Terzo episodio della serie che guarda a tutto il mondo videoludico passato sotto il ponte del tempo nella speranza di capire cosa sia recuperabile e cosa sia meglio lasciare alle correnti impetuose del mercato.

Diggin’ In The Boxes — Playstation 2

Tutto il buono che il monolite nero ha regalato al suo pubblico

Graziano Salini
La Caduta 2016–18
7 min readApr 4, 2018

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Nel corso dei dodici anni in cui Playstation 2 ha spadroneggiato nel mondo dei videogiochi ne abbiamo viste tante. La PS2, animata da un rinnovato comparto hardware, grazie alla compresenza di diversi fattori è diventata protagonista di uno dei momenti più sfavillanti dell’intero medium videoludico.

La console Sony inizia a mostrare i suoi primi vagiti sul cadavere sanguinolento del Sega Dreamcast: prima console a 128 bit della generazione che, a causa di infelici scelte commerciale, stava lentamente morendo. Forte delle vendite della sorellona grigia e animata da un Emotion Engine in grado di arrotondare le tanto criticate spigolosità poligonali, la Playstation 2 è riuscita nel difficile compito di diventare la regina indiscussa di un’intera generazione per la seconda volta di fila — a livello di vendite e non solo.

Nel corso della generazione a 128 Bit Sony ha avuto il piacere di scontrarsi con la Nintendo, autrice del Gamecube, e con una neonata divisione console di Microsoft, autrice di una Xbox ancora un po’ acerba ma senza dubbio in grado di cambiare le carte in tavola in vista della generazione successiva.

I dati di vendita mostrano come Playstation 2, oltre ad aver superato qualsiasi previsione, si è dimostrata un vero e proprio fenomeno generazionale grazie anche a caratteristiche in fase di ideazione e realizzazione che non sono state riscontrate nelle concorrenti (che non erano peggio, avevano semplicemente altro da dire).

Non aggiornato al massimo ma capace di dare una buona idea di cosa sia stata in grado la console Sony.

A dicembre 2014 PS2 poteva vantare oltre 150 milioni di unità vendute. Circa dodici milioni e mezzo di copie vendute ogni anno. Davvero niente male.

Cosa può insegnare alle generazioni future una console dal successo così strepitoso?

Design

L’amichevole epiteto con cui la stampa ha motteggiato Playstation 2, nel corso della sua vita, è Il monolite nero. Una serie di scurei parallelepipedi geometrici predisposti per facilitare il posizionamento verticale della console dettagliati da venature e cromature sul blu in grado di donare un feeling kubrickiano.

Chiariamoci bene: le nuove console presenti sul mercato non sono brutte (anzi, la Switch rosso/blu è cromaticamente meravigliosa) ma non hanno avuto le stesse intuizioni estetiche del monolite Sony.

Il design verticale, fortemente ispirato all’Atari Falcon 0030/40, rappresenta un’interessante innovazione rispetto alle console precedenti, tutte focalizzate sul piano orizzontale e più difficilmente integrabili all’interno del mobilio a causa dall’ingombro generato dai televisori a tubo catodico.

Ogni grande console è accompagnata da un sistema di controllo all’altezza; a portare in trionfo l’emotion engine e i suoi giochi arriva il Dualshock 2: solidissimo, essenziale e dal feeling talmente potente da aver quasi standardizzato i sistemi di controllo successivi per mappatura e qualità.

Il coronamento del design essenziale viene dalla dashboard di cui è dotata la console. Un luogo oscuro con pochi ammenicoli visivi e altrettanto scarne opzioni disponibili, contornate da grafiche geometriche minimali — si scoprirà solo molti anni dopo che esse possedavano un significato nascosto riguardante i dati delle Memory Card inserite all’interno della console.

All’interno di Youtube troviamo tutt’ora numerosi video tributi (a volte lunghi decine di minuti) dedicati ai suoni extraspaziali e al mondo senza tempo evocato da questo semplice menù di selezione molto più in linea con il futuro di quanto non fosse la dashboard di PS1.

Tentativi.

L’incredibile parco giochi di Playstation 2 è intriso di tentativi e ingenti investimenti creativi ed economici, non tutti dal lieto fine ma di sicuro portatori di grandi e seminali idee. Un titolo come Devil May Cry è nato come tentativo di dare i natali a un seguito di Resident Evil; la saga di Katamari Damacy è stato il primo tentativo da game designer di Keita Takahashi (Wattan per gli amici)… e così via.

