Dr. Strange e la morte godibile dei supereroi
Cinema e fumetto: quando le necessità di botteghino ammazzano il genio dietro il personaggio
Quando il Dr. Stephen Strange viene introdotto nell’Universo Marvel nel 1963, la Casa delle Idee guidata da Stan Lee sta vivendo un vero e proprio tsunami di cambiamenti. Nuovi i supereroi sulla scena, nuove le storie, nuovi i contenuti, le tematiche, nuovo il pubblico. Sempre più attenti ai gusti dei giovani (e non solo giovanissimi) lettori, la Marvel apre le porte tanto ai teenager quanto agli universitari. E gli universitari, negli anni Sessanta, vedono spalancarsi davanti agli occhi nuovi mondi — e non solo grazie ai libri. Forti scosse controculturali, subbugli violenti/non-violenti davanti ai college, l’Urlo di Ginsberg che ancora riecheggia dopo quasi dieci anni nelle guerre spaziali di Unione Sovietica e Stati Uniti, quando i veri problemi, quelli che fanno urlare, sono invece sulla Terra e si chiamano Vietnam, minaccia nucleare e americanizzazione. Ah, e droga. Tanta. Fiumi di allucinazioni, dimensioni acide e distorte, litri di LSD nel corpo, zucchero all’LSD, LSD nelle università, LSD tra i professori, ai concerti, nei parchi, durante le manifestazioni, nelle canzoni dei Pink Floyd. Tanta acidità, insomma. Risultato? Un eccezionale chirurgo, pieno di soldi, ma con il piccolo difetto di essere un altrettanto eccezionale pallone gonfiato, arrogante, superbo, detestabile, perde l’uso delle mani a causa di un incidente stradale. Kharma? Forse. Resta il fatto che neanche l’avanzatissima tecnologia americana riesce a restituirgli l’uso degli arti e, quindi, com’è ovvio per una generazione sempre più vicina alla cultura orientale, il dottore se ne va in Tibet. Come un novello Kerouac dedito al Buddismo, Strange si perde tra i ritmi cadenzati dei Sutra, apre le proprie porte della percezione alle magie mistiche orientali e diventa lo stregone più potente dell’Universo.
Ora, il Dr. Strange, creato e disegnato dal mitico Steve Ditko, è sempre stato una figura di nicchia del panorama marvelliano. Ma in quegli anni la sincronia tra la realtà allucinatamente pluridimensionale del Dottore e il giovane pubblico della controcultura è perfetto. L’armonia estetica e contenutistica è tale che a Strange viene dedicato uno psychadelic rock happening (droga, luci e musica per intendersi) a San Francisco, amorevolmente chiamato A tribute to Dr. Strange. Non finisce qui, perché il mago non è solo citato nel brano Cymbaline dei Pink Floyd, ma appare anche sulla copertina dell’album stesso (A Sourceful of Secrets, 1969), al centro della quale si scorge un avviluppamento cosmico-primordiale-alchemico degno dell’altro Dottore, Huxley. Per dire.
Catapultiamoci adesso in un vortice cosmico di portali spazio-temporali e atterriamo sulla poltroncina del cinema vicino casa. In programmazione Dr. Strange, il mio piccolo eroe personale. Con quel costume un po’ imbarazzante, il pizzetto sexy, lo sguardo gelido…e il potere più grande mai visto in qualsiasi universo. Lo ammetto, non avevo grandi aspettative, ma qui abbiamo davvero decretato la morte del supereroe contemporaneo.
“Ma il film è godibile!”, dite. Nel film di Scott Derrikson, il Dr. Strange ancora medico è una versione squallida del supereroe riccone, qui simboleggiato dagli svariati milioni di dollari di orologi da polso esposti nel cassetto di casa (una frecciatina abbastanza banale che richiama la distorsione temporale su cui gioca buona parte della trama ). Eppoi, è vero: Benedict Cumberbach è la reincarnazione vivente di Dr. Strange. Suo il pizzetto, suoi gli occhi, le striature canute sulle tempie, le sopracciglia persino. Ma l’arroganza del personaggio è a malapena tratteggiata da battute acidelle (non da LSD), smorfie sbruffoncelle e una pallida, pallidissima strafottenza. Però, magia delle magie, una volta incontrato il grande maestro, l’Antico, Strange si tramuta improvvisamente, grazie a qualche mistica formula a noi purtroppo non svelata, prima in un simpatico, quasi goffo apprendista stregone, e poi in un simpatico, quasi goffo MA potentissimo stregone, che crea realtà specchio, distorce lo spazio-tempo, e fa battutine che il tempo, invece, non riescono proprio ad azzeccarlo.
