Cloverfield: evoluzione o involuzione narrativa?

Un’analisi filologica del franchising prodotto da J.J Abrams: la moderna realizzazione di un monster movie sperimentale

Stefano Cappuccelli
La Caduta 2016–18

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DOCUMENT #USGX-8810-B467 — DIGITAL SD CARD MULTIPLE — SIGHTINGS OF CASE DESIGNATE “CLOVERFIELD”

Fu ciò che lessi quel sabato pomeriggio di dieci anni fa, seduto in sala, accompagnato da un amico, puntualmente sacrificato e che, ingannato dalle mie scusanti, ripeteva assorto in una specie di loop: “ma ci stanno gli zombie?”. In realtà sapevo ben poco anch’io, presumevo fosse un monster movie, o quanto meno deducevo che lo fosse; in realtà, la ragione principale della mia presenza, era riconducibile unicamente a quella locandina così dura e dissacrante, che mostrava La Libertà che Illumina il Mondo mostruosamente decapitata da qualcosa che, in teoria, non doveva esistere. In totale, ricordo che alla prima proiezione eravamo a grandi linee in cinque, la volta successiva non meno di quaranta. Vi risparmio quante altre volte lo vidi in sala, non ci credereste, mi limito a dirvi che fu la netta e necessaria conseguenza alla più imponente mole di interrogativi che un film mi abbia mai suscitato. Per lo meno uno dei pochi.

La tragica bellezza della Statua della Libertà mozzata.

La sua sinossi è stata, per un breve lasso di tempo, fuorviante. Le prime sequenze mostrano infatti gli intenti di tre giovani ragazzi nel preparare una festa di pre-partenza per un tale Rob. Durante questa’ultima, il film assume dei veri e propri connotati riconducibili ad un teen drama, dove Rob litiga e si strugge d’amore per la sua ex ragazza Beth. Proprio durante una di queste scene, la sequenza viene bruscamente deviata da una massiccia esplosione proveniente dall’altra parte della città, il resto è storia. Una colossale creatura si muove in città, i militari tentano invano di abbatterla senza significativi risultati e il nostro gruppo di amici, intenti a recuperare Beth, si ritrova sistematicamente nel fulcro degli avvenimenti.

Diretto da Matt Reeves, e prodotto da J.J Abrams, Cloverfield rappresentò, senza esagerazioni, una vera e propria reinterpretazione e sublimazione del genere monster movie, andando ben oltre quegli schemi canonici, proposti per oltre cinquant’anni dal Sol Levante. Partiamo da quell’immediato dettaglio che non vedevamo dagli anni ’90 con The Blair Witch Project, ossia: il found footage. L’idea di combinare un film fondamentalmente catastrofico, con una tecnica di ripresa che definiremo “amatoriale”, è un’idea a dir poco acuta, per quanto essa non sia effettivamente una trovata d’autore. L’impiego di questa soluzione è stata propedeutica per la sua ascesa a cult, proponendo sequenze e piani al cardiopalmo, decisamente più calzanti e dinamici.

Un esempio dei più caotici della tecnica del found footage utilizzato nel film.

Altro elemento fondamentale orbita attorno la genesi della creatura. Nell’immaginario collettivo cinematografico, il Clover — come è stato ribattezzato dagli internauti — o L.S.A (Large Scale Aggressor) non ha praticamente nulla di originale; basti pensare al grottesco, quanto certosino, lavoro perpetrato per decadi dai modellisti di compagnie come la Toho Company: dal sempreverde Godzilla, ad altri Kaiju decisamente più singolari, come Hedorah, Ogra, Biollante, Gigan, Destoroyah, Mechagodzilla e ovviamente Ghidorah. A questi vanno ad aggiungersi altre iconiche creature ricorrenti nel Tokusatsu Movie, come Gamera o alcuni storici villans dell’universo Ultraman, come Bemular.

