Copertina di Cristiana Zampolini

CINERAMA — Giugno 2018

Inauguriamo una nuova rubrica di cinema, consigliando film di grandi personalità recentemente scomparse, cult restaurati e novità da non perdere

La Caduta
La Caduta 2016–18
11 min readJun 8, 2018

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Nessun gioco di neologismi. Il “Cinerama” era un particolare tipo di proiezione cinematografica che sfruttava una ripresa con tre camere sincronizzate e posizionate a formare, una volta in sala di proiezione, un’immagine panoramica a 146 gradi composta da tre girati in 35 mm. Questa suggestiva tecnica fu oggetto di sperimentazioni varie a partire dagli anni ’50, ma divenne presto una soluzione obsoleta tanto che l’esistenza di questa esperienza di visione resta oggi nota a pochi nostalgici o cinefili. Il termine cinerama, che unisce assieme il concetto di cinema a quello di una visione a 360° (panorama), ci è sembrato più che adeguato a diventare il titolo della nostra nuova rubrica. Capita che, tra un approfondimento e l’altro e tra una proiezione del multisala locale e quella della saletta d’essai, non si riesca a parlare di tutto ciò che ci passa davanti agli occhi. Ci sembra quindi giusto ritagliare uno spazio mensile anche per tutta una serie di film che ci hanno colpito, affascinato, schifato o causato qualsiasi altra sensazione, indipendentemente dal motivo. Qui è lo spazio in cui, scambiando due chiacchiere senza criteri e senza malizia, vi ricordiamo cult o classici del passato (magari riproiettati di recente, ma anche no), oppure in cui rendere speciale omaggio al lavoro di grandi personalità del cinema. Oppure semplicemente per darvi in due righe il nostro spassionato consiglio su ciò che potreste/dovreste vedere la prossima serata che metterete mano al vostro computer, o magari la prossima volta che entrerete in uno di quei luoghi mitologici noti come videoteche. In ogni caso: buona visione! 🎬

Il prigioniero coreano di Kim Ki-duk (2016 — Corea del Sud)

Dalla fine della guerra di Corea nel 1953 c’è un gelido equilibrio che regola la situazione di pace tra il governo dittatoriale di Pyogyang e quello democratico semi-presidenziale di Seoul. Il regista sudcoreano Kim Ki-duk, noto per il suo cinema onirico, emozionale e rivolto alla ricerca di immagini simboliche, più che alla narrazione tradizionale, ha scelto di raccontare questo clima di tensione nel suo ultimo film Il prigioniero coreano, riprendendo un discorso già inquadrato nel precedente Hae-hanseon nel 2002. Il prigioniero coreano il nostro punto di vista viene inizialmente fatto coincidere con quello di un pescatore nordcoreano che abita con moglie e figlio nei pressi della inviolabile linea di confine tra i due stati, pesantemente militarizzata. Nam Chul-woo è autorizzato a pescare nelle acque di confine, a patto di non entrare nella zona sud, ma a causa di un’avaria al motore della sua barca, finisce proprio per entrare involontariamente in Corea del Sud. A questo punto per il pescatore inizia una straziante odissea nella capitale sudcoreana, che lui si rifiuta di osservare coprendosi gli occhi, seguendo uno di tanti aspetti della dottrina dittatoriale. Eppure la condanna di Kim Ki-duk non procede in una sola direzione; gli agenti sudcoreani che fanno prigioniero Chul-woo mostrano incomprensione, diffidenza e ostilità, portando avanti una trattativa (per convincerlo ad ammettere di essere una spia al servizio di Pyongyang) che diventa presto una vera e propria tortura. Chul-woo da parte sua desidera solo tornare dai suoi cari e alla semplice attività di pescatore, altro che spionaggio; fortunatamente per lui, un empatico agente di polizia si sforza di metterlo a suo agio, convinto che non si tratti di una spia. Certo l’impostazione de Il prigioniero coreano è lontana dalla poetica simbolica dei più noti film di Kim Ki-duk, ma l’immediatezza del messaggio sembra assolutamente coerente nel contesto attuale, in cui vecchie tensioni non hanno smesso di suscitare disagio. ()

