Forme di resistenza editoriale: il caso di CTRL Magazine
Dalla provincia alla nazione e ritorno. La storia complessa e affascinante di un gioiello del giornalismo indipendente italiano
La società odierna si nutre quotidianamente di piccole particelle d’informazione. Frammenti di significato compiuto ma privi di un legame con il proprio contesto. Che siano essi un tweet, un post, uno snap. In questo gigantesco carnevale, le storie in quanto tali—la successione di accadimenti in un certo arco temporale — hanno vita breve, brevissima. Lo decidono le piattaforme e i loro algoritmi, che valorizzano sempre di più l’immediatezza multimediale. E lo dimostrano il propagarsi (preoccupante) delle fake news: le persone non sentono quel bisogno, quasi fisiologico, di sapere l’inizio o la fine, di scoprire il dove, il come, il perché, nei vari dettagli, se non tutti, almeno in gran parte. In questo panorama pieno di incertezze per il giornalismo e per il sistema d’informazione come lo conosciamo, sono pochi i coraggiosi che provano a sfidare la corrente, a cercare la lentezza piuttosto della velocità, la lunghezza piuttosto della sinteticità. Gli esempi si possono contare sulle punte delle dita. Sul suolo italiano, uno dei più interessanti è certamente quello di CTRL Magazine. La rivista bergamasca, specializzata in reportage narrativi d’autore, quest’anno è stata protagonista di un audace ritorno sulle scene: di fronte al rischio della chiusura del progetto per problemi di sostenibilità economica — il passaggio dalla distribuzione locale a nazionale non aveva prodotto i risultati sperati — la redazione ha deciso di rilanciare e di scommettere, cambiando radicalmente struttura editoriale. Nella campagna di crowdfunding per finanziare il nuovo corso, i lettori hanno accettato la sfida, contribuendo con forza al futuro del progetto. Una dimostrazione d’amore che ha reso possibile, lo scorso aprile, la pubblicazione del nuovo libro Stiamo Scomparendo - Viaggio nell’Italia in minoranza, un insieme di reportage narrativi e fotografici sulle minoranze linguistiche del nostro paese.
Come si può evincere da questa breve anteprima, la storia della rivista è lunga, variopinta, rocambolesca e di certo in controtendenza con molte realtà simili. Di tutto questo abbiamo parlato con il direttore, Nicola Feninno, in una lunghissima intervista che ha toccato il tema dell’evoluzione del giornalismo. Per uno spaccato di un settore in rapida trasformazione che necessita questo tipo di riflessioni.
CTRL Magazine nasce nel 2009 a Bergamo come pubblicazione gratuita e distribuita nella città lombarda, con una linea editoriale ben precisa: raccontare i luoghi e le storie della realtà quotidiana, specialmente quelli più unici e intriganti, attraverso dei reportage narrativi. Da cosa nacque, al tempo, questa esigenza: da una volontà personale e condivisa o dalla necessità di riempire un buco presente in Italia?
La rivista nasce nel 2009, come dici, a Bergamo. Nel 2009 io non c’ero ancora, così come non c’era tutto il resto della redazione. Nasce come un raccoglitore di eventi, poco più di un calendario che elencava gli appuntamenti di Bergamo e provincia, divisi giorno per giorno, e distribuito mensilmente e gratuitamente in formato tascabile. Questo format inizia a subire un’evoluzione, ancora prima che arrivassi io, con l’inserimento di rubriche di musica, cinema, arte e qualche extra-divagazione. Finché nel 2013 l’editore della testata — che poi è lo stesso che ha passato la responsabilità editoriale alla redazione — scova dei miei racconti di narrativa pura su un blog che avevo in rete, una roba super amatoriale, e quindi mi chiama per capire chi fossi. Io in quel momento sto facendo la tesi magistrale in lettere, occupandomi di neo-platonismo e di letteratura italiana del ‘500 tra Firenze e Milano — quindi qualcosa di abbastanza diverso da quello che fa CTRL! Io dico ok, va bene, mi piacciono le intenzioni e la voglia di evolvere, ed entro con due rubriche: una si chiamava Scampagnate, ed erano racconti di luoghi fuori dai radar, come diremmo ora col nuovo linguaggio CTRL, e l’altra si chiamava Ad Personam ed erano proprio dei ritratti, dei reportage di persone, sempre intorno a Bergamo. Per cui mano a mano, un anno e mezzo dopo, l’editore mi chiede se voglio diventare direttore della pubblicazione ed è a quel punto che imprimiamo una svolta netta per diventare un magazine sempre tascabile, sempre gratuito, distribuito all’inizio a Bergamo, poi anche a Milano e Brescia, e infine nazionale, ma che fosse un vero e proprio magazine di reportage narrativo. Così decidiamo di mandare in questi luoghi fuori dai radar in giro per l’Italia, degli scrittori e dei fotografi, per raccontare questo tipo di provincia che può anche essere il centro, i centri di quello che si racconta di solito, però osservati da un punto di vista laterale: noi crediamo che non ci sia un centro assoluto e una provincia assoluta, ma che dipenda sempre da come ci si pone nei loro confronti.