Toho Kaiju

Ciò nonostante, la creatura incarna ugualmente una forte presenza visiva, presentando note comportamentali piuttosto inedite nel classico giapponese. Va di fatto ricordato che dalla sua comparsa il Clover si muove, almeno apparentemente, senza scopi e/o moventi, rasentando una vera e propria primordialità biologica. Il suo concept è senza dubbio orrorifico e sicuramente “molto poco americano” (citando Stanis La Rochelle), con questi arti anteriori lunghi e poco affusolati, postura lordotica, coda anfibia e un volto piatto e dentato, contornato alle estremità da enormi membrane orbitali arancioni. Oltre alla sua forma anche il suo lamento è definibile a sé: un suono acuto, poco gutturale, che — in piena tradizione Kaiju — rappresenta nell’interezza del film, un autentico climax. Naturalmente non possiamo e non dobbiamo dimenticarci dei suoi derivati, dei suoi parassiti, che la cricca dei protagonisti deve fronteggiare nei meandri della metropolitana di New York. Questi esseri, dalle dimensioni di canidi, sono l’elemento di transizione della pellicola; che passa dal anomalo monster movie, al survival horror, con sequenze buie e plumbee, violente e con esiti “esplosivi”. Infine, ricollegandoci alla sua genesi, il più grande interrogativo, nonché il vero elemento di distinzione è: da dove proviene la creatura? La reale provenienza del gigantesco mostro, che misura oltre ottanta metri, è il fondamentale interrogativo che permea l’intera pellicola oltrepassando la sua estensione temporale: ad oltre dieci anni di distanza, rimane infatti uno dei misteri, non ancora svelati, più imponenti del film… forse fino ad oggi.

Un modello del Clover

Il genio, più che nella sua strutturazione tecnica, è insito nella sua perfetta campagna virale, la più performante mai osservata dalla mia persona. In rete, prima e dopo la pubblicazione della pellicola, furono osservati dozzine di elementi, tutti riconducibili alla campagna virale di Cloverfield: il finto reportage che mostrava la distruzione di una piattaforma Giapponese — appartenente alla Tagruato Company — a largo di Bermuda. La comparsa di veri e propri siti fantasma, come quello della fittizia holding Nipponica sopracitata, elemento cardine ricorrente nel setting dell’intera saga. O il misterioso Aladygma, diagramma di Amygdala che, nella sua visualizzazione minimale, nascondeva dei file immagine, visionabili solo evidenziando l’intera pagina. A questa mole di viral dobbiamo categoricamente aggiungere un’altrettanta mole di easter egg. Questi sono celati in tutto il film, spesso nascosti in inquadrature ricercate o in semplici fotogrammi fulminei, come ad esempio l’ottagono che si intravede per qualche istante nella fase iniziale citata nella testa dell’articolo. Quello strano simbolo visualizzato in basso a destra, dove era stato già visto? Semplicemente in Lost. Infatti quell’ottagono, è proprio il logo della Dharma Initiative, multinazionale ampiamente discussa e presente nella mitologia della serie che, guarda caso, è stata ideata proprio dal nostro J.J.

Dharma Initiative logo

Altro elemento proveniente direttamente da un precedente lavoro del regista è ad esempio la Slusho, una sorta di bevanda già presente nell’universo di Alias e che sembrerebbe prodotta sempre dalla stessa Tagruato. Dallo strano oggetto che cade in mare al termine del film, durante l’inquadratura finale a Coney Island, al messaggio radio al termine dei crediti finali che vedrebbe un soldato pronunciare la frase “It’s still alive”, riavvolgendo al contrario l’audio dei titoli di coda realizziamo quanto effettivamente sia vasta questa produzione.

Il cast è sicuramente l’elemento meno in vista, vuoi per quel tipico sentore di debutto che permea l’intero gruppo, vuoi per la creatura che, inconsapevolmente, ruba la scena. Chiarito questo, i protagonisti sono quanto meno funzionali, fanno il loro dovere e riescono a stare al loro posto, riuscendo a trasmettere le uniche vere sensazioni che contano in questo film: ansia, paura e impotenza.

Rob, Marlena e Lily

Cloverfield ebbe successo, non solo al box office, ma anche fra la critica, che ne riconobbe il suo indubbio valore. Ciononostante, con lo scandire del tempo, il futuro del progetto compariva sempre più opaco; persino l’internet iniziava a perderne interesse, inoltre i suoi autori cominciavano a proiettarsi verso altri lidi, con produzioni tripla A già contrattate.

