Fine Before You Came — Far parte di realtà che nessuno possa confutare
Dopo una lunga pausa i Fine Before You Came pubblicano un nuovo album, come sempre in free-download
Il 28 Febbraio, dal nulla, ma come al solito, è uscito il nuovo album dei Fine Before You Came; si chiama Il numero sette, e contiene sette brani, come ne contenevano sette S F O R T U N A ed Ormai. La numerologia significa qualcosa? Non lo so, so solo che per sfizio sono andato a vedere su Wikipedia cosa rappresentasse il numero sette, ed ho scoperto questo:
Sette è considerato un numero spirituale in quanto è illusivo e contiene veli che devono essere scoperti, uno dopo l’altro, per arrivare all’illuminazione ultima. Sette è detto sacro in quanto la settimana è composta da sette giorni, in Genesi la creazione è stata eseguita in sette giorni, l’antico sistema solare consisteva di sette pianeti, il corpo umano consiste di sette plessi o Chakra e qualche versione della Cabala è composta da sette sephirot. Nella sua valenza positiva possiede le qualità della consapevolezza nel sogno, nella spiritualità e nella sfera psichica.
Non c’entrerà niente eh, sarà un caso, sicuramente, però fatto sta che 3 tracce, all’interno di quest’album, hanno la stessa durata di 5:59 minuti; tutte e tre non riescono a scavallare quel poco che basterebbe per arrivare al 6, tutte e tre sembrano avere qualcosa in comune anche nel titolo: Ultimo giorno, Sequel, Penultima notte, tutte fanno riferimento ad una fine, o imminente, o passata. Visto che ci sto, allora, vedo anche cosa significhi il numero 6 per la numerologia:
Sei è relativo al tatto, alla bellezza e all’armonia. Il Sei possiede carisma, grazia, la possibilità di conversare con tutti, la diplomazia, la capacità di costruire relazioni in incontri a due. Tratta delle cose da cui si è attratti o da cui si trae piacere. Denota perfezionismo in quanto le operazioni 1+2+3 e 1X2X3 lo danno come risultato. Nella sua valenza positiva è associato ad una piccola somma di denaro ed è considerato il numero madre/padre. Nella sua valenza negativa è associato alla gelosia, all’infedeltà, all’amarezza e alla vendetta. Inoltre all’interno della numerologia cristiana il 666 è simbolo della seconda bestia, nell’Apocalisse.
Ed effettivamente il 6 non sembrerebbe un numero appartenente ai Fine Before You Came, basti pensare che rappresenta la «capacità di costruire relazioni in incontri a due», che è il tema sempre tanto agognato, sempre causa di tanti rimpianti e rimorsi, ma che non si riesce mai a raggiungere. Ma non si riesce mai a raggiungere anche perché si è sempre immobili,non si riesce mai a progredire, ma c’è solo un perenne inseguire l’altro per ritrovarsi ad inseguire se stessi.
Ma queste molto probabilmente non sono nient’altro che mie congetture. Anche perché nella presentazione sui vari canali di comunicazione, l’album viene semplicemente paragonato ai 7 nani.
Ma chi sono i Fine Before You Came? Innanzi tutto sono e sempre saranno Marco, Filippo, Mauro, Jacopo e Marco. Inizialmente hanno fatto due album in inglese (It All Started In Malibù e Fine Before You Came), ma la svolta si è avuta con S F O R T U N A, loro terzo disco pubblicato con La Tempesta nel 2009, ma distribuito gratuitamente. L’album ha da subito un successo clamoroso, tant'è che anche chi sente il pop più indie del periodo, ascolta o comunque conosce i FBYC — il pubblico crescerà ancora di più in seguito al tributo de I Cani contenuto in Glamour. Seguono poi la pubblicazione di altri 3 album, un EP ed un vinile registrato al Teatro Altrove di Genova, in seguito ad un tour acustico in cui hanno riarrangiato 12 loro pezzi (mi permetto di dire: in modo sacrale). Ma ciò che è importante sapere — e che i FBYC hanno sempre tenuto a sottolineare — è che 1) la loro musica, nel momento in cui internet ha abbattuto le barriere, verrà sempre distribuita gratuitamente 2) che i FBYC non sono un lavoro, perché il lavoro è una cosa brutta 3) che i FBYC sono una cosa bella, perché sono un gruppo di amici che si conoscono da una vita, che si divertono suonando nella sala prove, così che ogni loro album non è altro che il frutto di questo stare bene insieme.