Praticamente la mia domanda sarebbe dovuta partire dal 2013.
Esatto, quindi, ricollegandomi alla tua domanda mi vien da dire innanzitutto che è stata una mia esigenza personale quando sono entrato nel magazine come semplice collaboratore, proponendo una rubrica sui luoghi e una sulle persone — adesso il (titolo completo del, nda) magazine è “CTRL Magazine, persone luoghi e altre storie”.
Quindi non è stata una scelta sistematica, piuttosto è stata dettata dal contesto. Non avete fatto un’indagine di mercato che ha rilevato la mancanza di questo tipo di rivista in Italia?
No, assolutamente. Se torno indietro con la memoria alle riunioni di redazione, posso dirti che c’era davvero molto poco di sistematico (ride, nda). A un certo punto però è diventata sistematica, quando io sono diventato direttore e ho iniziato ad andare dritto con la barra del timone verso questa direzione e ho capito che la cosa iniziava ad essere interessante sia per noi, che per i lettori. Lì inizio a capire che la cosa era diventata utile e anche necessaria, sotto alcuni punti di vista, nel panorama editoriale nazionale. Su questo torneremo più avanti. Da quello che era il gruppo iniziale, la redazione evolve moltissimo e iniziano ad arrivare naturalmente, cercati sia da me che dagli altri redattori, i nuovi membri. In questo senso è stato fondamentale indirizzarci verso qualcuno che avesse qualche anno in più di noi e anche più esperienza professionale della nostra. Ad esempio, nell’ultima fase del magazine, chi si occupava di coordinare la parte di reportage e ritratti era Valerio Millefoglie, che ha pubblicato con Einaudi e scrive per il Venerdì di Repubblica. Insieme a lui è entrato Thomas Pololi, anche lui fotografo professionista e foto editor, che appunto si occupava della parte di foto editing. Anche questa è stata una svolta importante, che ci ha portato al punto di adesso per cui dal magazine cartaceo nazionale diventiamo magazine online di reportage narrativi, sempre con scrittori e fotografi, e una collana editoriale di libri che hanno la stessa impostazione, lo stesso modo di raccontare la realtà, la stessa scelta di storie e luoghi fuori dai radar.
Tornando al momento in cui siete entrati nella distribuzione nazionale, vorrei chiederti: come siete arrivati a prendere questa decisione? A distanza di tanto tempo, cosa pensate sia andato storto?
Ci abbiamo riflettuto molto e penso che la nostra rovina sia stata anche la nostra salvezza, a conti fatti. Il magazine, appunto, nasce a Bergamo e si rivolge inizialmente al pubblico bergamasco, per poi spostarsi verso Brescia e Milano, mantenendo comunque un target abbastanza coerente. A quel punto iniziamo ad avere dei riscontri dal resto d’Italia molto significativi, sia online che di abbonati esterni al nostro territorio, anche con buoni numeri, per cui decidiamo di fare questo passo, col senno di poi, più lungo della gamba ma che ci torna piuttosto utile tuttora. Diciamo “ok, proviamo ad andare fuori dal nostro recinto”, e proviamo a farlo tramite Soundreef che per un accordo commerciale di scambio pubblicitario ci segnala 100 locali convenzionati con loro nei quali noi iniziamo a distribuire. Abbiamo individuato il punto di rottura nel fatto che da un lato i lettori aumentavano, anche in maniera sostanziosa, ma dall’altro non riuscivamo a soddisfare gli inserzionisti, in quanto troppo sparpagliati nel paese. La stampa e la distribuzione del magazine, essendo gratuito, sono sempre state sostenibili grazie all’entrate pubblicitarie. Se viene a mancare quello, la struttura chiaramente crolla.
Tra l’altro ricordo il lavoro di rielaborazione delle pubblicità che portavate avanti con il free press. Forse eravate una delle poche testate a curare, in maniera specifica, caso per caso, anche l’immagine delle inserzioni.
