Dieci film “proibiti” nell’era del #MeToo

Una lista di film cult intrisi di sessismo, misoginia e razzismo che non avrebbero avuto vita facile ai giorni nostri.

MP
La Caduta 2016–18

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Ogni film è legato all'epoca in cui esce, anche se fortemente avanti coi tempi o in rottura con essa. In questo articolo tratteremo proprio di film che, pur non essendo rifiutati a quei tempi, non furono neppure accettati da tutti o tout court. Film che in effetti darebbero, si presume, fastidio a non poche persone nell’era del #MeToo, movimento nato come fronte di protesta contro forme di molestia e violenza sessuale, recentemente provocato da una lunga sfilza di scandali hollywoodiani (a partire dal celebre caso Weinstein). Questi film di cui parliamo non sono tutti legati direttamente a questo movimento, ma sono tutti, per un motivo o per un altro, oggetto di controversie. Parliamo ad esempio anche di Nascita di una Nazione (1915) di D.W. Griffith, ma la maggioranza dei titoli scelti tratta comunque di temi cari al #Metoo: misoginia, violenze varie, pedofilia, incesto. Questi film in realtà non erano davvero controversi (se non in maniera molto limitata) ai tempi della loro produzione, e in realtà perlopiù non lo sono neppure ora. Tuttavia, se uscissero oggi per la prima volta darebbero non pochi problemi ai loro autori.

Per finire, vi è spazio anche per analizzare come la nostra percezione (ma oserei dire pure tolleranza) dell’arte più risqué possa essersi affievolita negli anni 2000. Con tutta la relatività del caso, non è inesatto dire che in tempi recenti le polemiche contro alcuni film o personaggi sono montate più spesso, spesso in taluni estremi casi avvicinandosi pericolosamente a forme di maccartismo. Tra gli esempi recenti, ricordiamo le polemiche contro Thérèse revant di Balthus, nate poiché il dipinto “inciterebbe” alla pedofilia, e contro l’attore Kevin Spacey, digitalmente rimosso da All the Money in the World di Ridley Scott dopo accuse di molestie. Insomma, i tempi sono maturi per ridiscutere l’arte, in questo caso al cinema, e per capire meglio la medesima e infine noi stessi. Senza censure, si spera.

Léon — The Professional (Luc Besson, 1994)

Uno dei film più famosi dell’ importante regista francese. Besson negli anni ha variato sia le sue fortune che i generi. Nel film il sicario Léon interpretato da Jean Reno è un anti-eroe classico hollywoodiano, più buono che cattivo nonostante la professione. In tal senso, Besson è a sua volta il più hollywoodiano dei francesi; non vedrete molto di europeo nei suoi film, anche in quelli fatti meglio come questo. Ma in Léon c’è una cosa che vale la pena affrontare. Il sicario Léon verrà nel film ad un certo punto affiancato, non dico perché e percome, da una ragazzina sui 14 anni, interpretata da Natalie Portman. Anche qui siamo davanti a Hollywood allo stato puro: il rapporto da prima freddo si trasformerà in una grande amicizia fino al gran finale, un po’ De Palmiano. Tanto che la ragazzina avrà a dire al buon Léon di amarlo, rischiando di farlo strozzare mentre beve. Scena comica un po’ risqué ma di sicuro effetto.

C’è però un “ma”. Il rapporto tra i due protagonisti è ispirato, tolta la professione del Reno internazionale, alla vita vera del regista Luc Besson. Besson nel ’92 aveva effettivamente sposato, lui quarantenne, Maiwenn, che di anni ne aveva 16. Non è un errore di battitura. Aggiungo: legalmente. Ai tempi in Francia un adulto poteva sposare un minorenne se i genitori dell’ultimo approvavano, e così fu per Maiwenn. Adesso in Francia non si può più. Ne consegue dunque che il film ha degli echi, diciamo, sessuali, visto che lei gli diede il suo secondo figlio. Maiwenn è inoltre presente nel film. La stessa Portman è ora ben consapevole del sottotesto del film, come adesso anche voi, cari lettori. Prego, non c’è di che. E’ difficile esprimere bene, dal mio personale punto di vista, quanto la faccenda sia un mix di ilarità e di disapprovazione, in quanto io di certo non sono favorevole a matrimoni tra persone maggiorenni e minorenni, ma è anche interessante notare come dagli anni ’90 in poi le cose siano cambiate tanto. Infatti, non vi furono polemiche per Léon, ma provate voi a fare un film simile oggi.