Da sempre c’è stata un’incredibile attenzione per i testi, che vengono scritti da Jacopo Lietti, ancora prima che la traccia musicale esista.
Parlare di testi è intimo. Sono robe che uno si chiude a riccio, ed ha un atteggiamento di un certo tipo, e le scrive, così riesce un po’ più a tirarle fuori. Quando vengono scritti però, non vengono scritti per nessuno in particolare, né per la canzone, perché vengono scritti prima. Per dire cose che non si direbbero in altro modo
I testi riescono ad essere incredibilmente evocativi all’ascolto, ma anche straordinari alla semplice lettura:
I versi si inseguono uno dietro l’altro, le scene s’intrecciano in un unico flusso indistinto (almeno alla lettura). Sempre presente è l’errore di battitura che riesce a dare l’effetto di qualcosa fatto di fretta, di stizza, che sembra essere della stessa sostanza del «God is gay» di Kurt Cobain scritto su un muro. Sono frasi e immagini buttate apparentemente lì per caso, ma spinte dalla necessità di sbrogliare una matassa interna. Appaiono come frasi scritte di stizza, come paturnie incontrollate trascritte direttamente dai rimuginamenti. Le frasi paiono delle vere e proprie scritte sui muri, che riescono ad evocare paesaggi urbani identificabili spesso da luoghi come bar o cinema, ma anche spiagge, strade di paese, città, che hanno in comune l’essere zone antropizzate. La rabbia, il rimorso, il senso di colpa, l’autocommiserazione, vengono trattati con una facilità unica, tale da far immedesimare anche l’ascoltatore occasionale non avvezzo allo screamo o alle lunghe sezioni musicale del post-hardcore, perché abilmente le canzoni riescono a creare empatia sempre al momento giusto, grazie al mix che la voce di Lietti (accompagnata dai coretti) riesce a creare con lo spazio sonoro degli strumenti musicali. Ad esempio:
Piovono Pietre
vista da qui sei tutta il contrario / e quello potrebbe anche non essere un sorriso / quello non sembra più nemmeno il tuo viso / ascoltami, non è importante / parlami, non ricordo mai niente / piovono pietre da un cielo di cotone / i baci non dati il loro sapore / le cose non fatte il loro valore / le frasi non dette e pensate soltanto in fondo alle scale / e non mi sento al sicuro / neanche se mi copro il viso / finché rimango qui / all’ombra del tuo sorriso / all’ombra di te sospesa / a volte a testa in giù
La canzone parte da una dimensione normale, di quello che potrebbe essere un amore che si è trasformato in un disamore. Un viso che diventa irriconoscibile, l’immagine di un sorriso ambiguo. Poi la voce richiama l’attenzione di un altro: «ascoltami», «parlami». Cose che si dicono mentre si litiga, mentre si urla. Finisce la strofa; quando la voce riattacca lo fa con un elemento immaginifico «piovono pietre da un cielo di cotone», che strania, ma passa in sordina, non si percepisce al primo ascolto, perché poi la parte successiva viene scandita maggiormente e aiutata dai coretti, spostando l’attenzione, facendo in modo che venga messa in risalto la dimensione umana, quella dei rimpianti, dei «baci non dati il loro sapore», delle «frasi non dette», per poi ricollegarsi alla prima strofa, a quel sorriso che non si riconosceva, che poi si comprende essere un sorriso capovolto, perché l’altro è sospeso in aria a testa in giù. Le pietre che piovono dal cielo di cotone dovrebbero immediatamente essere spia della surrealità della situazione, della probabile ambientazione onirica, ma così non è, perché per scelta questo viene messo in secondo piano al momento dell’ascolto.