Non esagero nel dire che quel teaser trailer mi causò non pochi disagi. Senza alcun preavviso dovetti subito prendere consapevolezza che nel titolo era presente la parola “Cloverfield” (con il medesimo font); inoltre alla produzione c’era sempre lei, la Bad Robot di Abrams. Era stato appena presentato il sequel. Al di là della distribuzione nostrana, terribile, una delle peggiori mai viste, 10 Cloverfield Lane, doveva rappresentare una chiave di lettura a non pochi quesiti. Diretto da Dan Trachtenberg, il film vede una sempre meravigliosa Mary Elisabeth Winstead, reclusa nel bunker di un paranoico John Goodman — rivisitato in chiave prepper — assieme ad un desueto John Gallagher Jr.

Alcune immagini da 10 Cloverfield Lane.

Non fraintendetemi, 10 Cloverfield Lane, è un film tutt’altro che brutto, capace d’instillare una forma d’ansia completamente differente rispetto a quella del precedente capitolo, questa volta orientata su un persistente senso di alienamento. La narrazione si apre per l’appunto nel bunker dove la giovane ragazza rinviene a seguito di un sinistro stradale; qui lei apprende, tramite il proprietario della struttura, che all’esterno si sta consumando un qualcosa di terribile (la mia mente era già proiettata a qualcosa di taglia grossa). In breve tempo, la nostra attenzione si discosta dalla presunta e ignota natura del disastro esterno per focalizzarsi sulla crescente tensione fra gli occupanti del bunker. Qui assistiamo ad un crescendo di isterismo intriso di paranoia, che inequivocabilmente porta a galla la vera natura di un uomo. L’atto finale, mostra de facto, una vera invasione aliena in piena regola, che definisce la sua quasi totale inappartenenza con tutto ciò che il Cloverfield predecessore aveva proposto; definito postumo “consanguineo” ma deludendo le aspettative di chi, come me, era stato traviato da un trailer, che invece qualcosa fingeva di voler dire.

La Particella di Dio — God Particle, nonché titolo di lavorazione per quello che sarebbe poi divenuto The Cloverfield Paradox, ci catapulta dinanzi al terzo atto della saga. Un capitolo che personalmente spaventava, essendo reduce da un precedente film che, seppur notevole, non aggiungeva nulla al setting del primo capitolo; eppure le premesse erano che questo Paradox avrebbe svelato i misteri siti dietro la genesi dell’intero arco narrativo, ma è stato così? La risposta è: probabilmente sì, ma mi auguro vivamente di no. La chiave di lettura di questo terzo capitolo è completamente scindibile da ciò che abbiamo osservato con i due precedenti capitoli e questa volta l’elemento catalizzatore è nientemeno che: la fantapolitica. Sì, la fantapolitica è l’espediente che giustifica e determina la presenza di questa imponente stazione orbitale denominata senza troppi giri di parole: Cloverfield.

Alcune immagini da The Cloverfield Paradox.

La ragione insita dietro la sua stessa esistenza presenta dei connotati che rasentano il distopico, con un pianeta Terra che ha esaurito le sue fonti di approvvigionamento energetico, fa sì che alcune nazioni, alla deriva nazionalista e imperialista, alzino amari venti di guerra. L’unica soluzione che precluderebbe il conflitto armato è l’acceleratore Shepard, le cui speculazioni lo riterrebbero in grado di ovviare a tale deficit energetico. La premessa è semplicemente questa, ma con una lieve differenza. È chiaro sin da subito, in particolare a seguito dell’intervento di un teorico della cospirazione, che l’intero sistema narrativo orbiterà attorno all’acceleratore stesso, tramutando il film nell’ennesima (e ahimè non qualitativa) space opera dalle atmosfere survival horror. Elementi e soluzioni grottesche e dozzinali, archetipi in pieno stile sci-fi anni ’90.

