Progetto grafico di Beatrice Schena

Secondo episodio della serie di speciali dedicati alle console e alle idee che hanno attraversato il passato, con uno sguardo al presente e al futuro

Diggin’ In The Boxes — Il peggio su PSOne

Tutto il cattivo che preferiamo abbandonare nella scatola made in Sony

Graziano Salini
La Caduta 2016–18
7 min readFeb 5, 2018

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Dopo aver visto ciò che di bello ci è stato consegnato dalla mai troppo amata scatoletta grigia, in un primo giapponesissimo episodio, è tempo di osservare il famigerato rovescio della medaglia.

La prima Playstation, come detto in precedenza, è stata una macchina videoludica incredibile dotata di un parco titoli tra i più ampi e variegati della storia. Tra i 2413 titoli che compongono la libreria playstation, molti serpeggiano viscidi con difetti dovuti a logiche di mercato e accidia delle software house.

Nel nostro viaggetto all’interno di questa sterminata sequela di titoli cosa sarebbe meglio lasciarsi indietro, possibilmente per sempre ?
E per quale motivo ?

Shovelware

Shovelware è un termine usato in ambito informatico e si riferisce ad un prodotto software di scarsa qualità immesso però sul mercato in grandi quantità; spesso appare sugli scaffali senza che se ne sia mai sentito parlare prima. Il termine “shovelware” è coniato dal suffisso “ware”, che indica una merce, e dal prefisso “shovel”, badile.

In parole povere: videogiochi che fingevano di essere altri titoli nella speranza di vendersi ad un pubblico sicuramente meno esperto e con minore chance di informarsi rispetto a quello attuale.

Durante l’epoca Ps1 lo shovelware comprendeva sia titoli spacciati per altri (tipo brutte copie di prodotti su licenza che magari trovavi dal tuo spaccino di titoli masterizzati) che videogiochi su licenze misere dalla terrificante qualità come Hooters, Chris Kamara’s Street Soccer o il mai troppo decantato Pepsi Man.

Questi titoli sono dotati di gameplay approssimativi — se non banali e noiosi— immersi in comparti tecnici dal production value rasoterra.

Questo è un perfetto esempio di cos’è un videogioco shovelware.

Al momento il fenomeno è ancora piuttosto comune nel mondo mobile a causa della semplicità intrinseca nel metodo di pubblicazione e dei bassi costi di sviluppo per la piattaforma. Su console e pc, gli ultimi esempi di shovelware si ricollegano alla Wii e a Steam Direct, due piattaforme ormai decedute.

La motivazione per cui Harvest Moon sia lì in mezzo è sconosciuta.

In ogni caso, nel corso degli ultimi anni, su console il trend è divenuto discendente a causa del consistente aumento dei costi di produzione e sviluppo.

Telecamere incontrollabili

Le tre dimensioni, per come venivano rappresentate dalla Playstation 1, erano un luogo perfetto per le interpretazioni lisergiche mosse a causa delle licenze poetiche che uno sviluppatore faceva proprie nel tentativo di riprodurre delle ambientazioni. Colori saturi, forme squadrate e smussature poco efficaci erano continuamente presenti all’interno dell’immaginario low-poly della console.

Ogni mondo 3D però aveva bisogno del suo sistema di telecamere in grado di incanalare le visioni del suo sviluppatore: qui molti — moltissimi — fallivano miseramente.

Esempi storici sono titoli come Rascal, Deathtrap Dungeon, Blasto, Star Wars: The Phantom Menace, Croc, Busby 3D che presentano dei sistemi di controllo telecamera al limite della barzelletta.

Telecamere che seguono il protagonista in ogni dove rispettando però le leggi della tangibilità degli oggetti, telecamere che impazziscono appena si porta il proprio personaggio in qualche angolo più stretto del previsto, assenza completa di tasti per il controllo della telecamera. La mancanza di un equilibrio, e di una misura nelle distanze tra telecamera e personaggio, ha causato una corsa ai ripari: diventava complicato trovare il giusto metodo per rendere una telecamera autonoma, risultava più semplice dare il controllo al giocatore.

Una mezza soluzione è stata trovata nel corso degli anni con l’uscita del Dualshock e del suo secondo stick analogico. Quest’ultimo è stato infatti dedicato al controllo a 360° della telecamera. Alcuni giochi, da un capitolo all’altro, hanno per questo motivo ottenuto un notevole miglioramento dell’esperienza grazie al maggior controllo (vedi ad esempio Spyro The Dragon e Spyro 2: Gateway to Glimmer) della telecamera.