O ancora:
Vixi
ho tirato pugni da ogni parte solo per uscire da un sacchetto di carta / scoperto posti in cui dove parcheggi, in fondo, a nessuno importa / e camminato in tondo per ore e ore / senza mai guardare in alto per paura di ammettere di avere paura / ho chiamati i miei insuccessi sfortuna / maledetta sfortuna.
Centrale nella canzone, e che rimane dopo il primo ascolto, sono le grida disperate che dicono «maledetta sfortuna», che occupano gli ultimi due minuti della canzone. Chiunque di noi ha accusato la sfortuna di aver rovinato qualcosa nella nostra vita: questo viene messo in risalto ed è proprio questo il pezzo in cui ci si abbraccia e si grida tutti insieme. Ma poi ci si rende conto che quelle grida sono soltanto grida di autocommiserazione, perché la sfortuna non esiste, sono solo io a chiamare i miei insuccessi sfortuna, per trovare una giustificazione.
Nelle due canzoni qui sopra riportate avremmo anche notato che c’è una opposizione tra un alto ed un basso. In Vixi c’è il timore di guardare in alto, in Piovono Pietre, invece, lo sguardo dal basso deforma la visione. Ma per il resto dell’album tutto è molto umano, tutto è relegabile alla dimensione privata di una storia d’amore che vive un momento di instabilità; l’album parla di una lacerazione — o perlomeno è una delle immagini che più facilmente evoca. Tutti hanno passato quelle sensazioni evocate da Buio, tutti si sono resi conto che non tutto quel che piace a noi piace anche agli altri (Lista). Le coordinate sono terrestri e private.
Ci sono anni di collaborazioni con i più svariati gruppi, si consolidano le amicizie e nel 2012, senza annunciare nulla, fanno uscire Ormai, album che può sembrare simile al precedente; ma solo al primo ascolto. Si allargano i limiti e non c’è più solo un io e un tu che si scelgono, c’è un io e un tu consolidato, che nonostante tutto è riuscito ad andare avanti, che ha superato l’evento traumatico e che inizia, sebbene leggermente, a cambiare prospettiva.
Capire Settembre
è una vita che provo a capire settembre ma non fa per me, è più forte di me / nonostante mi piaccia sentirne l’odore per strada e pensare alle scuole / mi dispiace se ho alzato la voce ma ho solo dormito due ore e ricominciato a fumare / è più forte di me / ho provato più volte a sparire e sortito l’effetto contrario / quanta gente mi cerca a settembre, quante cose mi devono dire / quante cose / tutti quanti i bambini mi hanno sorriso stamani / tutti a parte te / se ad ottobre non sono guarito tu porta pazienza / è soltanto questione di ore / non è niente rispetto a una vita in cui provo a capire per quale motivo settembre non fa per me.
Settembre è il mese in cui inizia la scuola, in cui c’è un odore tipico del clima che sta cambiando. Il sole ed il mare, evocati in altre canzoni, sono ormai andati, lasciati indietro. Settembre fa ricominciare a fumare, fa prendere l’ansia perché il tempo scorre: ma questo non è esplicitato, è ancora fatto di piccoli ritratti di situazioni quotidiane, in cui però il tu, rispetto a Sfortuna, si estende oltre il rapporto amoroso, andando a rappresentare anche un figlio. Segno che si sta allargando l’orizzonte.
Nel 2013 poi, con Come fare a non tornare, le cose cambiano radicalmente.
