Elle: il fascino discreto della violenza

Arriva al cinema la turpe e spietata storia di Michèle, firmata da un Paul Verhoeven che torna sulle orme di Basic Instinct e Black Book

Francesca Orestini
La Caduta 2016–18

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Affermatosi in Europa e successivamente in America, grazie al suo gusto per l’eccesso e alla cinica rappresentazione della violenza, Paul Verhoeven è uno dei registi contemporanei ritenuti più controversi e scandalosi. Autore di alcuni tra i più famosi e amati film cult, il regista olandese fa nuovamente parlare di sé con il suo ultimo film Elle, tratto dal romanzo Oh… dello scrittore francese Philippe Adjan.

“Credo di essere stata violentata”. Questo è ciò che Michèle rivela una sera a cena all’ex marito e a due amici. E questo è ciò che le è accaduto pochi giorni prima proprio in casa sua. Da quel momento la sua vita continua apparentemente secondo la normale routine quotidiana, ma silenziosamente inizia la sfida della donna contro il suo assalitore.

Verhoeven trascina il pubblico in un gioco subdolo, nel quale scena dopo scena si è tentati a domandare chi sia la vera vittima del film. Con Michèle il regista delinea uno dei personaggi più ambigui apparsi sullo schermo, una donna che con durezza estrema domina imperiosa nel lavoro e nelle relazioni personali. Quella sua continua determinazione a voler “ottenere e riuscire”, presente come un leitmoiv in tutte le sue giornate, evidenzia la sua continua sfida alla vita e alle sue regole, rivelando una figura amorale e spudorata.

A prima vista il modo in cui viene trattato l’argomento della violenza lascia perplessi, quasi scioccati in realtà, e allo stesso modo stupiscono anche l’atteggiamento e la reazione della protagonista. Michèle, interpretata da una superba Isabelle Huppert, non si comporta infatti come una donna che ha appena subito uno stupro: raccoglie le porcellane cadute nella lotta con l’assalitore, si prepara un bagno caldo e si ordina del sushi. Niente lacrime, niente chiamate frenetiche ad amici o parenti, niente denuncia. Interiorizza la violenza amalgamandola con la vita di tutti i giorni.

Paul Verhoeven e Isabelle Huppert sul set di “Elle”

Tutto ciò fa immaginare una sorta di accettazione rassegnata causata da un forte senso di vergogna, compensata da un atteggiamento dispotico sul lavoro e nei rapporti familiari. Ma non è così. Ciò che la protagonista mette in atto è un meccanismo atto alla “normalizzazione” del suo stupro, che non avviene qui per debolezza o paura. Lei rinuncia a qualsiasi forma di compassione o aiuto perché rifiuta di sentirsi una vittima. Da questo momento porterà avanti una sfida personale con il suo violentatore per scoprirne l’identità e vendicarsi personalmente.

Un ulteriore aspetto interessante da considerare è quello riguardante il lavoro di Michèle nel film. Nel romanzo è la CEO di una compagnia di sceneggiatori cinematografici, mentre nel film ricopre la stessa posizione dirigenziale ma nel campo dei videogiochi. È curioso notare come la storia del videogame inserito nella trama di Elle ha qualcosa in comune con Starship Troopers, altro film cult di Verhoeven. Inoltre il regista se ne serve per un parallelismo col tema principale del film, poiché in esso si rappresentano scene di violenza e stupro, consentendo un’immediata analogia con la vicenda personale della protagonista.

La logica delle trame dei film di Verhoeven si fonda spesso sul capovolgimento dei ruoli e sul potere della sessualità, sfruttato la maggior parte delle volte dai personaggi femminili per arrivare a prevalere sul maschio o, più in generale, sul “nemico”. L’estetica della femme fatale va così ad intrecciarsi a quella della sopravvissuta, delineando una donna il cui vero ed unico scopo è dominare. Emblematiche sono in tal senso la Rachel Stein di Black book, l’affascinante Catherine Tramell di Basic Instinct ed in misura ancor più esasperata la Naomi Malone in Showgirl. Di queste precedenti protagoniste Michèle eredita tutte le oscure caratteristiche, incarnandole però in maniera più sottile e decisa. La caparbietà del suo carattere e l’aggressività psicologica turbano lo spettatore e hanno costituito il motivo per cui Verhoven non ha trovato in America attrici disposte ad interpretarla. Alla sua uscita, il film ha comunque avuto un’ottima accoglienza, nonostante alcuni critici siano arrivati a definirlo “rape comedy (commedia dello stupro). Lo stesso regista in un’intervista ha smentito questa definizione:

«I think it’s stupid when they describe it as a “rape comedy.” That suggests that the rape is comic […] the movie is about the rape, but it’s also about how people live. I think I look at it in a critical way, or maybe in an amused way. But I don’t ever look at the rape in an amused way. The rape is extremely harsh, direct, and violent. There’s nothing comical about it!»