Corpo e anima di Ildikó Enyedi (2017 — Ungheria)

Avete presente quel detto secondo il quale “gli opposti si attraggono”? La regista ungherese Ildikó Enyedi sembra averne voluto rendere una degna rappresentazione cinematografica, scrivendo un film romantico davvero sui generis, in cui a dominare sono proprio i contrasti costruiti attraverso una sapiente scelta delle inquadrature. Antitetica è l’ambientazione, divisa tra una foresta abitata da una coppia di cervi e un mattatoio; antitetici sono i protagonisti, lui uomo di mezz’età con un braccio paralizzato e l’aspetto trascurato, lei esempio di bellezza armonica dalla pelle diafana. Sogno e realtà, amore e repulsione si alternano in questo film che sin dal titolo (Corpo e anima) suggerisce l’idea di un binomio complesso, forse impossibile. In effetti l’asocialità estrema di Mária si scontra bruscamente con la personalità rilassata e autoironica di Endre sin dal loro primo incontro. Ma il messaggio che la Enyedi vuole trasmettere con il suo bellissimo film va oltre ogni barriera o differenza, sia fisica che caratteriale. L’amore è davvero un affare complicato e le sue dinamiche agiscono tramite vie che non sempre comprendiamo: ma ciò che infine conta, e quel che emerge così elegantemente in Corpo e anima, è il fatto che sia necessario. Ecco allora che l’affinità impossibile tra Mária e Endre diventa concreta, dopo che i due realizzano per caso (durante un test psicologico dei dipendenti del mattatoio dove lavorano) di fare lo stesso sogno la notte: entrambi entrano nel corpo di un cervo, esplorando una suggestiva foresta onirica e al tempo stesso conoscendosi. Nella vita reale, nello specifico del contesto lavorativo del mattatoio, questo avvicinamento è in realtà un processo complesso, non privo di ostacoli (Mária a tratti dimostra atteggiamenti che fanno pensare a una forma di autismo e questo fa vacillare l’attrazione di lui) e di parentesi drammatiche illustrate con inquadrature davvero difficili da digerire. In Corpo e anima regna però la sensazione di assistere al realizzarsi di un destino condiviso e segnato, di un amore finalmente concreto che definitivamente vince su ogni cosa. Una visione struggente, che difficilmente si dimenticherà. Corpo e anima ha vinto l’Orso d’oro a Berlino nel 2017 ed è stato presentato tra le nomination agli Oscar come miglior film straniero l’anno successivo. ()

Un sogno chiamato Florida di Sean Baker (2017 — USA)

Divertente, frenetico come una giostra, intriso d’un poco saggio ottimismo e, assieme, drammatico. Quello rappresentato con evidente maestria registica da Sean Baker nel suo The Florida Project è una sorta di micro-mondo isolato in cui l’infanzia, con i suoi sogni ad ogni aperti e la sua leggerezza, resiste alle regole imposte dagli adulti. Del resto a suggerire che i veri protagonisti qui sono loro, i bambini, sono le stesse location del film, ambientato in un motel variopinto ispirato al vicino Disney World (“Florida Project” è proprio il nome del progetto iniziale del parco). “Regina” di questo roseo ma decadente Luna Park è Moonee, bambina di sei anni che passa le giornate a divertirsi con gli amici, immaginando di vivere proprio in quel celebre parco dei divertimenti: il motel gli edifici nelle vicinanze diventano agli occhi di questi bambini strutture da favole, dimore fantastiche in cui immaginare una vita da principi, oppure case dell’orrore diroccate e infestate. Gli adulti non sono però esclusi da questa cornice: la giovane e sola madre di Moonee, Halley, fa di tutto pure di mantenere il sorriso sul volto della figlia, ma tra difficoltà finanziarie e una personalità difficile i problemi non fanno che aumentare, fino ad arrivare a un prevedibile punto critico. Moonee e compagnia sono tenuti d’occhio dal guardiano del motel Bobby (Willem Dafoe), che cerca di aiutare il più possibile Halley, nonostante la ragazza sia sempre più invischiata nel proprio sconclusionato stile di vita: tra piccole truffe e prostituzione, la donna rifiuta di credere in un futuro diverso da quel presente nel quale è imprigionata. Unica via di fuga possibile è davvero quella scelta da Moonee, che osserva e abita l’ambiente in cui vive attraverso quel prezioso filtro della fantasia che agli adulti è negato. The Florida Project in fin dei conti mette in scena una storia come tante: la figura della madre sola, “punk” e sfortunata alle prese con una figlia energica alla scoperta del mondo che la circonda è una sorta di comune stereotipo cinematografico. Il film di Baker riesce tuttavia a trascinarci nella visione, avvicinandoci alle pene e alle avventure di questi personaggi, imprigionati nella squallida periferia di uno dei luoghi da sogno per antonomasia. ()

