Electric Dreams ci restituisce tutta la lucidità di Philip K. Dick

Racconti della metà degli anni cinquanta catapultati in una visione distopica che può far riflettere

La Caduta
La Caduta 2016–18

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Dal successo di Philip K. Dick sul grande schermo, conseguito grazie ai vari Blade Runner e ad altre minori pellicole di culto (come Jhonny Mnemonic o A Scanner Darkly, per ricordare i titoli più noti), all’approdo dell’immaginario del grande scrittore americano sullo schermo televisivo. Una prima serie televisiva ispirata a Dick, Total Recall 2070, risale agli anni ’90 ed fu concepita come sequel del film Total Recall, ma questa produzione televisiva è rimasta al più nella memoria di pochi. Decisamente più riuscite e popolari sono piuttosto le due recenti serie tratte dall’opera dickiana: The Man in the High Castle (arrivata alla seconda stagione) e Philip K. Dick’s Electric Dreams, entrambe proposte sulla piattaforma streaming di Amazon.

Considerato il buon successo ottenuto da The Man in the High Castle, apprezzabile adattamento di uno dei più grandi romanzi dello scrittore, le aspettative nei confronti della nuova serie Electric Dreams erano piuttosto alte. Possiamo dire che siano state soddisfatte? Impossibile dare una risposta affermativa: nonostante una nomination al Saturn Award for Best New Media Television Series, non si può dire che la serie abbia raccolto un significativo successo da parte di critica e pubblico. La struttura antologica della serie, che raccoglie episodi della durata media di 45 minuti tratti da dieci racconti di Dick (estrapolati da raccolte diverse dell’autore, ma riediti assieme in concomitanza con la distribuzione della serie), ha reso ad esempio facile un confronto con un’altra serie a tema fantascientifico già molto popolare, ovvero Black Mirror, la serie distopica di Netflix che si è guadagnata ben altre attenzioni e lodi.

Qui siamo però su un territorio diverso e trasporre la profondità dei testi di Dick sullo schermo (piccolo o grande che sia) non è un’impresa facile. Il risultato è una serie che merita di essere vista, anche solo per la ricostruzione scenografica dei vari mondi immaginati da Dick, ma specialmente per le considerazioni sul futuro e sul presente che possono emergere dallo stimolo della visione, a patto che si riescano ad estrapolare considerazioni da storie che non sempre curano la qualità della speculazione, caratterizzata da alti e bassi. Ma la distopia è ormai diventata il filtro attraverso il quale approcciare l’imminente futuro, un genere che spinge a interessanti riflessioni attorno a quel presente che il profetico Dick aveva saputo intravedere nei meandri della sua brillante immaginazione.

Ovvero non dar nulla per scontato

Prima di sapere di inabissarmi nella parte seriale della matassa, per Electric Dreams di Philip K. Dick mi sembrava giusto partire dalle origini, e quindi dai racconti. Pubblicati in volume da Fanucci Editore lo scorso gennaio, in concomitanza con l’uscita della serie prodotta da Channel 4 con Sony Pictures Television, le dieci storie squisitamente dickiane appartengono d’anagrafica al secolo scorso, eppure non vi rimangono mai incatenate, così come il Nostro, ma creano squarci temporali e sbalzi sinaptici, volando dritti dritti fino a noi. Ma non c’è da stupirsi nel notare che i racconti sono stati pubblicati tra il ’53 e il ’55, non c’è da stupirsi che la serie tv arrivi solo nel 2018. Ciò che affascina e colpisce chiaramente è la capacità immaginifica dei singoli racconti, riconoscibili nei mindfuck e nei twist narrativi continui e improvvisi, nel ritmo che Dick dà alla pagine, tra accelerazioni e momenti di stasi: una prosa precisa e pop, una prosa di sessant’anni e rotti fa che rimbalza nelle decadi, sopravvivendole, e diventa canone e punto di partenza di un genere — di più — di un modo di stare al mondo, di vedere le cose, addirittura di pre-vederle, di pre-coniarle. Eppure Dick non è demiurgo assoluto, forse più attore compresente, vittima e carnefice, all’interno di ogni singolo racconto. Geniali sono le trovate narrative perché s’ambientano in un presente standard, pronto a svelare la distopia del caso, vedi Kill All Others (che è uno degli episodi della serie che restituisce al meglio l’atmosfera del racconto), dove la follia umana non ha alcun risvolto tecnologico, ma si attua nell’indifferenza e nel pensiero unico, nella non-riconoscenza dell’altro, dell’individualismo più becero che diventa l’unica via alla felicità, della solidarietà tra uomini che sembra esser diventata cosa da poveracci, cosa non da uomini.

