Destiny 2 e quelle buone minestre che valgono una fortuna

Un’analisi da insider del nuovo sparatutto Bungie: tra un multiplayer competitivo abbozzato e un’esperienza endgame moderatamente appagante

Giacomo Alessandrini
La Caduta 2016–18

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Il 6 settembre scorso esce, per PS4 e Xbox One (atteso per il 24 ottobre su pc), Destiny 2 — il seguito dell’amato/odiato Destiny — sviluppato dalla statunitense Bungie e prodotto da Activision. Ma questo forse lo sapete già, o semplicemente non vi interessa. Quello che volete sapere è se un videogioco del genere vale l’acquisto, e soprattutto, per chi conosce già il primo capitolo, quali sono le differenze sostanziali. Sfortunatamente o meno, posso considerarmi un navigato guardiano del Viaggiatore; un membro di quella disprezzabile community che frequenta i social network. Da principio attivissimo e poco incline alla socializzazione, ora attivissimo e selettivo nella scelta dei propri partner di gioco. Da più di due anni faccio parte di un clan di smargiassi dalla bestemmia facile, che pensano più a scambiarsi opinioni sulla caducità dell’esistenza piuttosto che dedicarsi allo sviluppo del proprio alter-ego digitale. Ne faccio felicemente parte — sia chiaro — perché da sempre il fine ultimo del videogioco è stato “comunicare”, mettere gli utenti nella condizione di partecipare obbligatoriamente a party per portare a termine raid e sfide in crogiolo (la componente pvp: tra deathmatch a squadre e modalità di sopravvivenza che prevedono una strategia, e un ripensamento della stessa, a seconda della mappa e dell’equipaggiamento nemico). Sono nate amicizie, dissapori e legami talmente stabili da portare i videogiocatori ad incontrarsi, di persona. Così ho avuto modo di conoscere il capo-clan in una piovosa serata romana, tra una birra e una sigaretta a Campo de’ Fiori. Ci si raccontava dei mesi trascorsi insieme a caccia del drop definitivo, dell’emozione provata all’uscita dell’ultima espansione (I Signori del Ferro) e la delusione di un incursione visivamente caratteristica, tra picchi innevati ed evocativi ambienti dominati dal metallo, quanto deprimente e lineare. Entrambi dalle aspettative alte per un nuovo capitolo, abbiamo passato notti insonni a cercare di raggiungere il bramato “faro” nelle Prove di Osiride (squadre da 3vs3 si affrontano in una serie di deathmatch ad eliminazione con lo scopo di raggiungere nove vittorie consecutive per usufruire di un equipaggiamento unico). La Volta di Vetro, La fine di Crota, La caduta di un Re, incursioni che per me hanno intervallato un anno di studio, tra noia e stupore, tra il desiderio della novità costante e la gioia della ripetizione standardizzata. Un rito, quello del martedì, del reset settimanale delle attività di gioco, che ha accompagnato noi giocatori, noi dipendenti e consumatori, a giocare “tutto e subito”, ad organizzarsi per portare a termine il più in fretta possibile le richieste dei png e dell’universo espanso. Un gioco dal potenziale enorme, il Destiny del 2014, che con i suoi infiniti problemi (una trama inconsistente, mancanza di server dedicati, elementi da gdr abbozzati, missioni ripetitive e un endgame frustrante votato al massacro a colpi di lag), è riuscito comunque a stupire e tenere incollati allo schermo milioni di videogiocatori.

In Destiny 2 Bungie decide di rilegare la componente pvp a due playlist, veloce e competitiva, impedendo ai videogiocatori la scelta della modalità e promettendo l’inserimento di partite private a data da destinarsi. La campagna, che fa della trama il suo punto forte, risulta in ultima analisi banale e a tratti frustrante, a causa di un livello di sfida infimo, che vede il casual player come oggetto del desiderio, un target facile da accontentare e manipolare dal publisher. Come il primo Destiny — che ha fatto della politica del season pass un marchio — siamo schiavi consapevoli di un investimento a lungo termine. “E’ identico al primo!”, e in parte è così. Prendendone gli elementi interessanti (gunplay, immediatezza, personalizzazione del pg ed armamento, calendario eventi) sono riusciti a soddisfare neofiti e cultori. I problemi non sono legati ai nuovi e vecchi protagonisti che trovano identità nel racconto (i maestri dell’avanguardia Cayde-6, Ikora e Zavala), ma all’estrema semplificazione dell’albero-abilità delle sottoclassi e la mancanza di una scelta autonoma della difficoltà. Giocare con gli amici in alcune missioni le fa risultare fin troppo facili — al limite del frustrante — del tutto o quasi (le modalità Cala la notte e L’incursione del Leviatano uniche eccezioni) accessibili ad un single player disinteressato. Un livello di sfida essenziale e un crogiolo di contorno: un matchmakinga metà”, basato su un algoritmo che accoppia utenti per velocità di connessione. Non esiste giustizia, nemmeno nella scelta dell’equipaggiamento. Il 35% degli utenti, tra PS4 e Xbox, utilizza esclusivamente un arma cinetica nei deathmatch a squadre, considerato l’equilibrio tra stabilità, gittata e perk intrinseca (possibilità di guardare il radar mentre si mira). Bungie, interessatasi su richiesta della community al problema del bilanciamento armi (cannoni portatili e fucili impulsi sono inutili davanti alla potenza di fuoco di un automatico sulla media distanza, di una mitraglietta sulla corta o di uno scout sulla lunga), ha previsto entro due settimane lo sviluppo di una specifica patch per sostanziali modifiche al damage counter. Anche in questo secondo capitolo sentiamo la mancanza di server dedicati, sostituiti da un sistema peer-to-peer ibrido, come spiega l’engeenering lead Matt Segur:

