Con DOOM il futuro degli FPS vive nel proprio passato

Come una concezione di gameplay vecchia di due decenni rappresenti nuova linfa vitale per un genere sempre più monotono

Lorenzo Mondaini
La Caduta 2016–18

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La presentazione del reboot di DOOM durante l’E3 dello scorso anno lasciò a bocca aperta sia la platea del Los Angeles Convention Center che migliaia di appassionati incollati alla diretta streaming. Dopo rumor, rinvii, smentite e altre cose brutte, nessuno credeva più in un nuovo capitolo dell’iconica saga.

La presentazione all’E3 2015 e le urla del pubblico ad ogni epic kill.

La Bethesda ha lavorato per anni al gioco, senza mai esserne pienamente soddisfatta. Come spiegato da Pete Hines, vice president di Bethesda, il gioco ha subito un lungo e travagliato processo, con la cancellazione di una sostanziosa demo nel 2011 e la ricostruzione di un nuovo team di lavoro per ripartire da zero.

You can probably close your eyes and imagine a ‘Call of Doom’ or a ‘BattleDoom’ game, where it starts to feel way too much like: “Wait, this doesn’t feel like Doom, it feels like we’re playing some other franchise with a Doom skin on it” — P. Hines

La breve demo trapelata online qualche tempo fa infatti mostrava un Doom completamente diverso dal concept originale. Era ambientato in un luogo reale, una città americana, aveva una trama abbastanza complessa e si poteva giocare con più personaggi diversi. Insomma, come descritto da Martin Stratton, executive producer di idSoftware, era una versione “più seria” di DOOM. E questa, in fin dei conti, non sarebbe piaciuta quasi a nessuno. Dopo la dipartita, nel 2013, del (ex)boss John Cormack, grazie al supporto di Bethesda, Stratton e soci hanno avuto un’altra possibilità, quella buona.

Proprio la semplicità e l’immediatezza, coi quali la idSoftware creò al tempo un genere (e un cult) videoludico, sono gli elementi chiave di cui la stessa casa di produzione si è servita per dare alla luce il remake che il mondo del gaming aveva bisogno. Il successo del nuovo DOOM— uscito il 13 Marzo 2016 per PS4 e XOne e solo successivamente per PC — , risiede quindi nel proprio passato, in quei lontani mid-nineties fatti di grossi pixel, bit music e floppy disk. Una breve retrospettiva per spiegare la magnificenza del nuovo prodotto di Bethesda.

La vita dopo Doom

Il Doom originale sorprendeva per velocità, violenza e divertimento. Complice un game design già testato con Wolfestein3D — prima vera pietra miliare degli FPS—la idSoftware presentava un videogioco innovativo sotto qualunque aspetto. Il debutto nel 1993 fu un successo fin dall’inizio grazie alle grandi innovazioni tecnologiche che introdusse: il motore grafico idTech 1 (o semplicemente Doom Engine) migliorò la risoluzione e aumentò l’utilizzo delle texture, e permise la creazione di dislivelli e di elementi mobili come gli ascensori. Inoltre fu uno dei primi giochi a permettere la modalità multiplayer, sia in locale che online, in due differenti versioni: cooperativa o deathmatch. Le meccaniche di gioco erano, come detto, simili al predecessore Wolfenstein ma più rapide e fluide. Lo studio texano fece della semplicità il suo punto di forza maggiore: l’unico obiettivo del gioco era sopravvivere in un inferno di brutalità, eliminando tutti i nemici in ogni livello presente. Non c’era trama, ma solo un gameplay intuitivo, stimolante, con un ritmo forsennato e una marea di sangue. Non bisognava attingere a nient’altro che ai propri riflessi, per un gioco concepito con una filosofia meccanica e ripetitiva. L’animo arcade infatti divenne un marchio di fabbrica e fece innamorare grandi masse di giocatori — all’epoca, furono circa 10 milioni le copie vendute — tanto da spingere lo studio a produrre in fretta il nuovo capitolo Doom II: Hell on Heart, nel 1995. Lo stile di Doom fu fonte di ispirazione assoluta per tutti i successivi shooter. Da lì a poco esordirono titoli importanti, i quali apportarono notevoli novità tecnologiche, come Duke Nukem 3D, Marathon o Quake (altro prodotto di idSoftware), quest’ultimo in particolare grazie alle potenti prestazioni del Quake Engine. La vera svolta però avvenne nel 1998 con l’ingresso nel settore da parte di Valve e del suo Half-Life. La pluripremiata saga fu la prima a combinare, in maniera magistrale, una narrativa avvincente negli sparatutto, evolvendo radicalmente la concezione del genere stesso. Se prima si veniva catapultati in degli scenari sterili di emozioni, ma pieni di cartucce, Valve ci accompagna in un mondo realistico, che dipende solo in parte dalle nostre azioni. Attraverso le vicende dello scienziato Gordon Freeman nella Black Mesa Research Facility, viviamo un’esperienza intensa e ammaliante che supera il mero atto di uccidere. Lo storytelling abbracciava l’azione e sanciva l’inizio di una nuova (ma breve) era per gli shooter in prima persona.

Situazione tipica nel nuovo Doom: tu contro 350mila demoni.

