Copertina di Cristiana Zampolini

CINERAMA — Luglio 2018

Our two children are dying in the other room, but yes, I can make you mashed potatoes tomorrow (“Il sacrificio del cervo sacro”)

La Caduta
La Caduta 2016–18
7 min readJul 9, 2018

--

American Honey di Andrea Arnold (2016 — USA, Regno Unito)

Il suo non sarà tra i nomi dei registi più popolari degli ultimi anni, ma Andrea Arnold (classe 1961) va sicuramente considerata nel novero dei più interessanti cineasti britannici in attività. Lo stile registico della Arnold è ciò che forse più rimane impresso dei suoi film; esso prevede una raffinata ricerca formale, che include una notevole maestria nel gestire i movimenti di macchina, che ruota attorno ai personaggi come a volerne coprire ogni minima sfaccettatura. Non sorprende sapere che l’inizio della sua carriera è caratterizzato da lavori sperimentali come Red Road, film concepito per essere basato sui “comandamenti” del Dogma 95. Il suo ultimo lavoro, American Honey, adotta invece una struttura narrativa tradizionale. La regista, che fino a questo momento ha girato tra Glasgow e Londra, si sposta negli Stati Uniti. Il titolo è un rimando alla canzone country del gruppo Lady Antebellum di Nashville, perfetto accompagnamento sonoro per un film sui piaceri, le difficoltà e le illusioni della giovinezza; la Arnold racconta l’intensa estate di un gruppo di giovani che hanno scelto di fare i soldi come venditori porta a porta di riviste, vivendo come nomadi on-the-road, in un continuo spostamento da motel a motel. Get caught in the race / Of this crazy life / Tryin’ to be everything can make you lose your mind recita la canzone, che sembra davvero parlare di Star (una bravissima esordiente, Sasha Lane) e di tutta questa pazza compagnia del furgoncino. I personaggi sono davvero molti (incluso il “re” dei venditori interpretato da Shia LaBeouf), ma la personalità di ogni singolo membro del team è rappresentata con precisione dalla regista, che evidentemente tiene molto a rendere autentico il suo racconto secondo una scelta che la contraddistingue sin dai primi lavori. Non ci sono figure a margine, ognuno ha il proprio ruolo e spazio in un insieme narrativo lineare e di ampia (e forse 3 ore sono davvero troppe) durata. Andrea Arnold dipinge così, con toni caldi dell’immagine e ancora una volta con grande attenzione formale, il ritratto variopinto di una generazione assuefatta alla libertà, alla droga, alla cultura pop e soprattutto a quell’american dream che i giovani protagonisti non riescono a scrollarsi di dosso. American Honey ha ricevuto il Premio della giuria a Cannes nel 2016. (Michele Bellantuono)

Il sacrificio del cervo sacro di Yorgos Lanthimos (2017 — Irlanda, USA, Regno Unito)

Nei suoi film il regista greco Yorgos Lanthimos mostra allo spettatore visioni bizzarre, surrealtà che rifuggono la logica convenzionale per esplorare derive distopiche e scenari che sfiorano i limiti del verosimile. Lanthimos, in stranezze cinematografiche che hanno girato i festival internazionali come Kynodontas, The Lobster e anche nell’ultimo lavoro, Il sacrificio del cervo sacro, monta una sorta di palcoscenico dell’assurdo in cui far interagire personaggi dalle caratteristiche (espressive innanzitutto) grottesche. Questi vivono in un racconto che può presentare tratti realistici, anche se ambientato in una contemporaneità distorta, ma che anche ricorda una qualche proiezione onirica. Il sacrificio del cervo sacro rispetta pienamente questo schema narrativo che contraddistingue per intero il cinema di Lanthimos: una visione assurda, gelida e mitologica, perché irrimediabilmente governata dalla presenza del fato. Questo perché pur essendo lo scenario del film quotidiano e l’ambientazione odierna Lanthimos evoca una situazione da tragedia classica: il regista trae infatti ispirazione dal mito del sacrificio di Ifigenia, così come raccontato nell’antica tragedia Ifigenia in Aulide di Euripide (il titolo del film fa proprio riferimento alla cerva inviata dagli dei nel momento dell’immolazione. La tragedia greca euripidea, adattata al contesto della società contemporanea, resta carica di significato; il sacrificio viene imposto a Steven Murphy (Colin Farrell, già protagonista in The Lobster), importante cardiochirurgo che forze misteriose puniscono per aver commesso un errore durante un’operazione a causa della sua condizione di non totale sobrietà. Vittima di tale errore è il padre di Martin (Barry Keoghan), un ragazzo vagamente inquietante, per quel suo sguardo indifferente e le sue fatidiche previsioni riguardanti la salute dei familiari di Steven. Martin funge dunque da messaggero del fato, spiegando al chirurgo (in uno dei passaggi di sceneggiatura più memorabili del film) che se non sacrificherà un membro della sua famiglia, la moglie (Nicole Kidman) o uno dei due figli, questi saranno tutti destinati a morire a causa di una cruenta maledizione divisa in fasi: paralisi delle gambe, perdita d’appetito, sanguinamento oculare, morte. Steven, apatico uomo di scienza, rimane scettico e sembra non capire la necessità del suo contrappasso. Ma arrivati i primi sintomi, il film assume rapidamente la piega dell’horror psicologico, mettendo a nudo il complesso strazio interiore del protagonista alle prese con la difficile scelta della sua “Ifigenia”. Un film che in definitiva parla della necessità di affrontare la propria coscienza. (Michele Bellantuono)

