Cioran: per un desiderio di unità, tra aspirazione e regresso
Per una rilettura de “Il funesto demiurgo”: dalle origini del cristianesimo al culto della personalità nella Corea dei Kim
Nel brillante saggio Il funesto Demiurgo, Cioran dedica un esiguo numero di pagine ad un insieme di osservazioni circa la natura del vincolo stringente l’uomo al politeismo da una parte e al monoteismo dall’altra, soffermandosi sul ruolo svolto dal cristianesimo come cardine del definitivo crollo dell’uno, in favore del sorgere dell’altro. È entro tale radicale passaggio che si sarebbe consumato, secondo l’autore, un pressoché totale arresto della possibilità d’una progressiva espansione umana. «Il monoteismo — scrive Cioran — comprime la nostra sensibilità: rinserrandoci ci scava dentro; sistema di costrizioni che ci conferisce una dimensione interiore a detrimento della piena maturazione delle forze, stabilisce una barriera, arresta la nostra espansione, ci scompagina»¹.
Concependo la libertà come diritto alla differenza², va da sé che dall’impossibilità umana di incanalare le proprie energie in altri che nell’unico suo Dio, scaturisca un vortice di aggressività al quale mai condurrebbe una equilibrata distribuzione dei benesseri e malesseri umani fra una pluralità di entità divine. Libertà in questo senso è infatti negazione, “sbriciolamento” dell’assoluto, a favore di una natura umana tanto variegata e particolareggiata da non poter essere lontanamente ricondotta ad un principio unitario. Se infatti l’affermazione di una causa prima autoponentesi ed autoaffermantesi sembra garantire da sempre l’inviolabilità e la sacralità di un mondo infinitamente perfetto, in quanto sua diretta creazione o derivazione che si voglia, non può che determinare, d’altra parte, l’irrimediabile scacco alla polivocità umana, imprigionata ora dentro la gabbia di una artificiosa quanto fittizia identità. Miglior vivere, per Cioran, spettava dunque agli antichi, i quali sapevano guardare ad una grande varietà di dei, rivolgendosi ogni volta a quello la cui tempra costitutiva andasse a secondare maggiormente l’istinto od umore particolare per il quale si approntavano all’invocazione.
L’interessante del discorso è che, di là dal mero ambito religioso-spirituale, esso sa applicarsi, con la medesima immediatezza, nonché efficacia, all’intero sistema di sfere entro cui si dipana e svolge l’esistenza umana nel complesso rapporto con le realtà ad essa più legate. L’aspirazione ad un principio che sia unico, dunque insostituibile, sembra riversarsi con la stessa risolutezza sul piano emotivo-sentimentale umano, comprovata dalla costante ricerca di quasi ognuno di quella sola, unica “metà” che, fra milioni e miliardi di persone, sappia compensarlo delle proprie mancanze. Il disinganno sparisce, come bolla di sapone, solo nel momento in cui a subentrare è la consapevolezza che quanto si cerca altro non è se non la possibilità di ottenere un riflesso di quella unicità ed insostituibilità di che si riveste l’altro. È timore da una parte di non bastare a se stessi, dall’altra di essere dimenticati e sepolti per sempre nella monocromatica massa degli altri a noi medesimi.
È dunque allora che, per ripristinare tale convinzione di unicità, ci si avvolge del tutto volontariamente quanto irrefrenabilmente nel monoteismo da un lato, e nella monogamia dall’altro. Ripari che hanno il “pregio”, o meglio il potere, di rimodellare il mondo per noi, inserendoci in questo come protagonisti indiscussi, sovrani insostituibili, padroni incontestabili di una identità solida ed affermata, che sia per di più la sola a distinguersi dalla restante indifferenziata massa degli uguali (perché della competitività non ci sbarazziamo nemmeno in un mondo ideale). È così dunque che, continua Cioran, «innalzando l’aneddoto umano alla dignità di dramma cosmico, il cristianesimo ci ha ingannati sulla nostra insignificanza, ci ha precipitati nell’illusione, in questo ottimismo morboso che, in spregio all’evidenza, confonde il percorso con l’apoteosi. Più riflessiva, l’antichità pagana lasciava l’uomo al suo posto”³; posto dal quale è stato in seguito violentemente strappato per venir collocato su di un temibile piedistallo in grado di stagliarlo sul restante esistente. Il prezzo da pagare per il raggiungimento di tale ambita posizione è alto, dacché costringe a scavare un abisso di distanza fra sé e tutto il resto. La pretesa d’unicità è desiderio di incomunicabilità, di inconciliabilità, è dispotismo e tirannia su una folla di voci che, dall’alto del proprio chimerico trono, non sono che rumore indistinto e confuso frastuono.