L’album ha delle sonorità molto più cupe di quelle precedenti e non sembra nemmeno essere pensato per essere cantato abbracciati ai live. È un album fatto di continue negazioni, fin dal titolo. I primi quattro brani si chiudono rispettivamente con «noi non sappiamo come fare a non tornare», «non cambieremo mai», «non è vero che non ho imparato niente», «non lasciar che li unisca mai / vai fuori di qui». Il brano finale, dal titolo Dura, esprime il senso del lavoro:
Niente di tutto questo mi piace davvero / ma so che la mia fortuna è averlo / cosa vuoi che ti dica, vado avanti così finché dura / passo dalle vittorie alle sconfitte senza combattere battaglia alcuna.
La continua negazione risulta essere un completo immobilismo, un’impossibilità di progresso, dovuta al fatto che le cose passano di fianco senza che si riesca a fare niente; è molto cambiata la condizione rispetto a Buio, in cui si diceva di «non aver paura del buio / meglio non vedere che cercare invano e non trovare», perché ora la voce sembra essere stata costretta, probabilmente dal tempo, a spalancare gli occhi rendendosi conto che la vita ti mette le questioni sotto agli occhi, in cui spesso si è inermi, e nonostante si tenti di non vedere, questo risulta impossibile. È vero che nell’album rimane un forte confronto tra un tu e un noi, ma l’insieme di persone, del noi, sta prendendo maggiore spazio. Se all’inizio dare pugni ai sacchetti di carta permetteva comunque una fuoriuscita da qualcosa, anche temporaneamente, ora non c’è nessuna barriera da abbattere. Quel sacchetto è scomparso, pur di trovare qualcosa per cui stare male, qualcosa di umano, ci si batte «i lividi per mantenerli sempre viola».
L’impressione è che Come fare a non tornare abbia segnato un passaggio cupo ma necessario, perché è stato il momento in cui si è passati dal basso all’alto: quel momento in cui anche se si tiene chinata la testa non si vede più solo e soltanto il marciapiede e i propri piedi, si vede anche altro, anche un orizzonte — o perlomeno lo si percepisce.
Così l’anno dopo, nel 2014, arriva Quassù c’è quasi tutto, EP di due tracce, dalla durata complessiva di 15 minuti. I suoni sono più chiari, i colori della copertina pure, la vista è sempre dall’alto, ma questa volta c’è la natura al posto dell’orizzonte completamente occupato da palazzoni, come nella copertina di Come fare a non tornare.
Angoli
Presto la smetteremo di chiederci se dove stiamo andando ci saremo anche noi / se liberando il cielo dalla foschia semplicemente soffiando poi vedremo il mare / se il nostro cane sarà finalmente felice e non dovrà più nascondersi negli angoli / spegniamo tutto, restiamo soli, non pensiamoci più / ma cerchiamoci ovunque / facciamolo adesso che domani non c’è.
Se prima si tornava sempre allo stesso punto, ora questa è diventata consapevolezza; in Angoli viene lasciato da parte il senso di colpa e la paura, per guardare avanti e scorgere il mare oltre la foschia. Ma il domani non c’è; a differenza del passato però la reazione non è di paura, anzi, ci si dice per la prima volta di godere del presente: «cerchiamoci ovunque / facciamolo adesso che domani non c’è». L’altra traccia, Distanze, chiude l’EP con «sarà quel che sarà, quassù c’è quasi tutto». Quella foschia nella copertina è ancora impenetrabile, non si sa cosa ci sarà, ma siamo arrivati ad una pace, ad un’accettazione.
I FBYC poi fanno un tour acustico, ma da lì rimangono in silenzio per due anni. Fino a quando, come da prassi, l’album viene caricato su MediaFire il 28 Febbraio 2017 e scaricato in massa. All’inizio parlavamo del sette come numero che indica un progressivo disvelamento, al fine di giungere ad un’illuminazione. E a tal proposito, sebbene sappia che quest’associazione è del tutto casuale, non riesco a togliermi dalla testa che l‘eventuale illuminazione sia contenuta in Come alberi: «ciò che sentiamo più alto è far parte di realtà che nessuno possa confutare». Per la prima volta si guarda all’alto in positivo, non c’è nessun galleggiamento, nessuna sospensione, c’è una certezza, che ciò che è sacro è far parte di una realtà che nessuno possa mettere in dubbio. In tutti gli album, fino a Come fare a non tornare, c’è sempre qualcuno di esterno che giudica il noi. Ora no.