Non violentate Jennifer (Meir Zarchi, 1978)

Conoscete i rape & revenge? Negli anni ’70 nasce negli Stati Uniti e poi si espande nel mondo la corrente dei film exploitation, film a basso interesse e qualità tendenti al ribasso che invece puntavano tutto sulla violenza e sull’esagerazione di alcuni fetish o kink. I sottogeneri non si contano, tra cui appunto il rape & revenge. Non violentate Jennifer è uno degli esempi più famosi, ma certo non il primo — il genere c’era già da un po’. Il film è famoso per un motivo tra i più banali: è molto violento, tant’è che divenne famoso subito e respinto dalla cerchia mainstream dei critici, tuttavia nel mondo di Internet come già nei circoli di allora ebbe subito fama e molti estimatori. Insomma, ha una sua dignità ed è giusto parlarne.

Il regista Meir Zarchi aveva tempo addietro effettivamente soccorso una ragazza vittima di stupro. L’aveva portata prima dalla polizia per denunciare il fatto prima che in ospedale, ma fu un errore perché le fecero quasi il terzo grado. Anche per scusarsi idealmente con la ragazza, Zarchi scrisse e diresse questo film in cui la vittima è violentata e si fa giustizia da sé, proprio per via della sfiducia del regista nelle istituzioni. Non vi è dubbio che le intenzioni di Zarchi con questo film fossero lodevoli. Il problema semmai sta nel risultato. Il film è famoso banalmente per lo stupro subito dalla donna, interpretata da Camille Keaton (ebbene sì, nipote di Buster Keaton). La violenza in sé non è niente di mai visto sul grande schermo: la tengono ferma e crudelmente la stuprano a turno (sono in quattro). Sono poco più delle bestie, non hanno nessun tipo di giustificazione neanche cretina (lei stava a casa sua e loro l’aggrediscono, è vestita con una gonna poco sopra al ginocchio in primavera) e il giudizio negativo nei loro confronti mi pare evidente. Ma ci sono lo stesso due problemi di genere tecnico. Il primo è nella durata della violenza, che dà da pensare a un certo tipo di sfruttamento del tema da parte del regista per shockare il pubblico. Lo stupro dura nella narrazione del film ore, ma contando in minuti veri, siamo a trenta minuti circa. L’idea non è senza obiettivi interessanti: ha un certo realismo avvicinandosi a un’ipotetica durata nella vita vera, e dà perfettamente l’idea di cosa significa disprezzare qualcuno e pensare non valga niente. L’altro problema riguarda proprio questo disprezzo: è talmente esagerato e sopra-esposto che uno si chiede, quando inizia quello dei personaggi e quando finisce quello del regista? Visto oggi, l’ambiguità verrebbe preferita alle buone intenzioni, e non credo senza merito, dato che bisogna comunque stare sempre attenti a quello che si fa.

Charlotte For Ever (Serge Gainsbourg, 1986)

Gainsbourg non ha bisogno di presentazioni. Soprattutto famoso come cantante, ha però diretto anche qualche il film, il più scandaloso dei quali è indubbiamente Charlotte For Ever. Protagonisti del film sono padre e figlia, Serge e Charlotte, che fanno papà e figlia anche sul grande schermo. I due interpretano una sorta di versione di sé stessi nella vita reale ma fino a un certo punto, si spera. Non esiste una trama vera e propria, i due rimangono chiusi in casa a filosofeggiare, ricevere ospiti, litigare, scherzare assieme. C’è un però.

Il film ha, senza dubbi, il sotto-tema dell’incesto. Con padre Serge e figlia Charlotte che allora aveva 16 anni. Il tema è esplicitamente evocato da alcune situazioni nel film, per esempio quella in cui Charlotte è a petto nudo e si lava in bagno, col padre che entra a tradimento e la guarda simulando indifferenza, e anche dalla colonna sonora. Infatti, è presente il singolo Lemon Fever, in cui padre e figlia cantano dell’amore padre-figlia. Il film in sé in fondo non è niente di che. E’ il classico film francese un po’ anti-borghese e a dirigerlo è il classico Serge, provocatore, istrionico, ma non senza intelligenza e un certo fascino per il proibito, per il taboo. C’è un’aria malsana che non abbandona mail il film, però allo stesso tempo viene premiata la voglia di osare ed una certa ironica originalità. Film rischioso quanto non mai, e se uscisse di questi tempi chissà quanti editoriali sul Foglio toccherebbe leggere. Ci rimane un film pericolante tra il serio e il faceto, un po’ schiavo della voglia di provocare, però allo stesso tempo vi è la certezza di vedere qualcosa di unico. Non è poco.

