Di tutta l’erba, un fascio

La banalità della distruzione nella polemica del The New Yorker sui monumenti d’epoca fascista in Italia

Lorenzo Mondaini
La Caduta 2016–18
6 min readOct 13, 2017

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Il Palazzo della Civiltà Italiana, Roma — Foto di sarahtarno

Curioso intitolare un articolo sul fascismo parafrasando l’antico proverbio che contiene una nota similitudine al suo interno. Ma il caso, nella sua buffonaggine, lo richiede. Per essere precisi, è la stessa autrice di tale episodio ad invocare, anzi ad usare per prima, questo rurale detto.

La scorsa settimana, esattamente venerdì 5 ottobre, sulle pagine digitali del The New Yorker appare questo articolo dal titolo Why Are So Many Fascist Monuments Still Standing in Italy?, a cura di Ruth Ben-Ghiat. L’accademica della New York University, docente di Storia e Italian Studies, pone un quesito con quel fare misto tra incredulità e provocazione che tanto piace al lato più becero — perché esiste anche quello — della stampa liberal americana. Si chiede come sia possibile che molti monumenti costruiti in epoca fascista siano ancora lì, barcollano ma non mollano, testimoni del tempo che passa e delle ideologie che invecchiano. Per la Ben-Ghiat, in un momento storico in cui, per un parallelismo, la cultura e il popolo americano sono alle prese con i fantasmi del proprio passato confederale, è una follia che l’Italia non abbia ancora deciso (finalmente, a quanto pare) di cancellare ogni singolo artefatto, qualunque esso sia, risalente al ventennio.

Una tesi dai forti connotati che spinge a riflettere. O forse no. Forse invece crea un effetto contrario. Perché è forte sì, ma anche lunatica, diciamo.
Tale al punto che sorge in noi, ora, la necessità di porle delle domande a riguardo: per dire, come si può mettere sullo stesso identico piano un movimento politico semi-totalitario come il fascismo con la storia dei confederati sudisti d’America? Come si può considerare, nella stessa area d’azione, in termini puramente fisici, dei monumenti memoriali, delle semplici statue, per così dire, con dei complessi di edifici, delle stazioni, delle università? Sempre in tal merito, come uniformare la simbologia di una statua, che è rappresentazione di una persona, e solo quella può significare, con quella di un intero palazzo per giunta dall’architettura razionalista?

Bastano queste semplici domande per permetterci di confermare, senza paura né indugi, che la tesi dell’autrice è, in breve, fuorviante e inutile. Gli errori — e qui siamo noi, gli increduli , vista la caratura del personaggio — nella riflessione della professoressa sono soprattutto di carattere storico. (Un po’ il colmo, ecco). Come ben illustrato da Fulvio Irace sul Sole 24 Ore la scorsa domenica, l’architettura fascista, qui aspramente condannata, ha subito nel tempo un doppio processo di rivisitazione: dapprima, all’indomani del dopoguerra, la depurazione da ogni elemento di richiamo personalistico alla figura del Duce; successivamente, col passare dei decenni, la rivalutazione dei significati di quelle forme squadrate e sontuose attraverso la decontestualizzazione. Soprattutto grazie a quest’ultimo procedimento, di cui Renzo De Felice e Cesare De Seta furono fautori, si è potuto ammirare e studiare le opere di quel periodo senza il pregiudizio storico-politico.