Sì, l’obiettivo era quello di creare sintonia tra l’estetica e lo stile del magazine e quella delle varie pubblicità, così da poter valorizzare maggiormente i vari brand locali presenti in ogni numero. Abbiamo provato a fare lo stesso quando siamo andati su scala nazionale, ma era tutto molto più complicato: le aziende avevano una copertura geograficamente molto ampia, quindi veniva a mancare il target locale di riferimento, facile da individuare; e inoltre tutti i processi di creazione di pubblicità ad hoc erano molto macchinosi per via dei paletti posti dalle agenzie di comunicazione dei brand.
Quindi, questo passaggio diciamo “kamikaze” di espansione territoriale ci ha fatto perdere i fondi degli inserzionisti locali, sì, ma abbiamo guadagnato moltissimi lettori. E sono loro ora la nostra salvezza, il nostro patrimonio, perché sono soprattutto loro ad aver partecipato al crowdfunding del nuovo libro.
Questo cambio di paradigma ha modificato anche l’assetto imprenditoriale, ora tutto in mano vostra, con la redazione nel ruolo di editore. Qual è la nuova impostazione di lavoro e in che modo vi sostenete?
Diciamo che il modello utilizzato per la pubblicazione del libro è attualmente il nostro punto di riferimento. Questo è stato finanziato in piccola parte dall’aiuto di alcuni pochi inserzionisti, per lo più istituzionali, che credevano nel progetto — infatti non ci sono più pubblicità tra le pagine, ma solo dei loghi alla fine del libro — e in larga parte da una raccolta fondi superiore alle nostre aspettative. Nel momento in cui ci siamo resi conto di questo forte supporto dei nostri lettori, considerati ora come dei veri e propri investitori, abbiamo deciso di prenderci la responsabilità delle nostre scelte e diventare indipendenti. La libertà di decisione ci sta permettendo un maggiore virtuosismo ma anche una maggiore lungimiranza: oltre a proseguire la collana di reportage infatti, in futuro proporremo altri prodotti cartacei, sempre in linea con quel timbro un po’ folle e ricercato che caratterizzava il free press.
La campagna di crowdfunding che ha caratterizzato questa fase di transizione ha avuto un successo importante e sopra le aspettative. Poche realtà editoriali in Italia — penso a Valigia Blu o Da Costa a Costa — possono avvalersi di una fan base di lettori così vicina e così concentrata. Credete che questo tipo diretto di finanziamento possa rappresentare realmente una delle soluzioni alla crisi moderna del giornalismo? E credete che possa diventare uno strumento comune e applicabile ad altre realtà editoriali, anche più grandi, come i quotidiani?
Premettendo una divisione netta tra l’editoria generalista dei quotidiani e dei grandi periodici e quella diciamo indipendente dei piccoli siti ed editori, personalmente credo che il crowdfunding possa essere un buon modo (non l’unico) di finanziamento per quelle realtà che possono contare su una base di lettori molto “militante”. Nel momento in cui si propongono dei progetti specifici, ricercati e originali che hanno la capacità di colmare una necessità editoriale, il contributo diretto dei lettori rappresenta una modalità molto solida di sostenibilità. Contrariamente non riesco ad immaginarmi un lettore di Repubblica o del Corriere della Sera fare lo stesso ragionamento, specialmente quando le varie notizie possono essere trovate su qualunque sito d’informazione. Nel nostro caso infatti, avendo una linea editoriale ricercata, tutta incentrata sull’approfondimento, sulla narrazione lenta, su uno stile di racconto sempre più disertato, siamo riusciti a colmare una lacuna nel panorama italiano. E questo ci ha permesso di fidelizzare un gruppo di lettori che ora ci sostiene economicamente.
Rimanendo su discorsi di carattere economico: pur essendo uno strumento forse lontano dalla vostra realtà, cosa ne pensate dei finanziamenti pubblici all’editoria?
In effetti è un qualcosa di lontano dal nostro tipo di lavoro e di prodotti e per questo non ci siamo mai posti la questione in questi anni. Personalmente però, per quanto sia impopolare di questi tempi parlare, in generale, di finanziamento pubblico, sono molto convinto che ci siano dei settori che lo necessitano dato che per loro natura non possono produrre ricchezza e competere con le semplici regole di mercato. Questi settori speciali, come anche quello del giornalismo, sono fondamentali per la tenuta della società moderna. Per cui credo che sia necessaria l’esistenza di un ente pubblico apposito, indipendente e imparziale, che tramite qualsiasi modalità possa sostenere o almeno facilitare queste realtà fragili ma di assoluto valore.