Je t’aime moi non plus (Serge Gainsbourg, 1976)

Il nostro amatissimo Serge, in un impeto di umiltà, fa un film dandogli il nome della sua canzone più famosa, in realtà un duetto prima registrato con Brigitte Bardot e poi portato alla fama mondiale con Jane Birkin. La prima musa non c’è nel fim infatti, ma c’è la seconda. Nel film l’omosessuale interpretato da un volto storico del cinema di serie B, Joe D’Alessandro, adocchia in un bar un barista magrolino che gli dà le spalle. Pare proprio faccia al caso suo. Sfortunatamente egli si volta, ed è in realtà un’androgina Jane Birkin. Ciò nonostante, i due iniziano una relazione. Ma, qui sta il genio/scandalo del film, D’Alessandro in quanto gay non riesce ad avere piacere nell’avere Jane per la porta principale, per cui la costringe a dargli la porta *ehm* secondaria. Non sto scherzando.

Il film da questo punto di vista parrebbe una commedia dark, e in effetti ci sono alcuni elementi trash o surreali, ma è anche un dramma ben realizzato. Jane non apprezza la faccenda fino in fondo e ci sono dei grossi screzi con Joe. Il quale fa il suo solito personaggio, vedasi i film di Paul Morrissey: volgare, virile, forte. Insomma vuole governare lui, ma non è detto che ci riesca. Infatti c’è anche il suo fidanzato storico, che non vede di buon occhio l’essere stato messo da parte per il magro culetto di Jane Birkin, qui più scheletrica e androgina del solito. Il finale piuttosto intenso sarà una logica conseguenza. Il film è veramente unico, e frutto di un’epoca in cui si faceva ancora un po’ di tutto e in cui, mancando Internet, i film non erano fruibili a tutti, quindi meno polemiche, meno visitatori sfortunati. L’idea poi di condannare, scomunicare, boicottare un film non era così popolare. Oltre a ciò Jane Birkin era assolutamente una colonna femminista, per cui attaccare il film non era cosa saggia, ed infatti è piacevolmente rimasto nel limbo dei film sconosciuti o quasi senza eccessivi problemi. Fosse stato uno scandalo ne parleremmo ben di più.

Nascita di una Nazione (D.W. Griffith, 1915)

Griffith è considerato un po’ lo Spielberg moderno e questo suo film in piena epoca muta è nella storia del cinema per innovazione e tecnica, avendo rivoluzionato l’idea di narrazione nel cinema. Non vi è spazio in questo articolo per spiegare la meraviglia tecnica che è la pellicola. Il film è però famoso anche per un altro motivo, stavolta davvero infangante. Nascita di una nazione si riferisce agli Stati Uniti, la cui storia viene fatta iniziare dalla guerra di secessione e fatta finire verso la prima guerra mondiale. Il film narra, in maniera ora molto classica, le gesta di una famiglia del Sud e di una del Nord. Però il grosso della pellicola gira attorno alla guerra di secessione per liberare gli schiavi afroamericani nel Sud. Il problema è appunto questo. Salvo ex ante promettere con una didascalia all’inizio della pellicola che si trova giusto che i neri siano liberi, il film è di un razzismo abbastanza conclamato. Non credo si tratti di ambiguità o di errore: è proprio razzista, revisionista e pure complottaro.

La guerra di secessione e le azioni immediatamente successive vengono viste come un gigantesco complotto di Washington. I capi del Nord sono assoggettati ai lobbisti neri, i neri stessi sono vogliosi di soldi di potere e ovviamente di donne, che lo vogliano o meno. Atti di violenza razzisti contro i neri, che saranno stati l’ordine del giorno al Sud fino agli anni ’70 e non so se abbiano mai veramente smesso, non esistono invece nel film. Sono sì schiavi nelle piantagioni di cotone, ma trattati benissimo come pari. Il Ku Klux Klan nasce come estremo tentativo bianco di combattere la prepotenza negroide e di Washington. Soggetto abbastanza scandaloso. Molti critici di colore già ai tempi ebbero da ridire. Inoltre, molti degli attori che interpretano le vili risorse boldriniane ante litteram sono in realtà bianchi con la faccia dipinta di nero, per cui il cinismo del regista pare evidente.

Il film ha dunque due anime fortemente agli antipodi, ed è un peccato vederle convivere. La meraviglia tecnica all’avanguardia è al servizio delle peggiore propaganda razzista e revisionista che possa capitare di vedere al cinema. Neppure Trionfo della Volontà (1922) di Leni Riefenstahl mi pare sia così eccessivo. Non ho dubbi su come verrebbe ricevuto oggi se uscisse.