“Ogni attività di Destiny 2 è allocata in uno dei nostri server. Questo vuol dire che non subirai un’altra migrazione durante un’incursione o un qualche momento importante. Diversamente dal primo Destiny, il server pensa all’elaborazione del gioco, e ogni giocatore pensa all’elaborazione dei movimenti”.

Il sistema a squadre da tre giocatori per le modalità classiche (Cala la notte, Pattuglie, Avventure e Assalti dell’Avanguardia) rimane invariato, mentre una modifica sostanziale alla selezione avviene nelle due playlist pvp, che prevedono lo scontro a otto giocatori divisi in due squadre (diversamente dai dodici di Destiny); alla ricerca di una maggiore coesione e coordinazione. Favorita l’appartenenza ai clan: ora è possibile, con l’aiuto collettivo dei membri, raggiungere un massimo di 100.000 punti esperienza settimanali, utili a sbloccare funzionalità e vantaggi di livello che aumentino il drop rate (un png dona premi di fazione al completamento delle quattro maggiori imprese — crogiolo, Cala la notte, raid e Prove dei Nove — dispensando engrammi leggendari utili all’avanzamento di livello ad ogni singolo membro del clan); con l’introduzione, in fase beta, delle partite guidate, possiamo interagire con giocatori che non vi appartengono ed aiutarli in attività essenziali per il progresso (quantificato in punti luce per ogni pezzo di armatura indossato). Un modo per conoscersi e far conoscere il prestigio di un clan, che da elemento secondario raggiunge una considerazione tale da svantaggiare i tanti ronin nel cloud, concretizzando l’aspetto social e il fine cooperativo del titolo. “Oh Last (il mio id PSN è LastShadow), come mai stiamo giocando ancora a questa merda?” continua a domandarmi Federico, il capo-clan. In verità non so cosa rispondere, mi limito a bofonchiare un “perché abbiamo venduto un rene per giocarci” (tra season pass e dlc aggiuntivi arriviamo a 140 euro). Ma la verità non è questa, e lo sappiamo entrambi; la realtà ci dimostra che siamo dipendenti di un geniale sistema di farming che porta il giocatore all’ossessiva ricerca del perfetto strumento di morte che possa sbilanciare gli equilibri e favorire la vittoria, sia in crogiolo che nelle imprese pve. La forza dell’abitudine, come nelle peggiore relazioni, ci ha costretto a condividere un universo di gioco destinato altrimenti all’oblio. Il continuo ribilanciamento delle armi, caratteristico del primo capitolo, se da una parte ha risvegliato il malcontento di chi con fatica è riuscito ad abituarsi all’uso di un determinato armamento, dall’altra ha calibrato un tasso di sfida che costringe alla scoperta e riscoperta di nuovi oggetti di distruzione. Un sistema infame che nasconde una grave mancanza di contenuti effettivi, che allunga il brodo quanto basta da mantenere vivo l’interesse. La verità è ancora un’altra. Activision, certa del valore monetario del titolo, ha investito un capitale tra marketing e sponsorizzazione (la partnership con Red Bull con la “Red Bull Quest” ne Il Re dei Corrotti è stato un primo, riuscito, esempio di convergenza); il prodotto ha unito e continua ad unire videogiocatori da tutt’Italia, per non parlare del panorama internazionale. Per quanto lo si critichi basta aprire la pagina del gruppo Facebook The Tower — Destiny Italia per comprendere la portata del fenomeno. All’uscita Destiny contava già su due milioni di utenti attivi, un miracolo visto l’abbandono in massa nel periodo estivo. Nell’immaginario collettivo ha simbolicamente rappresentato la riscossa di un neonato genere su console, quello degli MMOFPS, di cui Bungie tutt’ora è portabandiera. Chi parla della “solita minestra, un Destiny 1.5 e nulla più” e forse ci vede giusto, ma in fondo, a noi giocatori, ci piace lasciarci abbindolare dalle promesse di una compagnia di marinai: lo dimostrano i dati, lo dimostrano i 94 utenti connessi simultaneamente dalla mia lista amici su Playstation. “Vado a vendere il gioco” diceva qualcuno, non molti giorni fa; ma è ancora qui e stasera giocheremo insieme. Destiny 2 fa leva sull’effetto nostalgia: tra un comparto sonoro d’eccezione e una grafica sbalorditiva, tra un gameplay solido (che smussa i difetti del predecessore) e la scelta coraggiosa di non modificarne la natura arcade. Se cercate la qualità del multiplayer di Halo non vi resta che guardare altrove.

E sperare.

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