Poi chiaramente si devono valutare tutti i pro e i contro di una impostazione del genere: ci dovranno essere contromisure e contrappesi per mantenere un equilibrio e per evitare che si ripetano quegli imbrogli di cui tutti siamo a conoscenza. Insomma, non è una questione esente da rischi e non credo che ci sia una soluzione che vada bene per tutti, ma ripeto, c’è bisogno di un supporto da parte dello Stato in questo senso.
Tornando al rapporto con il vostro pubblico, quanto è importante secondo voi il coinvolgimento dei lettori? Ma soprattutto quale approccio e quali metodi per tenere attiva questa relazione?
Per quello che facciamo noi, chiaramente, il lettore è fondamentale, è sempre al centro. Questo però non significa che andiamo a raccontargli ciò che vuole sentirsi dire. In realtà ragioniamo al contrario, totalmente, e ci siamo resi conto che è una strategia vincente, che attrae e fidelizza il pubblico. La nostra linea editoriale, come abbiamo sottolineato durante la campagna di raccolta fondi, è l’esatto opposto dell’algoritmo di Facebook, il quale tende a farti trovare elementi che stavi già seguendo o cercando. Ne consegue che la tua visione personale del mondo si sovrappone a quella della realtà, la oscura da un certo punto di vista. Nel nostro caso invece, per l’appunto, proponiamo come cover story sul sito o sul magazine quello che è fuori dai radar e che tu da solo non andresti a cercare. E con questo non voglio dire che ci chiudiamo in una torre d’avorio… Per farti un esempio: dopo gli attentati a Charlie Hebdo del 2015, invece di dire la nostra e omologarci ai tantissimi altri, oppure di non dire nulla, ci siamo chiesti “Ma quale impatto avranno questi episodi sull’opinione pubblica”? E così ci siamo messi a ragionare sul concetto di interazione contrapposto al concetto di integrazione, a volte usati come sinonimi ma secondo noi molto differenti. Per cui abbiamo declinato queste tematiche in una dimensione locale, provinciale, attraverso uno dei nostri reportage. Siamo andati a Zingonia che è un paese a noi vicino, appena 25 km dalla nostra redazione, sorto negli anni ’60 nella campagna bergamasca come progetto utopico dell’imprenditore Renzo Zingone. Dagli anni ’90 si è trasformato in una sorta di ghetto per via di una popolazione formata al 90% da stranieri — tanto da essere soprannominato “la Scampia del Nord”. Insieme a uno scrittore e un fotografo passiamo una settimana in questo posto e scopriamo a poco a poco una realtà completamente differente da quella ci avevano dipinto, cioè come metafora del degrado urbano in Italia e modello nostrano delle banlieue francesi.
Quindi riusciamo a trattare il tema caldo del momento ma da una prospettiva diversa, dimostrando l’esistenza di un’area di racconto enorme che i media tradizionali non vanno a coprire nel giusto modo (o che non coprono per niente). E perché non lo fanno? Per moltissimi motivi: perché rincorrono primariamente quello che credono interessi di più al pubblico, oppure perché non vale la pena di mandare un reporter in un luogo per molti giorni, con i costi che comporta. Tutte queste situazioni, tutti questi agenti creano un effetto di approssimazione e di banalità della narrazione che ha chiaramente un’influenza sul lettore. Non è un caso se poi quest’ultimo, sapendo cosa aspettarsi dal telegiornale o dal quotidiano di turno, si allontani e cada magari nella trappola delle fake news e cose così… È una catena abbastanza inquietante.
Arriviamo al 2018 e alla drastica e forzata decisione di reinventare il progetto per evitarne l’abbandono. La scelta di trasformarvi in una sorta di libro-rivista semestrale è particolare oltre che coraggiosa. Cosa vi ha spinto a preferire questa forma editoriale come vostra nuova cifra?
Per noi è stata una cosa molto naturale. La nostra linea editoriale stessa, dove diamo pari dignità al testo come alle foto, necessitava in fondo di un formato più grande, più maneggevole; ma anche di un tipo di oggetto che fosse fuori dal tempo, qualcosa da conservare e che può sempre essere riattivato. In realtà anche il magazine gratuito e tascabile seguiva, seppur in maniera un po’ folle, questo tipo di modello. Ma adesso questo nuovo format ne rappresenta la sua reale evoluzione. Poi da un punto di vista più pratico, nel momento in cui ci siamo resi conto di non avere più fondi, invece di nasconderci nel retrobottega, abbiamo deciso di rilanciare e di rischiare. Quindi proporre direttamente al lettore un prodotto più ricco del solito, un libro con cinque reportage e contenuti extra. Questo è stato il nostro modo folle per non rinunciare, per evitare di chiudere, ma avanzare e provare a dare qualcosa di più. Una strategia che alla fine ci ha premiato.