Under the shadow di Babak Anvari (2017 — Iran, Giordania, Qatar)

“Dove esistono paura e ansia i venti soffiano”. Un buon horror è fatto di tanta atmosfera, ma la sceneggiatura non deve essere tralasciata. Under the shadow del regista anglo-iraniano Babak Anvari è uno di quei film costruiti partendo da un’idea semplice, sviluppata a formare una trama che con l’ausilio di pochi elementi può rendere la visione inquietante e assieme accattivante. Fatta eccezione per poche scene di raccordo girate in esterni o luoghi di secondaria importanza, l’intero film è ambientato in un condominio posizionato in una “zona calda” di Teheran: la città è sotto bombardamento e negli appartamenti sono rimasti pochi inquilini. Tra ques)ti, la studente di medicina Shideh e la figlia piccola Dorsa, rimaste sole dopo che il marito medico ha lasciato il quartiere per occuparsi altrove dei feriti. Un’inaspettata sventura si abbatte su madre e figlia dopo che un missile si schianta, senza esplodere, sul tetto dell’edificio, causando una crepa nel soffitto di Shideh. Dorsa inizia ad avere strane visioni, immaginando di parlare con presenze fantasma, i Jinn della tradizione musulmana, entità soprannaturali dal comportamento spesso maligno. Influenzato dal cinema di suspense di Polanski, Anvari mette in piedi un horror disturbante che riesce a cogliere di sorpresa lo spettatore, mescolando gli orrori concreti della guerra agli incubi fantastici che appartengono più alla superstizione che alle paure dell’infanzia (Dorsa si dimostra in grado di dialogare con l’entità, laddove la madre si nasconde ai suoi piedi). Un horror che certo, considerato il contesto, è anche efficace metafora di genere della segregazione della donna nel mondo arabo, come non mancano di mostrare alcune scene significative. Il film, tra le proposte come miglior film straniero agli Oscar del 2017, è attualmente disponibile su Netflix. ()

In memoriam: Isao Takahata

La storia della principessa splendente di Isao Takahata (2013 — Giappone)