Storia di un fantasma di David Lowery (2017 — USA)

È un racconto universale quello di David Lowery: a ghost story, non un qualche “racconto di fantasmi” dunque, ma la storia di un fantasma, uno spettro senza volto perché coperto da quel telo bianco che è presenza quasi immancabile dell’immaginario della paura infantile. Il film consiste in un’ora e mezza di riflessione sulla morte e sulla vita, sullo spessore del passato e sulla necessità del ricordo, riflessione condotta attraverso un’escalation di inquadrature di stampo fotografico dal sentore quasi vintage (il film è girato in 4:3 uno dei primi formati utilizzati sul grande schermo): un film che quindi sembra provare a evocare nello spettatore l’immagine di una foto ricordo. Tramite questa suggestiva fotografia, che molti hanno associato al mondo di Instagram e dei filtri da smartphone, Lowery mette in mostra uno spettacolo di emozioni fortemente toccante, ma non aspramente patetico. Il lutto si consuma nel giro di poche scene (che vedono protagonisti Rooney Mara e Casey Affleck) e la vita, osservata dal punto di vista di chi non è passato al di là, scorre inizialmente per singoli attimi, nei quali si assiste alla solitudine di chi è rimasto, quindi avanza sempre più veloce. Il muto fantasma protagonista attraversa il tempo senza mai abbandonare il luogo della sua vecchia casa, vedendo così passare nuovi inquilini, nuove generazioni, nuove ere, nella costante attesa di un qualcosa che possa liberarlo dalla sua condizione. Tra i titoli più interessanti presentati al Sundance Festival lo scorso anno, Storia di un fantasma può essere annoverato in quella apprezzata cerchia di film indipendenti (solitamente a basso budget) che trovano successo grazie ad un’efficace e interessante resa estetica sfruttata per film di natura concettuale, vicini in questo senso all’espressione estetica di certa videoarte. È a questi canali espressivi che si rivolge Lowery, preferendo l’essenzialità di dialoghi e movimenti di macchina (quasi impercettibili) e virando l’immagine su toni freddi, scegliendo così di affidare alle bellissime inquadrature contenute nel film il senso di questo profondo, umanissimo racconto. (Michele Bellantuono)

From the Vault: il Cinema Ritrovato

Entr’acte di René Clair (1924 — Francia)

Si possono vedere tetti ballare. Il volteggiare delle tettoie affacciate sui boulevards parigini hanno la stessa cadenza di una ballerina che ha la barba di un Emile Zola. Rincorrere una tomba può essere un viaggio colmo di adrenalina come una maratona o una corrida, lutto o atletica non hanno molto di diverso: ai funerali, l’obbligo dovrebbe essere della risata ai caduti e dell’ “avanti il prossimo!”. Intanto, sopra la tomba della strada sta un tetto, dove due simpatiche figure si danno appuntamento dinanzi ad un cannone: un uomo con ombrello, un certo Erik Satie ed un tale corpulento, chiamato Francis Picabia. La bricconesca coppia si prepara ad assaltare il cielo sprovveduto con la loro arma. Colpire Parigi dall’alto e poi fuggire come lepri, nulla di tutto questo che vedete forse è accaduto, se ci si riavvolge. Tutto sembra andare come in un gioco illusionistico, si procede per retrocedere, il montaggio è zompettio, sussurro e ghigno. Si altalena coi propri salti il succedere dello spiazzamento visivo, ottiche oblique e multi-prospettiche infieriscono su ogni aspettativa di anticipabilità. Questo è la sintassi svagata e assolutamente analogica che domina le bellissime immagine di Entr’acte (1924) di Rene Clair, capolavoro assoluto del cinema dada recentemente restaurato dalla Cineteca di Bologna. Film che può dirsi “gioco di quartiere”, i cui giocatori possono essere Marcel Duchamp e Man Ray, colti nel pieno di una partita di scacchi in cui Place de La Concorde piena di macchine e persone può apparire agli occhi sconvolti di Man Ray sulla tavola da gioco. Questo film documenta l’incredibile concentrazione di genio e rivolta che animava la capitale francese di quegli anni, ne concentra lo sguardo di puri acrobati della pellicola: con la danza, la magia illusionistica, l’ombra di silhouette, la velocità meccanica della bici o dei pistoni, due occhi di donna, acqua e fumo, uova e fontane! La promessa implicita del film è che ognuno può avere un inventario di cose scherzose che possono rovesciare la logica del mondo. Concepito per essere un assurdo intermezzo per balletto, la volontà programmatica del regista e degli ideatori era di far fuggire gli astanti di teatro piuttosto che conquistarli e farli guardare. Certamente la potenza di queste immagini rimane intatta, inattacata, se sa ancora farci morire (dal ridere) con la sua ironia muta e roboante, tenera e imprendibile. (Edoardo Manuel Salvioni)

--

--