L’ironia, come lo stesso regista afferma, non manca, ma è evidente nella descrizione degli altri personaggi. Uno degli aspetti che più lo ha interessato del romanzo è proprio il modo in cui l’autore descrive le relazioni affettive della protagonista, perciò il suo film ha conservato l’attenzione profonda ai legami di Michèle, cosa del tutto estranea nelle sue pellicole precedenti. Quest’ultima gestisce la sua vita privata come quella professionale e tutte le persone che le ruotano intorno arrivano costantemente a confrontarsi con la ferrea volontà di lei, uscendo irrimediabilmente sconfitti. Senza risparmiare neanche i familiari, il suo sguardo si eleva al di sopra delle loro vite insignificanti, giudicandole con silenzioso disprezzo. Loro non possono far altro che appoggiarsi a lei quasi con umiltà. Può forse richiedere la comprensione di esseri così deboli, dopo la violenza subita? Cosa potrebbe ricavarne? Anzi il suo stupro sembra quasi diventare, in relazione a loro, un ulteriore conferma del suo essere diversa e superiore, marcandone ancor di più il carattere.

Naturalmente, anche questo è funzionale all’opera, poiché se nei film Verhoeven lascia agire liberamente i suoi personaggi, senza giudicare le loro azioni, in questo caso la logica di Michèle lo fa per lui, svelando il proposito della storia di essere anche una sorta di satira borghese. Il regista non fa mistero di aver pensato molto al Buñuel de Il fascino discreto della borghesia oltre al Renoir di La regola del gioco, nonchè allo Chabrol ai suoi “thriller di buone maniere” e all’Haneke di La pianiste e Cachè. Con uno stile registico molto riflessivo e concentrato sulla psicologia del personaggio, fondendo inoltre vari elementi quali suspense, cinismo, drammaticità e ironia, Elle non è un film che si può inserire in un genere preciso: una cosa inusuale per Verhoeven, che ha sempre giocato molto sulla varietà di generi nella sua filmografia. Se per tematica ricalca perfettamente l’estetica del regista, la tecnica nella regia è completamente differente da quella precedente. Il ritmo dell’azione è ridotto al minimo e il personaggio e la sua quotidianità diventano il fulcro della narrazione. Questo a sottolineare l’intenzione di fare di Elle un film emblematico incentrato su una figura femminile. Il regista ha affermato:

«Elle is about rape, and the response to it, by a very specific woman, who has been through very specific, horrible things in her life before that. She has relationships, and love, and hate, and interests that have nothing to do with the rape. The movie is also about what Michèle does in the world. With genre, you have to stay inside something. I try to break with genre all the time».

La recitazione di Isabelle Huppert è stata fondamentale in questo. Raccogliendo in sé una serie di attributi stereotipati quali post-femminista, elegante carrierista, sadica rapace mangiatrice di uomini, ma senza ricalcare esattamente nessuno di questi, l’attrice domina la scena e dona al suo personaggio sfumature controverse di carattere, riuscendo a suscitare nello spettatore sentimenti contrastanti quali ammirazione, divertimento, inquietudine, stupore. La sua interpretazione è stata esemplare anche a detta dell’autore del romanzo da cui il film è tratto, il quale ha dichiarato: «Quando ho visto Michèle sullo schermo ho trovato il personaggio che avevo cercato per tutta la scrittura del romanzo».

Verhoven ha raccontato inoltre che durante le riprese è rimasto basito dalla perfetta immedesimazione dell’attrice e vedendola così profondamente sicura, spesso lasciava a lei decidere cosa il personaggio dovesse fare o dire nella scena. L’attrice aveva già in passato contattato Philippe Dijan dopo aver letto Oh… per sapere se fosse possibile trarne un film ed è stata lei a proporsi a Verhoeven dopo aver saputo del progetto di Elle. Il regista, che inizialmente aveva pensato ad un volto più “americano” da dare a Michèle, è rimasto subito entusiasta del lavoro dopo aver iniziato a collaborare con Isabelle:

«We’d talk about what we were doing that day, but with Isabelle I sort of just let her go. I thought that the less I said, the better I could get from her. She went so deeply into character, and I put my confidence in whatever she would do, even if it was breaking or changing the script. She would do that stuff. She would do things from other scenes, or continue with scenes after they were over, and I let her do it because she was so into that person. I had more confidence in her ability to perform and to express than in my own directorial supervision. I was so amazed by what she was doing that I often forgot to say “Cut.”»

D’altronde si può dire che sia un’attrice formatasi grazie a ruoli particolarmente anticonvenzionali, sempre in bilico fra perversione e follia come quello di Erika Kohut ne La pianiste di Haneke. Erika ha molto di simile con Michèle, con la quale condivide la vena sadomasochistica e l’estremo distacco sprezzante dal resto del mondo, ma distinguendosi da lei per la sottomissione e repressione ossessiva, che ne fanno un caso patologico. La malattia che scaturisce dalla costante abnegazione dei suoi impulsi, provocandole eccitazione sessuale, è del tutto inesistente in Michèle, la quale non riconosce nessuna forma di autorità oltre la propria. Il suo sadismo non è frutto di depravazione mentale o repressione, bensì di un’aggressività tale che la spinge a distruggere ciò che invece dovrebbe gettarla nella disperazione. Così il suo personaggio diventa un simbolo ultra-femmista di rivalsa sulla violenza maschile.

Isabelle Huppert è considerata da molti la più grande attrice europea vivente. Ha lavorato in più di cento film e produzioni televisive, vincendo molti riconoscimenti e premi per film del calibro di Violette Noizer, La pianiste, Un affare di donne e Il buio nella mente e vincendo nel 2005 il Leone d’oro alla carriera. Non sorprende dunque che abbia persino avuto una nomination agli Oscar di quest’anno come miglior attrice protagonista.

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