Stiamo scomparendo — Viaggio nell’Italia in minoranza è il vostro primo libro tematico di reportage narrativi, tutto dedicato alle minoranze linguistiche italiane, nascoste, dimenticate, ma ancora vive e vegete. Come mai avete scelto di raccontare questa tematica?
La celebrazione del 70° anniversario della nostra Costituzione, con particolare riferimento all’articolo 6 che tutela le minorazione linguistiche, ha rappresentato il fattore più concreto ma al contempo quello meno importante dietro la nostra scelta. Parlando di lingua il nodo che volevamo affrontare è quello, secondo noi importantissimo, tra identità, da un lato, e potere, dall’altro. La lingua madre è una delle cose più intime che abbiamo, forse la più intima, che influenza il nostro modo di pensare. Per questo è significativo come, ad esempio, a un ragazzo senegalese di Dakar venga insegnato il francese, che in fondo è l’idioma dei suoi colonizzatori. Spesso non ci si pensa ma in realtà è un dettaglio molto importante, specie se si mette in correlazione con i dati devastanti sulla diffusione delle lingue: è stimato infatti che ogni quattordici giorni una lingua scompaia dalla faccia della terra. Il famoso linguista David Crystal parla addirittura della perdita del 50% delle lingue conosciute negli ultimi 500 anni, passate da 14 mila alle 7 mila attuali. E questo elemento è determinante, ha a che fare con i processi di omologazione che sono in corso, non solo linguistica, ma anche culturale, ideologica. Allo stesso tempo, al contrario, in alcuni casi la difesa dell’identità si inasprisce, spesso per paura del diverso, dello sconosciuto e delle conseguenze della globalizzazione. Noi non è che vogliamo fare la morale su questo tema, ma ci ha fatto riflettere come i padri costituenti durante la riforma dello Stato italiano abbiano voluto sì affermare il potere della lingua italiana, ma anche di difendere quelle minoritarie e quindi le differenze. Per noi l’intelligenza, la lungimiranza e il senso di libertà che esprime l’articolo 6 sono stati fondamentali, specie se riviste nell’ottica dei tempi che stiamo vivendo.
Questa scelta quindi, da un certo punto di vista, vuole essere una risposta alle attuali tendenze nazionaliste e xenofobe presenti in Italia come in altre parti del mondo?
Più che dare risposte il nostro obiettivo era quello di fare delle domande, perché allo stesso tempo se assumi la prospettiva della minoranza, che difende la sua identità, anche lì c’è il rischio di tenere il mondo fuori. Però appunto ci interessava più instillare delle domande, anche un po’ inaspettate, ragionando su un tema a rischio di accademismo o di folklore — e infatti, leggendo il libro, si può notare come siamo stati lontanti da questi tipi stilistici — tramite una impostazione puramente ed esclusivamente narrativa. Poi se qualcuno vuole trarre la morale, ognuno faccia come preferisce.
Come avete deciso quali minoranze linguistiche indagare?
Il merito della scelta delle minoranze linguistiche è di Emanuela Colombo, la fotografa. È stato realizzato prima il reportage fotografico: lei è stata in questi cinque territori e noi le abbiamo acquisito il materiale fotografico. Successivamente abbiamo mandato cinque scrittori sulle sue tracce, a parlare con le stesse persone che aveva incontrato, per poi prendere strade diverse… Però appunto il motivo, non solo logistico, è imputabile a Emanuela. Lei ha scelto queste lingue minori (Arbëreshë, Grico, Occitano, Tabarchino, Walser) per dare una panoramica il più possibile diversificata, prima di tutto a livello banalmente geografico, perché si va dal Monte Rosa fino al Salento, poi dalla Sardegna alla Basilicata, fino al Piemonte; in più ci sono delle differenze interne che spingono a ragionare, con l’esempio più lampante che è quello del Tabarchino, il quale non è riconosciuto dalla legge come una minoranza linguistica a tutti gli effetti, bensì come una variante del dialetto genovese.