Ed è per tale motivo che, traslando il discorso anche su di un piano politico, secondo Cioran “nella democrazia liberale vi è un politeismo soggiacente e, inversamente, ogni regime autoritario ha in sé un monoteismo camuffato”⁴. Basti pensare, per averne una chiara esemplificazione, a quanto avviene per i grandi sistemi dittatoriali quali ad esempio quelli emersi nel corso del ventesimo secolo o quelli che, come il regime dei Kim nella Corea del Nord, continuano a tessere la trama della storia contemporanea. Una forma quest’ultima di monoteismo non poi così camuffata, dal momento che riesce da sola ad alimentare una intera organizzazione statale proprio grazie al culto e alla venerazione di che la figura dell’imperatore viene ammantata. Venerazione tale da far parlare, nel caso specifico, di “necrocrazia”, ovvero di una situazione politico-culturale in cui il potere è nelle mani dei due ormai trapassati dittatori Kim Il-sung (1912–1994) e Kim Jong-il (1941–2011), rispettivamente nonno e padre dell’attuale imperatore Kim Jong-un (1984), il quale si è difatti trovato a reggere le redini di un sistema governativo all’interno del quale le principali cariche politiche continuavano ad essere ricoperte da imperatori oramai passati a miglior vita. Tornando al saggista rumeno, ad accomunare questo impero della decadenza con il cristianesimo — nonostante le apparenze facciano pensare ad una assoluta mancanza di punti di incontro, date le numerose persecuzioni perpetrate dal regime nei confronti dei cristiani della Corea del Nord — sarebbe dunque proprio il fatto di fondarsi, l’uno quanto l’altro, sulla consapevolezza dell’utilità e del profitto possibili da trarsi da una forzata ed innaturalmente manovrata intromissione dell’aldilà nell’aldiquà.
Cioran, riportando una citazione di Giuliano (imperatore e filosofo romano vissuto nel corso del IV secolo, noto per il suo convinto quanto isolato tentativo di ripristinare il paganesimo, di contro alla sempre maggiore diffusione del cristianesimo), scrive che per le leggi antiche «poiché la vita e la morte differiscono tra loro in tutto e per tutto, gli atti relativi all’una e all’altra devono essere compiuti separatamente»⁵. In quest’ottica dunque la morte, in quanto negazione del soffio vitale spirante negli esseri non già estinti, meritava unicamente di venir confinata nella dimensione oscura dell’oltretomba, la quale doveva sì essere rispettata, ma al contempo accuratamente separata da tutto quanto riguardasse la vita degli uomini. Fu solo a partire dalla nascita e dalla progressiva ramificazione del cristianesimo che si tentò, e con successo, di ribaltare tale concezione, andando a colmare lo iato, fino a quel momento profondissimo, a separare le vite prima e dopo della morte. E questo sfruttando ciò che maggiormente nell’uomo creava, del tutto naturalmente, un ponte fra di esse, ovvero il sentimento della paura. Il proselitismo cristiano ebbe dunque modo di capillarizzarsi a tal punto, entro ed oltre i limiti dell’Impero romano, facendo leva sull’idea di una onnipotente provvidenza divina che, in quanto trascendente, si realizzava — e si realizza — mediante un sistema di retribuzioni ultraterrene direttamente proporzionali alle buone o cattive azioni assunte in questa vita dagli uomini. In pari modo la Corea del Nord continua a sfruttare il devotissimo culto personale degli imperatori morti per incutere un maggior senso di timore, oltre che di sottomissione, sui suoi sudditi, poggiandosi su un’idea di provvidenza questa volta del tutto immanente, in cui ovvero ogni rifiuto o minima critica nei confronti di tale ritualità vengono immediatamente puniti, come in un non più così distopico 1984, attraverso la reclusione nei campi di lavoro, o addirittura la pena di morte. Doppia scelleratezza, avrebbe osservato l’“Apostata” Giuliano, quella di concentrare in un’unica persona le caratteristiche proprie di un Imperatore e al contempo di un Dio, andandola in tal modo a privare di quei tratti che, soli, sanno renderla propriamente umana.
È dunque nel parossismo di una situazione mondiale devastata da conflitti ideologici, più che religiosi, che rimane come sospesa, in quanto non risolta, l’inderogabile e ormai irrimandabile scelta fra un principio unitario di individuale supremazia e il definitivo superamento dei più ostinati ̶ se non forzati ̶ tentativi di reductio ad unum dell’intero reale dei quali venga finalmente smantellata l’artificiosa natura. A noi qui la scelta, come a noi l’abdicazione.
Note:
¹ E. M. Cioran, Il funesto demiurgo, Adelphi, Milano, 1986, p. 35.
² Ivi, p. 40.
³ Ivi, p. 43.
⁴ Ivi, p. 40.
⁵ Ivi, p. 42.