Al giorno d’oggi possiamo considerare il problema telecamera grandemente debellato: software house come Naughty Dog hanno profuso sforzi gargantueschi nella creazione di telecamere abbastanza intelligenti da far rimpiangere tutte quelle ore di gameplay schizofrenico passate sui titoli 3D di Sonic (pun intended)

Hitbox sballate

Un problema che, ancora oggi, funesta il mondo dei videogiochi è da ricercarsi nelle Hitbox.

Si definisce la hitbox come una forma geometrica bidimensionale o tridimesionale (a seconda del videogioco) che ha la funzione di far funzionare il sistema che regola le collisioni.

Il sistema che regola le collisioni determina le interazioni degli oggetti su schermo, è quindi lapalissiano il collegamento che si può fare tra un buon videogioco ed un buon sistema di rilevamento collisioni.

Queste, ad esempio, sono le hitbox dei personaggi del primo counterstrike.

Mentre al giorno d’oggi gli sviluppatori hanno imparato a girare attorno al problema costruendoci sistemi di gioco davvero niente male come quelli che regolano il combat system di Dark Souls o Monster Hunter, una volta non era esattamente così.

Un picchiaduro sviluppato sulla base dell’universo narrativo di Star Wars ha di sicuro un certo appeal commerciale e ludico; come fa un progetto simile a diventare un fallimento di proporzioni epiche ?

Dotatelo di un sistema di collisioni al limite della denuncia e la risposta è presto data. Discorso non troppo dissimile è possibile farlo per titoli come Bubsy 3D (ancora lui) o The Simpson Wrestling, funestati da collisioni irrealistiche e da gameplay rovinati.

Sistema di controllo

Ogni videogiocatore sa, di base, che un buon videogioco è dotato anche di un buon sistema di controllo. La venuta della terza dimensione ha portato con se una grande quantità di problemi legata al rinnovamento delle metodologie di controllo personaggio.

I videogiochi a telecamera fissa hanno adottato il tank control: un sistema di movimento dove il punto di riferimento viene associato al proprio personaggio invece che alla posizione della telecamera.

Silent Hill, Resident Evil, Dino Crisis, Parasite Eve sono tutti caratterizzati dalla presenza di questo scomodo sistema di controllo. Il primo impatto è agghiacciante poiché nulla sembra andare nella direzione da noi prevista ed è necessario ambientarsi e fare pace con il proprio pad per potersi poi godere un gameplay. I survival horror hanno avuto di che guadagnarci: un sistema di controllo precario aumenta anche il senso di ansia e pericolo giocando a favore dell’emotività.

In questo preciso frangente del gioco la commistione di telecamera fissa e sistema di controllo crea nel giocatore ansia e paura senza che nulla si trovi ancora sullo schermo.

Dove non arrivano però i punti di riferimento a far danni ci pensano le animazioni e i tempi di risposta: la saga di Tomb Raider è un buon esempio di come l’input buffering sia in grado di caratterizzare un intero sistema di controllo. Ogni azione non è instantanea ma ha un preciso tempo di realizzazione entro cui l’animazione non può essere alterata.

Dulcis in fundo: alcuni videogiochi non riescono a cavare un ragno da tutti i pulsanti del proprio pad.

Semplicemente: osservando il gameplay di questo titolo è possibile sentirne la legnosità. Telecamera fissa, movimenti simil-tank per il proprio personaggio ed un puntamento che non utilizza autolock o semplificazioni di alcun genere.

Anche titoli diventati poi emblematici hanno sofferto di gravi pecche: il primo Crash Bandicoot è un titolo che al giorno d’oggi mostra una certa legnosità ed una risposta ai comandi pessima, specialmente quando si salta; gli Fps convertiti o sviluppati per Ps1 possedevano una scomodità intrinseca dovuta al controller vero e proprio e così via.

Ed ora ?

Su oltre duemila titoli nel corso di un’ paio di puntate ne sono state citati poco più di una decina: alcuni meravigliosi, altri estremamente dimenticabili.

La psOne è una macchina ormai a novero nel canone del retrogaming grazie alla sua ventina d’anni d’attività. Il colosso giapponese Sony appoggiò in tal modo il primo mattone di un impero che si consolidò con una seconda, ancora più incredibile, console.

Il prossimo episodio di Diggin’ in the boxes tratterà proprio del monolite nero, con gioie e dolori annessi.

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Graziano Salini
La Caduta 2016–18

Videogiochi, musica ed entrambe le cose mischiate assieme in qualche modo.