Ora la paura di affermare, di dire, di fare, è scomparsa, ora si può ammettere che c’è qualcosa di più alto. La canzone paragona quella realtà alta e inconfutabile alle piante e ai sassi, cose che evocano perfezione nell’accezione latina di immutabilità. Il tutto è inserito nel processo di creazione-distruzione, ripetuto nel ritornello. Non solo questo. Per la prima volta compare l’essere contrapposto al non-essere, proprio nella canzone d’apertura, Ultimo giorno, in cui come nelle poesie di Caproni, gli abitanti scompaiono nella notte, e scomparendo dalla memoria, cessano di esistere anche nel passato.
Lo sbaglio che genera il rimorso non è più un peso sulla coscienza, ma piuttosto ci rende vivi: («sbagliare ci rende vivi»). Altro elemento importante è la pietra, che qui non cade né dai soffitti di cotone, né è una semplice matassa inestinguibile. No, il sasso diventa quello dell’episodio biblico, del «chi è senza peccato scagli la prima pietra»; non è più solo peso interiore, ma un vero e proprio peccato: una trasgressione verso il divino. Ma c’è dio negli album dei Fine? No, secondo me no. C’è però il sacro, che domina le cose puramente terrene; ed infatti non esiste la prima pietra di chi è senza peccato, ma solo le seconde di coloro che sono tutti uguali, che sono uomini, poiché l’uomo inevitabilmente sbaglia, ma è proprio quell’errore che «ci rende vivi».
In un altro brano (Come pecore) i rimpianti vengono associati alle pecore, da contare prima di andare a dormire.
Anche qui compare la morte, che dall’essere praticamente assente, diventa quasi protagonista. Ad accompagnarla c’è l’affermazione che «la verità che il più grande di noi non è che un microbo», che completa il passaggio ad un noi universale, all’uguaglianza per difetto: la presa di coscienza che il mondo è sempre stato e sempre sarà così, che noi essere umani siamo nient’altro che microbi in confronto al «distruggere e costruire» eterno. Gli errori, che però sono inevitabili, hanno reso il mondo un posto peggiore. Questo mondo che è tempestoso ed in cui ogni giorno si muore. Ormai tutto è cambiato, lo sguardo ha cambiato prospettiva, ma come negli album precedenti, la forza evocativa è incredibile. Nell’ultima canzone poi, dai toni chiarissimi, si ripete: «ho preso una decisione, non possiamo andare avanti, non tirarci indietro», il che riconferma alla fine tutte le negazioni e le negazioni doppie degli album precedenti, a rimarcarlo come tema fondamentale, quello dell’immobilità, all’impossibilità di progredire; ed anche il finale è ossimorico, («dobbiam sempre dirci addio») perché dirsi continuamente addio significa non dirselo mai.
Che l’illuminazione del numero sette sia proprio la scoperta del nonsenso comune, che permette approdi stoici? L’illuminazione è raggiungere la consapevolezza che quest’immobilità è un concetto universale?
Non è nemmeno il caso di chiederselo troppo, perché i FBYC hanno sempre lasciato — e ritengono importantissimo — il diritto agli ascoltatori di fare proprie le loro canzoni, di interiorizzarle e ricollegarle ad aspetti del loro vivere quotidiano. E questo è l’importante, al di là della tristezza, al di là del male, sapere di poter contare su una catena di essere umani che ti saranno vicini, accomunati dal nonsenso comune, nonostante tutto.