La teoria del multiverso

L’anello di giunzione con il Cloverfield di Reeves potrebbe celarsi dietro la teoria del multiverso. Questa potrebbe difatti giustificare la presenza, non solo dell’imponente creatura presente nel Paradox, ma anche dell’organismo che devastò Manhattan nel primo film. Postuliamo per assurdo che l’acceleratore abbia lacerato quella realtà, trasportando la Cloverfield in quella che, fumettisticamente parlando, chiameremo Terra-2. Ora, l’eventualità che l’accensione dello Shepard abbia danneggiato il tesserato dello spazio-tempo è quanto meno appurata, non è invece appurato il modus operandi che giustifica la presenza delle creature sulla Terra. A questo punto, potremmo pensare che non abbiamo unicamente osservato due mondi speculari, ma che una terza porta sia stata aperta a senso unico, ossia su Terra-1. Infatti gli effetti speculari osservati nello spazio fisico di Terra-2, sono riconducibili alla sola presenza della stazione spaziale che, occupando il medesimo spazio, ne ha impegnato persino la stessa fisicità, combinando qualsiasi cosa: aggregazione, struttura atomica, sinapsi, ecc.

L’acceleratore di particelle Shepard.

Tutto ciò come si collega al primo film? Si potrebbe teorizzare che, la creatura del 2008, sia l’ennesima fuoriuscita dal varco generato dallo Shepard che non collide il solo spazio, ma anche il tempo, proiettando il mostro vent’anni nel passato, perché sì, The Cloverfield Paradox pare sia ambientato nel 2028. Questa teoria definirebbe quindi questo capitolo come prequel, lasciando comunque interdetti molti, me compreso. Tuttavia, qualcosa non torna. Se realmente il Clover di NY è frutto di uno spostamento spazio-temporale, mettendo a frutto gli insegnamenti di Doc, si creerebbe una linea temporale alternativa, in cui gli abitanti del 2028 hanno piena coscienza del fatto che, un ventennio prima, una creatura di quasi cento metri ha devastato Manhattan. Ovviamente, al di là delle teorie più disparate, non è stato confermato nulla da parte della produzione, che al contrario ha annunciato un quarto capitolo per la fine dell’anno. Questo si intitolerà Overlord, e sarà ambientato nel ’44, nel pieno della WWII, dove un drappello di militari alleati sono intenti ad indagare e sgominare una rete nazista dedita allo sviluppo di armi occulte.

Overlord sarà il titolo ufficiale? Verrà distribuito seguendo l’iter del suo predecessore? Quali legami avrà con la serie? Per qualsiasi risposta, non ci resta che attendere ottobre, e sperare in un qualcosa di più concreto e meno vacuo. Tornando al Paradox, una cosa è quanto meno chiara: la post produzione. È decisamente evidente come i produttori abbiano voluto, forzatamente, collegare la pellicola al franchising, generando una serie di falle di sceneggiatura chiare e tediose. Sotto questo profilo, gli espedienti narrativi di richiamo alla serie sembrano letteralmente incollati a mo’ di collage sopra un film di tutt’altro gruppo sanguigno. Se nel complesso il film risulta mediocre, quei limitati punti di forza, combinati ad una buona resa visiva, avrebbero potuto offrire una modesta pellicola d’intrattenimento senza pretese. Qui, al contrario, si tenta di ricercare qualcosa di differente, rimanendo profondamente delusi, e non solo. Non credo di essere stato l’unico a notare come questo film abbia danneggiato sistematicamente il primo capitolo della serie, ma come? Per rispondere a questa domanda, vi porgo un esempio proveniente direttamente dai meandri della nona arte. Nel 1987, dopo l’uscita di Aliens, la 20th Century Fox, commissionò a Dark Horse Comics una miniserie da includere nella timeline ufficiale del film di Cameron. La serie fu affidata a Mark Verheiden e Mark A. Nelson che realizzarono un’opera espansa incredibilmente estetica e dura. Il sodalizio fra Dark Horse e Fox, continuò finché, nel 1992, uscì Alien 3. La sua distribuzione decanonizzò il duro lavoro di Verheiden e Nelson con i soli titoli di testa. Alien3 non va considerato un passo falso, anzi, lo difendo il più delle volte con le unghie e con i denti; ma lasciatevi dire che siamo anni luce dalle sceneggiature comparse sulle pagine di Aliens. Altro esempio lampante è Highlander II — Il Ritorno che, perdonate il francese, è uno schifo. Anche in questo caso, Paradox rischia seriamente danneggiare tutte le auree di mistero che orbitavano attorno al primo film.

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