Manhattan (Woody Allen, 1979)

Siamo nel gran classico, un film che quasi hanno sentito nominare almeno una volta e che quasi tutti hanno visto. Manhattan è uno dei film più famosi di Woody Allen, uscito due anni dopo Io e Annie (1977). Sempre con Diane Keaton, il film è una commedia forse più romantica e certamente più malinconica. In questo film, il personaggio di Woody Allen è stato appena mollato dalla moglie lesbica (Meryl Streep) ed ha una relazione altanelante con una 16enne, Mariel Hemingway, nipote del più celebre Ernest. Il film è molto romantico e di pregevole fattura. La premiata ditta di quegli anni Allen & Gordon Willis, il direttore della fotografia, regala inquadrature mozzafiato in uno dei più bei bianco e nero di sempre. E trattandosi di una commedia, il risultato è incredibile e il film non è da questo punto di vista per nulla invecchiato.

Già peggiore e meno digeribile, però, è un certo sentimentalismo e romanticismo che rendono il film un po’ zuccheroso e lo sminuiscono di una certa misura. Allen era alla fine della relazione con la Keaton, e forse questo ha contribuito. La relazione con la minorenne Mariel non è in realtà nulla di pruriginoso o osceno, quasi mai Allen è stato pesante da questo punto di vista, eccetto forse Celebrity (1998) o Harry a Pezzi (1997). In realtà, poi, l’accoppia maggiorenne-minorenne non era poi ai tempi così azzardata, né al cinema né nella vita vera. Come ricordavamo, Luc Besson negli anni ’90 aveva sposato la 16enne Maiwenn, e lo stesso Allen ebbe una relazione con l’allora 17enne Stacy Nelkin, che ha detto di aver così ispirato il film — il tutto legalmente. Tant’è che appunto il film non destò scandalo alcuno; erano altri tempi, anche per questioni legali. Ora certo è tutta un’altra storia.

Lolita (Stanley Kubrick, 1962)

Un classico. Ispirato dall’omonimo romanzo di Vladimir Nabokov, Kubrick firma una satira antiborghese in bianco e nero in cui ne ha un po’ per tutti. Certamente il personaggio di James Mason è assolutamente massacrato, ma neppure la figura della donna risalta così bene, ed è forse in questo dettaglio che il film farebbe aggrottare le sopracciglia ad alcuni. La trama la sanno anche i sassi: il personaggio di Mason rimane infatuato di una ragazzina di 14 anni, Lolita, e per tutta la durata del film, fino a un epilogo colmo di tragica delusione, disappunto e solitudine, rimarrà solo. L’amore di Mason per la bambina (Sue Lyon, poi sparita) è destinato ad essere illibato, mentre lei e Kubrick stesso lo pigliano decisamente per i fondelli. Ma appunto, la stessa Lolita non ci fa una grandissima figura, un po’ lo provoca, lo illude, fa la finta tonta, insomma lo istiga e se lo tiene a distanza di sicurezza, ma non lo rifiuta. Tant’è che lui, folle, la insegue in capo al mondo anche dopo anni.

Il film è una commedia tragica sul desiderio del maschio da una parte, ma anche sulla crudeltà di una ragazzina dall’altra, ed è proprio su questo punto, la responsabilizzazione di una ragazzina, che il film in realtà osa di più e risulta ai giorni nostri più ostico e quasi offensivo. Lolita è un film storico ma non invecchiato benissimo, e questi ultimi tempi ne hanno marcato la distanza con i necessari progressi nella società.

Cane di Paglia (Sam Peckinpah, 1971)

Uno dei migliori film di Sam Peckinpah, è leggermente controverso per una scena che in realtà spesso ricorre nei film del regista americano (vedasi Pat Garrett e Billy the Kid o Voglio la Testa di Garcia). Ha a che vedere con una certa velata misoginia che in generale vede una donna o provocare uno o più uomini oppure subire una violenza cui prima si oppone e poi pare apprezzare. In questo film, il professore americano interpretato da Dustin Hoffman si trasferisce in Scozia nella terra natia della moglie, che ha il volto di Susan George. Fanno fare dei lavori alla casa, cui è incaricato l’ex della moglie, che un po’ lo stuzzica facendosi vedere nuda alla finestra. Verrà violentata dagli uomini che cercheranno anche di entrare in casa della coppia per farla finita.