Il monolite nero è pieno di titoli dal destino meno fortunato ma dall’idenità unica: Ring Of Red, Under The Skin, Mister Mosquito, Gregory Horror Show, Darkwatch, Shadow Of Rome, Gitaroo Man, Black e mille altri ancora. Tutti figli di un’epoca in cui il mercato possedeva una complessità e una diversità che sembrano assenti in un mercato attuale dove i prodotti o sono titoli AAA o sono titoli indipendenti.

Altri nobili tentativi possiamo rintracciarli nel rilascio di periferiche ad hoc da accoppiare a determinati titoli: Eyetoy: microfoni per Singstar; chitarre/etc per Guitar Hero & Rock Band; le ultime light-guns del caso o i Buzzers. Accessori e periferiche che al giorno d’oggi potrebbero essere rielaborati e potenziati o, più semplicemente, inclusi negli attuali sistemi di controllo.

La Playstation 2 è stata anche la mamma del peggior controller del mondo… ma questa è un’altra storia.

Tentare con successo significherebbe, al giorno d’oggi, presentare al mondo dei titoli doppia AA in grado di muovere briciole di mercato: operazione che possiamo contare sulle dita di una mano (in titoli come Hellblade: Senua’s sacrifice o Cuphead) ma che meriterebbe di essere ripetute con un iter quasi quotidiano.

Tentare è la linfa vitale del mondo dei videogiochi; un mondo dove l’errore andrebbe valorizzato da critica, pubblico e, per una volta, anche dal mercato.

Giapponesità.

La base di ogni videogioco è il suo documento di Game Design, un papiro in grado di descrivere in meno di dieci pagine cosa vuol dire avere a che fare con un determinato titolo.

Il game design giapponese si distingue da quello occidentale per il suo focus sul gameplay e il suo non concentrarsi sull’esperienza del vivere un videogioco. Come suggerito dal designer Jordan Amano, in questo inserto , nell’industria del sol levante il focus riguarda le meccaniche.
Questo concetto lo si può vedere realizzato in moltissimi titoli:

Katamari Damacy prima di essere la storia della ricostruzione dell’universo (popolato da creature ed esseri fuori da qualsiasi logicz), è movimento, è ritmo, è colore. Far rotolare il proprio Katamari è divertente dopo il quinto minuto di gioco, senza aver bisogno di perché, di sapere chi siamo o dove siamo, grazie alla raffinatezza del motore fisico e dello studio dei percorsi.

Discorso equivalente si può fare per titoli più famosi come Godhand, dove è l’idea di poter personalizzare sin nel minimo dettaglio le mosse del proprio protagonista ad aver trasformato un beat-em-up come tanti in un prodigio di tecnica e riflessi.

Gli esempi sono molti e la maggior parte possiede anche ambientazioni e personaggi in grado di restare attaccati all’anima di chi gioca senza la velleità, molto spesso retorica e stucchevole, di voler risultare profondi a tutti i costi. Quest’anima in your face di tanti videogiochi giapponesi manca molto al giorno d’oggi. Come mancante è quest’altro particolare…

Eccentricità.

Nello scorso capitolo abbiamo parlato di titoli come Boku no Natsuyasumi o Incredible Crisis, i quali risaltano rispetto al resto delle altre produzioni per la loro eccentricità e la curiosità che generano. Ebbene, Playstation 2 è riuscita a fare ancora di più in questo campo proponendo titoli dal buon valore produttivo intrisi di:

  • Alieni trasformisti il cui unico obbiettivo è spaventare la gente assumendo le loro stesse vesti (Under The Skin)
  • Incubi cubettosi che mescolano le idee love-de-lichiane all’horror di Capcom tirando fuori il meglio dai vari mondi (il sopracitato Gregory Horror Show)
  • Jrpg che impazziscono e provano a riscrivere le loro stesse basi fondanti mischiandosi con il gioco da tavolo (Unlimited saga) o con le meccaniche temporali (Breath Of Fire: Dragon Quartet)
  • Videogiochi di bassa lega che prendono il trash e lo elevano a valore fondante del proprio design creando piccoli freak-show (Demolition Girl, Battle Construction Vehicle)
  • Videogiochi basati sulla calligrafia che mescolano typing of the dead al rhythm game; finire il testo di una canzone mentre sullo sfondo una grafica wireframe ipercolorata disegna un mondo impossibile (Mojib-Ribbon)

Nel prossimo episodio di questa rubrica, che mescola nostalgia e speranza, osserveremo tutto ciò che ha fatto bene a rimanere intrappolato nel mondo del monolite nero. Tutte quelle idee e progetti che hanno avuto vita difficile e non sono riuscite a sopravvivere alla propria generazione.

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Graziano Salini
La Caduta 2016–18

Videogiochi, musica ed entrambe le cose mischiate assieme in qualche modo.