Come festival d’animazione il Future Film Festival non poteva esimersi dal rendere omaggio al maestro Isao Takahata. Scomparso il 15 Aprile 2018, Takahata fu cofondatore dell’ormai leggendario studio Ghibli nel 1985, inseme al collega e amico Hayao Miyazaki, con cui realizzò pellicole di rara bellezza. Nella terza giornata del festival La storia della principessa splendente, considerato tra i suoi lavori più originali e struggenti, rianima dinanzi al pubblico il mondo fiabesco giapponese attraverso lo stile complesso e lirico del suo regista. Tratta da un antico racconto popolare, addirittura fatto risalire al X secolo, la storia della piccola Principessa, misteriosa e arcana creatura trovata da un tagliatore di bambù proprio dentro una di quelle canne e da costui allevata insieme alla moglie in un piccolo villaggio, è una pellicola traboccante di simbolismi e allegorie proprie della mitologia giapponese. La bimba cresce a vista d’occhio con una rapidità sovrumana, sotto lo sguardo stupito ed ammirato dei genitori adottivi e di quello dei bambini con cui fa amicizia. Libera, spensierata ed innamorata di quell’ esistenza pastorale, nello spazio di un’estate diventa un’adolescente selvatica e felice, affezionata a tutti coloro che la circondano, in particolare al suo giovane “onii-chan” Sutemaru. Ma in autunno, con lo sfiorire dell’infanzia, suo padre la porta in un enorme palazzo che ha fatto costruire per lei in città, convinto che sia questo il suo destino. Nulla riuscirà a restituirle l’infantile felicità, e relegata nella solitudine di una nostalgia incolmabile, ella si strugge nella malinconica percezione dell’esistenza di un altrove ideale che non riesce a realizzarsi in quel mondo. La gabbia d’orata in cui è stata rinchiusa per amore è proprio la dolorosa condizione umana, così schiava delle sue stesse imposizioni che, seppur colma di passione, sentimento, bellezza, è pur sempre troppo piccola per lei che è partecipe della luce di un mondo diverso, più alto, ideale. L’impressione di questa eterna distanza tra Terra e Altrove, in questo caso la Luna, è perfettamente resa nella tecnica del disegno dalle linee sottili ed essenziali e tuttavia morbide ed in costante movimento, realizzato completamente a mano e molto simile allo stile delle stampe tradizionali giapponesi, le ukiyo-e. Il bianco predomina sui colori come una luce che s’irradia costante alla vista, fluttuante risplendere della verità di un mondo nascosto e ideale. Una pellicola che è un inno delicato e sognante, come sicuramente fu la mente del suo creatore. ()

From the Vault: Il Cinema Ritrovato

Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (1972 — Italia, Francia)

Per la rassegna Il Cinema Ritrovato la cineteca di Bologna ripropone il film più discusso della storia cinematografica italiana: condannato alla distruzione dalla corte di Cassazione nel 1976, Ultimo tango a Parigi è senz’ altro una delle più intense prove del cinema erotico. Ma nonostante la feroce critica iniziale è il film italiano con il maggiore picco di incassi della storia del cinema, secondo soltanto al celebre kolossal Guerra e pace di King Vidor. Solo nel 1987 la censura permise la libera distribuzione della pellicola, mentre con il passare del tempo scemava il turbamento provocato dalle numerose e provocatorie scene di sesso e si cominciò a considerare l’estrema drammaticità della storia di Paul e Jeanne, due sconosciuti che si trovano a visitare lo stesso appartamento, luogo principale dei futuri incontri dei due amanti. La sempre maggiore frequenza e passione dei loro appuntamenti li trascina in una spirale sensuale attraverso la quale i due cercano di infrangere le soffocanti imposizioni di una società perbenista e conformista. L’appartamento diventa luogo di una ricerca costante di fuga, agognata in particolare da Paul, interpretato dal leggendario Marlon Brando che riesce ad imprimere nel personaggio una disperazione e solitudine esasperanti ed insieme una sorta di depravata e primitiva brutalità nel ricercare nel sesso un’ evasione dalla sofferenza esistenziale. Complice e vittima di questo è Jeanne, interpretata da una giovanissima Maria Schneider, trascinata in un processo di allontanamento ed esclusione che costituisce il vero senso della sensualità dell’opera. Esemplare a tal proposito la famosa “scena del burro”: non è la sodomizzazione di Jeanne come atto estremamente violento e osceno il motivo di massimo sconvolgimento, ma il fatto che essa, unita alla recitazione della “lode alla famiglia” di Paul, rappresenti il disprezzo per la visione del rapporto sessuale come finalizzato alla famiglia, ultimo consolidamento del matrimonio. Idea frutto dell’ipocrisia sociale, questa, e considerata nel film alla stregua di una violenza, sebbene diversa perché legittimata dalla società. E’ la totale dissacrazione di questa candida legittimità dei principi sociali che hanno reso così complessa l’accettazione di questa pellicola, che portò anche alla condanna lo stesso regista insieme allo stesso Marlon Brando e ad altri membri della troupe per offesa al pubblico pudore (successivamente sospesa). Eppure, al tempo stesso, impose l’attenzione su Bertolucci e regalò una delle ultime grandi interpretazioni di Brando nel cinema. ()

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