ritorno dei cacciatori di Thomas Cole (1845) richiama senza dubbio la vita di Ben e della sua famiglia: l’uomo è in simbiosi con lla wilderness, una natura selvaggia e incontaminata

La spiegazione di questo attaccamento risiede proprio nella storia dello sviluppo della civiltà americana. La colonizzazione degli Stati Uniti non poteva che iniziare dalla costa est, la più facile da raggiungere per gli esploratori europei. La naturale propensione espansiva delle colonie, unita alla crescita della popolazione e alla conseguente necessità di spazio, dette il via alla cosiddetta conquista del West. Ad ogni spostamento della frontiera verso ovest corrispose il ripetersi del processo evolutivo: ogni volta la popolazione si trovava a dover civilizzare uno spazio selvaggio, portando così avanti nel tempo la presenza della natura nelle menti dei pionieri. In poche parole, la preoccupazione per la natura è diventata un tratto tipico dell’americanità, ed insieme con essa la disputa sulla bontà o la malignità della wilderness da una parte e della società e della civiltà, dall’altra.

La cultura occidentale ha una grande, paradossale lacuna: quella della storia, della letteratura e dell’arte americana. Oggi come oggi, quando si pensa all’America, in particolare agli Stati Uniti, subito si pensa agli hamburger oleosi e grassi del McDonald’s, alle grandi produzioni industriali, ai governi Bush, a Trump, al corporativismo, al consumismo, al fracasso del Vietnam, al petrolio e alle guerre fatte in suo nome. Questo flusso di coscienza in immagini, però,racchiude e riassume solo alcuni aspetti degli ultimi decenni della storia e della cultura americana, senza prenderne in considerazione tanti altri, ed escludendo dal resoconto i secoli precedenti al ventesimo, mentre noi eurocentrici ci aggrappiamo stretti stretti anche a civiltà risalenti a migliaia di anni fa, vedi Greci e Romani. Poi, però, quando non si tratta di noi, ci accontentiamo di un ottocento stilizzato nella trama di un western, di rappresentazioni semplicistiche, che finiscono per svalutare e riassumere con faciloneria una cultura intera.

Tornando ai nostri film, si può affermare dunque che sia Captain Fantastic che Into the Wild sono prodotti tipicamente americani, che difficilmente sarebbero potuti venire alla luce al di fuori del sistema culturale statunitense. Forse, addirittura, possiamo considerarli anche più americani di tutti i nostri tanto cari clichè e, se fosse questo il caso, lo sarebbero proprio, paradossalmente, in virtù di quella forte critica sociale anticapitalista e anticonsumista che li contraddistinguono; critica memore di quel secolo perduto, l’ottocento, sommerso dall’immagine ingombrante dell’america novecentesca, la grande cattiva della storia mondiale.

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Nicola Accattoli
La Caduta 2016–18

Non scrivo solo di cinema, musica, serie tv e videogiochi