Cane di Paglia è uno dei più famosi home invasion della storia, e ne ha ben donde. La sceneggiatura è precisa nel raccontare un ambiente violento (il villaggio scozzese) e l’uomo come essere prevaricatore o frustrato. La violenza sia subita che data diventa forse un modo per mettere a posto le cose. Inoltre la regia di Peckinpah è al suo meglio: a parte le schermaglie iniziali in cui prende le misure, il film è attraversato da continui momenti di tensione, fino al finale al cardiopalma. Per finire, il cast capitanato da Hoffman è ottimo, con il suo attore protagonista perfetto nella parte dell’uomo bianco frustrato, becco, paranoico e in pericolo. Gli anni che passano hanno indubbiamente un po’ nuocciuto al film per via del tipico problema nella rappresentazione della figura della donna nei film di Peckinpah, ma rimane un film di pregevole fattura e il vederlo dà molto bene il senso dei tempi che passano, ma non la classe.

Che? (Roman Polanski, 1972)

Il personaggio di Sydney Rome è una povera scema che, dopo aver fatto autostop, viene quasi violentata (Roman, o Roman) dal gruppo di amici che le aveva dato un passaggio. Scappa però e si rifugia in un hotel. Lì farà la conoscenza dei suoi bislacchi ospiti, tra cui Marcello Mastroianni. Il film è l’unico girato in italia da Polanski, nella fattispecie ad Amalfi, la cui meravigliosa costa risalterà lungo tutto il film. Ha certamente un taglio surreale e non si prende troppo sul serio, anche se Polanski non pare avere una grande idea di cosa combinare col film, che pare un po’ senza scopo o meta. Ma è nella scrittura del personaggio della ragazza protagonista che si fanno i maggiori danni. Anzitutto, non ha bagaglio, forse perso nella macchina degli assalitori ma soprattutto per qualche strana ragione non ha il reggiseno. All’inizio film le strappano nella collutazione la maglietta, e non avendo ricambio per i primi circa dieci minuti di film la Rome sarà forzatamente mezza nuda. Un trucchettino evitabile.

La parte però più fastidiosa è quella con Mastroianni che fin da subito la tratta male (come tutti del resto nell’hotel, col personaggio di Romolo Valli che seguita a darle della troia) e che culmina in una scena in cui due giocano a un gioco di ruoli che vede lui prenderla a ceffoni e a umiliarla. Si ribadisce dunque che il film è una commedia tra il surreale e grottesco e che forse Polanski intendeva anche parlare della mancanza di comunicazione tra gli esseri umani, ma per certi altri versi il film è davvero fastidioso.

Fantasie di una Tredicenne (Jaromil Jires, 1970)

Uno dei capisaldi del cinema della Nova vlna (Nuova Onda) cecoslovacca è anche uno dei film più arditi, peccaminosi, e allo stesso tempo stupendi della storia del cinema. Difficile spiegare la trama del film. Ma diciamo per dare almeno una breve traccia che Valerie è una ragazzina tredicenne i cui genitori sono molto particolari (eufemismo), hanno un rapporto perverso tra di loro, e il padre la brama in maniera forse poco lecita. Il villaggio pure è paganamente e allegramente depravato. Il film è a livello tecnico è una commistione tra surreale e grottesco, tra il pagano e il vampirismo che è metafora della sessualità e della crescita di un individuo. Da questo punto di vista potrebbe assomigliare a un film di Ken Russell o Derek Jarman. In comune a questi autori, la fotografia è a colori molto accesi nonostante il film possa sembrare cupo.

Fantasie di una Tredicenne è una folgorazione di film o un film folgorato, fate voi. Il film si ostina a sfiorare allegramente temi simpatici come pedofilia e incesto, col vampirismo, il non-morto, il pagano, l’anti-religioso a fare da trait d’union. Anche la durata è sperimentale, arrivando a 77 minuti circa. Nel reparto scandalistico, a parte i sopracitati temi che non esploro oltre per non rovinare troppo, il film presenta anche scene di nudo della protagonista ragazzina, assolutamente molto naturali e per niente volgari, però chiaro, non aspettatevi un remake shot-for-shot americano di questo film. Tutti al villaggio amano Valerie e la considerano un’adulta (il film è ambientato nel 1800 quindi ha anche senso), per cui hanno quasi tutti una certa fissazione per lei. Lo steso regista la adora, e con la macchina da presa la insegue per tutto il film. La giovane attrice che la interpreta è magnetica, una cosa sola col personaggio. Fantasie di una Tredicenne è una vera e propria meraviglia cinematografica ed è talmente pieno di cose che non mi dilungo oltre. Da recuperare.

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