D’altronde non è forse questa è la sottile linea che lega un po’ tutto il lavoro di Dick? Cos’è umano, cosa non lo è, come riconoscere le differenze? Domande che instillano curiosità ma anche rigetto, domande a cui sempre di più si reagisce con l’istinto, un sentimento animale e non razionale, un sentimento che si lega all’indole, ma anche al vissuto, alla società-ambiente in cui si vive, come e dove si è nati, con quale educazione. Cos’è umano e cosa non lo è, Dick non ce lo dice mai troppo apertamente, ce lo fa vedere e leggere nelle righe, anche perché tutte e dieci le storie hanno a che fare con la nostra volontà di plasmare e di potere, di disprezzare e saper amare, della nostra facoltà di mettere in dubbio tutto e di provare l’impossibile. Chiamale vicissitudini umane. Nella migliore tradizione dickiana, non c’è altro da fare se non tuffarsi in questi vividi e intensi racconti, unica matassa da sbrogliare, pozzo profondo e dorato da scavare. Unica raccomandazione, sempre: stare attenti a non dar nulla per scontato. (Pietro Giorgetti)

Ma gli androidi…sognano serie televisive?

Si può parlare male di una serie come Electric Dreams, perché è facile trovare lacune in trasposizioni da un autore complesso e visionario come Philip K. Dick, ma innegabilmente il suo potenziale narrativo è alto, mentre gli scenografi e gli addetti agli effetti speciali possono sbizzarrirsi nel ricostruire i differenti mondi dickiani. Una cosa è certa: la varietà delle trame e dei contesti spazio-temporali permette di accontentare un po’ tutti gli spettatori. L’episodio Impossible Planet ad esempio ha una premessa che tenta di far leva sui sentimenti: una signora, della veneranda età di trecento e qualcosa anni, si rivolge ad un’agenzia di viaggi spaziali per chiedere di essere condotta sul pianeta Terra, assieme al suo accompagnatore robotico. Una richiesta tuttavia impossibile da realizzare, dato che il pianeta è andato distrutto dai raggi solari molti anni prima; l’insistenza della donna porta gli addetti dell’agenzia a condurla su un pianeta simile, ingannandola pur di farle credere di visitare il suo pianeta natio. Questa avventura (infine pericolosa) per soddisfare il desiderio di un’anziana terrestre fa dunque soprattutto leva sull’elemento emotivo, più che su scenari complessi futuristici o particolari tecnologie e per questo motivo risulta forse uno degli episodi più riusciti e suggestivi, non privo di momenti di tensione.

The Commuter

Una focalizzazione sull’emotività dei personaggi è presente anche nell’episodio The Commuter, sorta di riflessione sulla gestione umana della sofferenza in una realtà in cui è possibile evadere dalla propria quotidianità. Benvenuti in Macon Heights, località non segnata sulle cartine o nei percorsi dei treni, eppure esistente nel mezzo della pianura inglese. Il protagonista dell’episodio è un impiegato delle ferrovie (Timothy Spall) con un figlio psicotico che è per lui causa di grande stress. Quando al lavoro una giovane donna gli chiede un biglietto per Macon Heights, città da lui mai sentita nominare, l’uomo entra in contatto con una segreta comunità idillica, i cui abitanti sembrano immuni da ogni forma di trauma. Siamo qui lontani dal genere fantascientifico che potrebbe aver attratto molti alla visione di questa serie (l’etichetta è del resto riduttiva se applicata all’opera di Philip Dick); l’episodio presenta tratti onirici e l’intreccio diventa presto assurdo, scendendo nella psiche del personaggio in perfetto stile dickiano. Predominante è una certa vena surrealista.

Proiettato nel futuro e in uno scenario davvero “alla Black Mirror” è invece Safe and Sound: qui si rappresenta un’America divisa in periferiche bubbles (“bolle”) distanti dalle innovazioni del progresso tecnologico e, dall’altro alto, metropoli altamente avanzate, nelle quali in particolare è diffuso un sistema di sicurezza garantito a tutti i cittadini. Questo consiste in un bracciale (il Dex) dalle molteplici funzioni, che consente di accedere a servizi che vanno dall’apprendimento avanzato al monitoraggio delle funzioni vitali del portatore. La protagonista è un ragazza trasferitasi da una delle bolle nella grande città, tesa tra la volontà di obbedienza alla madre (sorta di tecnofoba militante) e la voglia di integrarsi nella nuova società. La ragazza verrà quindi manipolata al fine di sabotare l’attività di una cellula terroristica formata da membri delle periferie. Un episodio mediocre, che non afferma nulla di nuovo se non ripetere il cliché distopico (ma nemmeno troppo considerate le strategie del mondo dell’informazione in cui attualmente viviamo) della tecnologia spia.

