Con Trentemøller a Milano tra nebbia, post-punk e cassa dritta

Al Fabrique l’artista danese porta in scena le nuove atmosfere di Fixion. Si potrebbe parlare di revival dark-wave, ma non sarebbe giusto

Enrico Del Bianco
La Caduta 2016–18

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Anders Trentemøller è un artista vero, di quelli che ce ne sono pochi. Non si chiama Paul McCartney e nemmeno Ricardo Villalobos, ma fa cose che né l’uno né l’altro potrebbero fare, con uno stile unico ed il coraggio costante di cambiarsi d’abito, contaminarsi, uscire fuori di casa, collaborare con tutto il mondo e farlo a modo suo. La domanda costante che ci facciamo su Anders è questa: è un dj? È un producer? È Superman? Presentatosi al mondo come il nuovo campione della minimal house con The Last Resort nel 2006, ha avuto appena il tempo di attirare l’attenzione prima di cambiare completamente le coordinate e la direzione del GPS.

“I never wanted to make club music,” dice Trentemøller “Truth is, I don’t see myself as part of the electronic music scene. Maybe I’m even more part of the indie scene, although that’s also not quite right.”

La sua vena indie, che già primeggiava nel suo biglietto da visita, infatti ha preso ancora più spazio nel seguito Into The Great Wide Yonder (2010) e nel sorprendente terzo album Lost del 2013, pieno zeppo di collaborazioni tra cui Low, Blonde Redhead, The Drums e Raveonettes. Comunque sia le etichette non sono mai piaciute a Trentemøller: a lui piace fare musica e basta. Avendo cominciato a suonare in bands alternative rock negli anni ’90 («Joy Division and New Order are my favourite bands») e avvicinatosi all’elettronica nei primi anni 2000 grazie ad un viaggio nella Bristol di Massive Attack e Tricky, Anders si è sempre rapportato alla musica in maniera giocosa e innamorata — e gli è sempre interessata più l’emozione trasmissibile da una canzone che la sua collocazione o la direzione stilistica verso cui portasse — e ciò gli fa onore in un mondo sempre più diretto verso i revivals, il passo sicuro e le pose omologate.

«Young people now are making too much effort to sound like music that is already out there. […] But in the end you want to create your own sound. Chasing your own dream is much more fun than chasing someone else’s.»

L’ultimo lavoro Fixion non è altro che l’ultima naturale conseguenza dell’amore di Anders per il post-punk: tra gli ospiti del disco anche Jehnny Beth delle Savages (per cui ha mixato Adore life l’anno scorso), in un viaggio romantico nel post-punk — il quale forse più che resuscitato non è mai davvero morto.

Non si poteva (allora!) mancare alla data milanese del preminente artista danese. Arrivo insieme a PietroG al Fabrique — dove l’anno prima avevo visto Fabri Fibra portare in tour Squallor 💘️️ — giusto in tempo per poggiare la giacca al guardaroba e vedere la salita sul palco di una band intera: sì, perché Trentemøller non è uno che fa i set con la chiavetta, e se potesse si porterebbe dietro tutti gli ospiti del disco. E anche se manca Jehnny Beth, poco male, perché ad accompagnarlo ci sono la bravissima cantante Marie Fisker, una chitarra, un basso ed un batterista pelato — sempre garanzia di essere fortissimi ai tamburi. Poi al centro del palco, lui, con il suo ciuffo da madre single e le sue tastiere.

November — l’inizio.

Il concerto inizia con l’atmosfera nebbiosa di November, straight outta l’ultimo disco e l’ombra post-punk si prolunga dentro One Eye Open e Never Fade; finita l’introduzione al nuovo corso di Trentemøller si torna per un attimo al rock sognante di Shades of Marble per poi tornare alla wave che perdurerà per tutto il concerto — essendo Fixion il disco presentato in tour. La sfilata post-punk del concerto sarà ogni tanto interrotta dalle atmosfere che hanno reso famoso Anders, con canzoni come Miss You, Vamp e Moan a stornare l’oscurità e solleticando il pubblico al ballo.

Dancing — to the radio.

Il pubblico, a guardarlo, è tra i più variegati. L’assortimento è particolare: ci sono coppie etero e gay, ragazze che baciano ragazzi alterni, qualcuno che ringrazia qualcun altro per quel che ha messo nel drink, e poi tanti abbracci, tanti sorrisi, più donne che uomini, più rughe che gioventù; lo spaccato è interessante, specchio riflesso dell’anima ibrida di Trentemøller, che incarna la figura del dj ma ha una band e suona tutto live; che ha la cassa dritta pronta a far partire la techno e farci ballare, ma inoltre capace di creare e ricreare certe atmosfere dark/gothic di fine anni ottanta care soprattutto alle rughe che partecipano al concerto. È questo, un dualismo tra house e post-punk, tra dj e band, trasversale, che coinvolge sia nostalgici degli anni ’80 che clubber sotto effetto. Più di tutto, piacevole è la commistione, il naturale divertimento, il reale coinvolgimento, le relazioni che Anders instaura ed evidenzia, alternativamente con la band e col pubblico. Comunque, la risposta è sempre positiva: mani che si alzano, qualcuno che urla, qualcuno che chiude gli occhi e si lascia trasportare, andare in trance.

Dopo un’ora e mezzo circa il concerto si avvia verso la fine: prima di congedarsi Anders ci regala la traccia con cui ha stregato il mondo, Take Me Into Your Skin. Non c’è modo migliore di concludere questa serata, credo. Usciamo dal Fabrique e non fa per niente freddo: C’è già aria di primavera, dice Pietro. Io sento solo lo smog, ma dico È vero, è più caldo, ultimamente.

Grazie a Pietro Giorgetti.

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