L’era dei replicanti e la crisi evolutiva

Dopo il fenomeno di Half-Life, il genere videoludico ha sofferto — e soffre tuttora — di una sorta di fossilizzazione. Sono passati quasi vent’anni dall’uscita del primo capitolo della serie creata da Valve, e con l’avanzamento della tecnologia gli shooter hanno avuto moltissimi sviluppi relativi al comparto visivo e alle tecniche di gioco, ma nessuna vera innovazione. La veste cinematografica e il senso di spettacolarità in particolar modo hanno preso il sopravvento. La narratività è diventata l’elemento preponderante, tra cut scenes delle campagne sempre più lunghi e curati e background dei personaggi molto approfonditi. Il tutto senza (quasi) mai consegnarci delle avventure davvero interessanti ma allo stesso tempo non invasive in termini di continuità di gioco e impeccabili sotto l’aspetto tecnico. Una tendenza che è andata a discapito del fulcro del genere, quello in cui ci si concentra per eliminare i nemici cercando di rimanere in vita il più a lungo possibile. Nemmeno nei più famosi esempi di fusione tra generi, come l’iconica serie di Bioshock che unisce elementi degli RPG alla frenesia degli FPS, è riuscita a risolvere la situazione e fermare il declino evolutivo. Sull’onda di questa fase dormiente intanto, saghe interminabili come Call of Duty o Battlefield hanno costruito la loro fortuna e continuano a dominare il mercato: sfornando nuovi capitoli a frequenza annuale e/o biennale questi titoli costituiscono l’attuale spina dorsale di tutto il settore degli sparatutto, pur essendo fondamentalmente privi di profondi cambiamenti l’uno dall’altro.

Ritorno alle origini

Il nuovo DOOM segna una totale inversione di rotta per se stesso e forse anche per l’intero genere degli shooter. Al contrario dell’attuale generazione di videogiochi, impegnati ad aggiungere massicce espansioni alle tecniche di gioco o nuove modalità nel multiplayer versante online, il reboot della creatura di id Software sceglie di nuovo, seguendo l’originale, la semplicità e l’immediatezza come fattori base sui quali costruire una vera esperienza di sparatutto. Niente trama complicata, niente video di intramezzo. Solo pure sessioni di gioco. Si viene immediatamente catapultati nella base marziale UAC, ci si risveglia sopra un trono dagli strani segni demoniaci, e dopo pochi secondi si è già pronti per sparare ai primi mostri. Grazie alle poche scene in-game e ai documenti collezionabili che ci fanno da report, si viene a conoscenza di tutti i dettagli della trama lineare (che non sta per sinonimo di banale) e dell’epico destino che avvolge le figura del Doom Slayer, anche detto Hell Walker, proprio per la sua capacità di passare tra Inferno e vita terrena come nulla fosse. Sul lato del gameplay, la filosofia è identica: nessuna strana personalizzazione di armamentario (si ha la possibilità di scegliere, solo dopo averle sbloccate, alcune ristrette funzionalità secondarie), né di equipaggiamento (a parte dei miglioramenti all’armatura, anche questi sbloccabili nel corso del gioco) e soprattutto nessun accesso a mezzi particolari. Si ha a disposizione un limitato set di favolose armi (tra cui la tradizionale motosega) e l’interazione con l’ambiente è limitata, così da non avere l’opportunità di nascondersi ed essere costretti ad affrontare a viso aperto ogni nemico. L’unica ancora di salvezza è il movimento, che deve essere agile e reattivo quanto più possibile. Un’impostazione di gioco denominata push forward combat e che rappresenta il nocciolo del videogame.

Ciò che sorprende insomma sono la fluidità e la velocità dei movimenti anche nelle scene più concitate, quelle che trasformano le varie ambientazioni in delle arene da carneficina. Una qualità tecnica difficile da trovare, la quale testimonia anche il grande lavoro svolto dal team di sviluppo con il motore grafico idTech 6(66), un vero e proprio gioiello tecnologico.

Come accadeva in passato, il nuovo capitolo concentra tutto il divertimento sulla funzione principale di questo genere, quella dello shoot and load. Lo stesso executive team infatti ha spiegato più volte e in varie occasioni come le semplici caratteristiche del gioco originale abbiano influenzato e ispirato il processo produttivo di questa nuova versione.

Con l’aggiunta della Arcade Mode con il quarto DLC Free Update del 19 Ottobre, il gameplay di DOOM raggiunge il massimo della sua natura: con un’impostazione score attack si ha la possibilità di rigiocare qualsiasi livello, con tutte le armi e gli update sbloccati e a qualunque difficoltà si voglia, con l’unico obiettivo di totalizzare il punteggio più alto possibile. La ripetitività passa dall’essere anello debole a fulcro del divertimento. La difficoltà crescente testa le tue abilità, ti brucia i nervi, ti spinge ai limiti. Quasi come in un FPS arena.

L’unico ed eccezionale gameplay di DOOM rappresenta un nuovo (ma vecchio) paradigma per gli sparatutto moderni. Uno stile di gioco che gli sviluppatori non sembrano intenzionati ad abbandonare — come conferma la risposta dell’art director Hugo Martin a una mia domanda nel loro AMA di Reddit e come rivedremo, in versione ancora più spinta, in Quake Champions—e che speriamo possa in qualche modo rivitalizzare il genere videoludico dei first person shooter.

PS: il multiplayer di DOOM non fa testo, perché fa abbastanza schifo purtroppo. Se avessero adottato lo stesso stile del single player anche online, Bethesda avrebbe proposto un FPS arena molto promettente — oltre ad avere i server pieni di giocatori. Invece ha affidato lo sviluppo a Certain Affinity, quelli di Call of Duty: Ghosts e Halo 4, roba scadente insomma. Peccato.

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