Kill All Others

Si resta in tema distopico (del resto dominante all’interno di Electric Dreams) anche negli episodi Kill All Others, The Hood Maker e Autofac. Kill All Others descrive un mondo dominato da ologrammi pubblicitari, che sono arrivati persino dentro le mura di casa, proiettati dalle confezioni dei prodotti di tutti i giorni. Il protagonista è operaio in una catena di montaggio, impegnato in un lavoro alienante. Ma la sua coscienza sembra risvegliarsi quando si accorge che un importante leader politico durante un’intervista in televisione rilascia queste gravi parole: “uccidere tutti gli altri”. Sembra non essersene accorto nessuno, alcuni fanno finta di non aver sentito, ma il nostro protagonista cade in preda alla paranoia e finirà nel mirino del partito che si è fatto promotore di quel messaggio. Kill All Others è uno degli episodi più interessanti e riusciti, complice il ritmo serrato, la rappresentazione del disagio crescente del protagonista e una conclusione spietata. The Hood Maker d’altra parte da premesse poco complesse, ovvero dalla presentazione di una realtà in cui esistono esseri umani dotati di poteri psichici, in grado di leggere i pensieri e danneggiare la mente altrui. La trama non è nulla di originale: vediamo l’indagine di una coppia di agenti di polizia (tra i quali una psichica) attorno ad un misterioso personaggio in grado di costruire cappucci che respingono l’effetto della telepatia. L’episodio punta dunque tutto sull’azione e sulla costruzione di un mondo dominato dalla discriminazione e afflitto dalla una guerra costante tra umani normali e “teep”, ovvero telepati. Ma la realizzazione soffre di una messa in scena scarna e di una trama poco avvincente.

Molto interessante è invece Autofac, forse l’episodio più curato della serie da un punto di vista sia scenografico che concettuale. Lo scenario è quasi post-apocalittico; una comunità di umani vive nei pressi di una gigantesca industria automatizzata, dalla quale escono droni per consegnare costantemente prodotti di nessuna utilità. La fabbrica è una sorta di fortezza, ma un gruppo di uomini riesce ad entrare grazie all’aiuto di un drone diplomatico, riprogrammato dall’esperta informatica della comunità. Tra momenti di tensione e dialoghi suggestivi che richiamano la speculazione di Dick attorno al concetto di identità in un mondo che vede il continuo progresso dell’intelligenza artificiale, l’episodio convince anche sotto il fronte della sceneggiatura, punto debole di una parte degli episodi.

Crazy Diamond

L’episodio Crazy Diamond che vede l’interpretazione di Steve Buscemi è uno dei più bizzarri. In un futuro in cui le terre si stanno sgretolando a causa di violenti fenomeni di erosione, gli uomini hanno imparato a creare delle quantum consciousness (“coscienze quantiche”) iniettabili in cloni umanoidi, prodotti mescolando il DNA umano con quello di maiale, per ricreare in loro le funzioni della mente. Anche questi manichini intelligenti, chiamati Jill e Jack a secondo del sesso, sono soggetti a fenomeni di deperimento, che possono però rallentare installando una nuova QC. Anche qui l’azione, adattata ad un contesto che ricorda vagamente il noir, prende il posto della speculazione e il risultato è un episodio piatto, privo di fondamento. Potremmo dire che crolla davvero su se stesso, per restare in tema.

L’azione domina anche due dei restanti episodi, Real Life e Human Is. Punto di forza di Real Life, ambientato in uno scenario tradizionalmente futuristico, è la trama, dipanata su due piani differenti interconnessi e alternati: in breve, una poliziotta del futuro scopre di poter entrare nella mente di un game designer di un’altra dimensione temporale, attraverso uno strumento tecnologico che ricrea una realtà virtuale per scopi d’intrattenimento o relax. L’ingresso nella coscienza di quest’altra persona, altrettanto invischiata in pericolosi giri criminali, porterà la protagonista a rivalutare la propria vita e a compiere una scelta cruciale.

Human Is è infine identificabile come il più classicamente fantascientifico degli episodi di Electric Dreams. È chiaro dalle premesse: al fine di raccogliere risorse fondamentali al pianeta Terra, una flotta spaziale umana capitanata dal colonnello Silas Herrick (interpretato da Bryan Cranston) deve attaccare una colonia aliena. La missione è rischiosa e l’equipaggio cade vittima dei Rexoriani, alieni capaci di inserirsi come parassiti nei corpi altrui. Herrick sopravvive all’attacco e torna sulla Terra, ma non sembra più lo stesso; l’alterazione dei suoi comportamenti porta la moglie ad indagare sul suo miracoloso ritorno. Un finale veramente prevedibile (nonostante tutto l’episodio giochi su un meccanismo narrativo atto ad alimentare il dubbio) e una trama poco stimolante fanno sì che l’episodio non regga in piedi, risultando privo di tensione e meno coinvolgente di quel che forse si intendeva rendere.

Human Is

Infine, dopo il Bryan Cranston armato fino ai denti contro gli alieni di turno, arriviamo al doppelganger dell’ultimo episodio, The Father Thing. Altra trama piuttosto scontata, ma portata sul grande schermo con sufficiente efficacia, complice la buona interpretazione di Greg Kinnear nel ruolo del padre di famiglia replicato e quindi “sostituito” da una misteriosa entità aliena. Questo episodio non introduce nulla di speciale, ma potrà piacere ai fan della fantascienza classica (qui il legame con l’Invasione degli Ultracorpi ma anche con La Cosa carpenteriana è evidente). Buona comunque l’esecuzione e molto azzeccata l’idea di affidare la scoperta dell’alieno al ragazzino ed al suo gruppo di amici, che da un taglio grossolanamente spielberghiano alla storia. Il che non guasta mai, specie quando gli anni ’80 e i generi di quel periodo tornano a essere di tendenza. (Michele Bellantuono)

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