Per quanto contraddittoria, la politica urbanista del regime mussoliniano diede spazio di manovra ad architetti e ingegneri di spessore come Marcello Piacentini, Cesare Bazzani, Giuseppe Pagano Pogatschnig, Giuseppe Terragni, Florestano De Fausti. Personaggi che furono tra i primi interpreti del razionalismo italiano, una importante filosofia architettonica del XX secolo, direttamente collegata al Movimento Moderno internazionale. Nel suo essere radicale, il razionalismo fu la corrente adatta alla nuova ideologia politica del fascismo. Si creò difatti un rapporto antitetico: entrambe perseguivano, nel loro campo d’azione, una rottura col passato: la dottrina fascista col liberalismo e, ahinoi, la democrazia; l’architettura razionalista con la tradizione ottocentesca del decorativismo. Il razionalismo inoltre, con la sua fisionomia d’ispirazione cubista e neoplastica, ricercava una funzione sia sociale (divenire strumento per una nuova comunità) che pragmatica (colmare le necessità materiali) nell’architettura delle sue opere. Lo stile dunque si prestava facilmente al pensiero di Mussolini, che conseguiva brutalmente gli stessi scopi; per giunta, con l’appropriazione del culto romano, dell’eroismo, della grandezza da parte dell’immaginario fascista, tale disegno architettonico divenne un tassello fondamentale del regime. Questo rapporto (apparentemente) paradossale fu la testimonianza di come la bellezza, nel suo valore estetico, trascenda a volte la malignità (o la bontà) dei suoi mandanti e dei suoi creatori.
Fascismo e razionalismo viaggiavano insieme, ma erano due entità autonome, la prima attingeva all’altra e cercava, con scarsi risultati, di inglobarla. Risiede proprio qui, in questo dettaglio, l’errore più sacrilego dell’autrice: quello di accomunare, di plasmare insieme, una filosofia politica che seppur tragicamente rivoluzionaria al tempo — ma neanche troppo, dato che dovette attingere a mani piene dal socialismo, dall’imperialismo napoleonico, dal nazionalismo, e usare la violenza e il populismo per il consenso, perché incapace davvero di creare un nuovo paradigma politico — ebbe una vita breve e oggi ne troviamo solo dei grossolani simulacri, con un filone estetico solido e nobile, nato prima del ventennio, sopravvissuto fino agli anni Settanta ed espressosi in tutto il globo.
Non si conta poi che i monumenti citati e criticati — il complesso dell’EUR e il Foro Italico a Roma — sono, per l’appunto, edifici, palazzi; strutture che non hanno un’anima, ma solo un corpo e una funzione che può essere cambiata, in caso, a proprio piacimento, proprio come avvenuto per tutte le opere sopra elencate. Semiologicamente parlando, costruzioni di questo tipo possono essere dei simboli, certo, ma dal significato debole e variabile, che non assumono mai un’interpretazione unica e finita. Per la loro forma aliena invece, si prestano quasi sempre ad eventuali risemantizzazioni, come ora il Palazzo della Civiltà Italiana, divenuto quartier generale della maison Fendi.
Al contrario, per rispondere alla domanda che ci siamo posti all’inizio, le statue, come quelle dei Confederati in USA, sono degli oggetti che hanno una funziona univoca, un rapporto 1:1 con il soggetto che rappresentano. Non a caso, i busti e le sculture del Duce furono distrutti fino all’ultimo. C’è quindi una differenza abissale e sostanziale tra le due masse, e sorprende in maniera straordinaria come la professoressa Ben-Ghiat non la riesca a cogliere.

Come ultima delle critiche all’autrice, quella della generalizzazione della distruzione. Se dovessimo buttare nello stesso calderone ogni elemento nato in un periodo avverso, se dovessimo usare la stessa tara per tutto ciò di malevolo, allora dovremmo buttare in mare o radere al suolo una bella fetta di oggetti testimoni della storia del mondo. Dovremmo distruggere il Colosseo, teatro di carneficine per lo spettacolo dei consoli. Dovremmo distruggere le Piramidi, lussuosi sarcofagi costruiti con la fatica degli schiavi. Dovremmo distruggere ogni rimanenza della polis di Atene, luoghi di politica democratica, sì, ma ad accesso ristretto e discriminatorio nei confronti delle donne. È chiaro fin da subito, senza andare oltre, che sarebbe una follia senza alcun senso logico.

Ciò su cui la Ben-Ghiat ha ragione invece, sono le continue celebrazioni fasciste in luoghi come Predappio, città natale del Duce. Nella culla del mussolinismo non solo rimangono intatti luoghi di culto o ancora aperti negozi di gadget, ma è in costruzione anche un Museo del Fascismo, che a cosa serve bene non si sa. Questi elementi di diciamo propaganda, per quanto considerati innocui dai governi e da molti politici nostrani, rimangono comunque come ultimi inutili strascichi e testimonianze dirette della nostra storia antidemocratica. E sono addirittura pericolosi, al giorno d’oggi, quando diventano oggetti strumentali per la politica di estrema destra di Lega Nord, Forza Nuova, Casapound, che fanno leva sulla mito mussoliniano (e sull’ignoranza del popolo) per portare consensi nelle loro tasche, tralasciando totalmente la realtà storica del fascismo. È per questo che andrebbero banditi per apologia al fascismo, come regolano le leggi Scelba, Mancino (e ora Fiano), senza se e senza ma. Sono questi i problemi veri: le apparizioni neo-fasciste e populiste sempre più in voga in Europa e nel mondo, non dei monumenti di cui nessuno ricorda la funzione del secolo scorso, ma ne ammira, oramai, solo la bellezza eterna.
Speriamo che lo capisca, prima o poi, anche la Ben Ghiat.

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