“Ma il film è godibile!”, dite. Abbiamo davvero bisogno di una gag con un mantello volante che schiaffeggia il nemico di turno, per smorzare la tensione? Quale tensione? Quale nemico? Se la virtù del supereroe è amplificata dalla malvagità del super-cattivo, qui chi è davvero super? Di certo non il cattivone Karl Mordo, né l’inconoscibile Dormammu, la cui presenza aleggia vagamente tra un combattimento e l’altro, o si percepisce nell’alterazione psichedelica dello spazio à-la-Inception. Qualcosa si scorge in un Universo surreale di colori e luci che, sì, traspone meravigliosamente le ambientazioni di Ditko, ma la cui potenzialità accattivante è smorzata senza pietà da una colonna sonora ciarlona e commerciale (Pink Floyd a parte), che avrebbe acquistato in psichedelia con un po’ più di synth (per non voler riesumare il buon vecchio hammond) o qualche silenzio sordo, visto che, dopotutto, siamo nello spazio. Per non parlare dell’imbarazzo, quello davvero psichedelico, della scena in cui un ancora-apprendista Strange, catapultato dall’Antico in dimensioni parallele mai viste prima, volteggiando in realtà ultra-siderali, inizia a gridare “No, no, no, oh no!”, quasi fosse uno dei ladri di Mamma ho perso l’aereo, terrorizzati dai trabocchetti del piccolo Kevin.
“Però è godibile!”, continuate. Cosa rimane dell’epicità allucinata del primo Strange? Gli effetti speciali. Cosa rimane del presupposto di attualità col quale il personaggio era stato creato? Nulla. Questa non è la solita predica della nerdissima intenditrice di fumetti di turno, né della comunistella radical chic del baretto sotto casa. I supereroi sono morti perché la loro eccezionalità è stata divorata, digerita e poi rigurgitata dalla ripetitività commerciale contemporanea. Non è una critica al cinema, ma a chi i film li produce o li consuma in serie, come fossero panini da fast-food che, per carità, sono godibili, ma che male al cuore! Che male al cuore vedere le potenzialità di un supereroe mistico, in sintonia con le forze occulte degli Universi, vicino al pensiero orientale, alla teosofia, all’investigazione di tutto ciò che nella natura e nell’uomo è oscuro, svestito di ogni sua peculiarità, sottomesso all’esigenza di un mercato dalla battutina facile, schiacciato sotto il peso di caratterizzazioni psicologiche spicciole e stereotipate! Il fumetto è nato e si è evoluto negli Stati Uniti come forma d’arte pulp, e ha fatto propria, per lo più, una prospettiva commerciale (non stiamo qui a discutere il valore artistico di autori, serie e graphic novel che ben si allontanano dal canone appena descritto). Ma qui si rende godibile l’assenza di tematiche, la sterilità di un eroe prosciugato persino di un’attualità, un eroe astorico e adimensionale.
Visto che da poco è passato il 5 novembre, ho avuto per la testa quel bel film che è V per Vendetta, tratto da quella meraviglia che è il fumetto omonimo. Ripensavo alla famosa scena finale, le migliaia di casacche nere, le maschere in movimento per le strade di Londra, i sorrisi plastificati della rivoluzione davanti al Parlamento in fiamme. Ebbene, io oggi vedo in sala la stessa folla di supereroi cinematografici, i costumi iper-moderni, le maschere e i volti tutti uguali, i sorrisi plastificati. Ma se nel primo caso l’omogeneità della maschera nasconde l’unicità del singolo individuo, nel secondo, sotto la maschera, il nulla. Un godibile affollamento di super-replicanti senza memoria e senza presente, senza profondità e senza prospettiva, dispersi in un labirinto di trame ripetute e ridondanti (Westworld ammicca).
“Sotto questa maschera non c’è solo carne. Sotto questa maschera c’è un’idea”, diceva V nell’ultimo scontro di V per Vendetta. Qui, invece, le idee le abbiamo finite.