Il Walser è parlato nelle alte valli del Piemonte soprattutto dalla fascia anziana e molto anziana ed è una lingua fossile, una sorte di tedesco del 1500, che si è stabilizzato in quella zona secoli fa e per la forma della valle è rimasto chiuso in se stesso, con un’evoluzione molto lenta se non nulla.
Il Tabarchino invece ha una storia diversa: nasce da dei coloni genovesi che si spostano a Tabarca, in Tunisia, per poi tornare e stabilizzarsi in Sardegna. Diffusasi in un’isola, questa lingua ha subito tante influenze. E adesso viene utilizzato moltissimo dai giovani su Facebook.
L’Occitano è una lingua che fino agli anni ’60 gli stessi parlanti non sapevano di parlare, erano dei piemontesi delle valli che non davano un nome alla loro lingua. In quel periodo arriva un intellettuale esule dalla Francia, che si trasferisce lì per motivi politici e sa che in queste valli si parla ancora questa lingua minore e inizia a fare proselitismo. Cioè va in giro nelle valli a dire ai giovani: guardate che voi parlate la stessa lingua dei trovatori Provenzali delle corti occitane. A quel punto questi uomini tornano alle loro attivà, tra stalle e pascoli, consapevoli di trovarsi in questo sciacquone spazio-temporale. Tale intellettuale si chiama François Fontan e fonda il Movimento Autonomista Occitano (MAO), un movimento paragonabile a quelli di decolonizzazione della sinistra.
Poi c’è il Grico, una lingua ad alto rischio di scomparsa, e l’Arbëreshë, una sorta di lingua arcipelago parlata in moltissime parti del sud, in piccole comunità, e portata dagli esuli albanesi nel 1400.
Nell’intraprendere queste suggestive esperienze, avete imparato qualcosa?
Sì, moltissimo. Immagina cosa possa significare, alivello personale, il fatto di andare in questi territori dove si parla l’Occitano e notare questo incastrarsi di storie diversissime, dove chiunque lo parli magari ha sempre vissuto isolato, a 2000mt ad alta quota, ma comunque sa chi erano i trovatori provenzali del 1200 delle corti francesi. Però oltre al mio caso specifico, che ha molto a che fare con l’invenzione di una patria — loro si sentono parte di Occitania, uno stato ideale mai esistito che va dai Pirenei fino alle Alpi — in generale ci siamo resi conto che raccontare queste storie inusuali ci ha permesso di metterci in contatto con una grande comunità di minoranze desiderose di condividere le loro esperienze. Diverse persone ci hanno scritto, invitato a presentazioni... Sono pochi ma militanti, da un certo punto di vista. Nel momento in cui siamo usciti con questi libro, pur consapevoli dell’interesse dei temi trattati, non ci aspettavamo una così larga risposta. Persone molto appassionate e motivate. Questo mi fa pensare che se fossimo usciti con un libro molto generalista seppur di grandissimo interesse, magari con storie ad ampio target, non avremmo ricevuto questo tipo di risposta. È stata una gran bella sorpresa.
Fin dagli inizi, con CTRL, studiate e investigate la dimensione provinciale italiana. L’attuale scenario socio-politico nostrano ci ha dimostrato come chi vive in queste si senta abbandonata dalle rappresentanze e distaccata dalle realtà cosmopolite, e quindi più feroce, più nervosa e meno razionale. Credete che una maggiore contestualizzazione giornalistica delle istanze locali in rapporto con le tematiche nazionali possa riportare un equilibrio nella nostra società e quindi far diminuire questo scontro tra categorie sociali?
Non so se il giornalismo possa chiudere questo gap, ma sicuramente deve provarci. E’ vero che la provincia rischia di essere staccata dalla realtà, però facendo il nostro lavoro ci rendiamo conto che anche lo stesso centro-urbano è di per sé isolato perché molto autoreferenziale. Cioè se avessimo dovuto valutare il risultato delle elezioni nazionali sulla base di quello che si vota a Milano, o di quello che miei amici Facebook di Milano hanno votato, probabilmente ci sarebbe dovuto essere una sorta di governo-del-cambiamento composto da Emma Bonino (+Europa) e Viola Carofalo (Potere al Popolo). Poi vai a vedere i dati totali e per entrambi siamo sui pochi punti percentuali, tra l’1% e il 3%. Quindi anche i grossi centri, a loro volta, sono chiusi in delle bolle che parlano a loro stesse… una sorta di camera dell’eco. Di conseguenza queste due realtà rischiano di scomparire perché diventiamo individui singoli che nella loro vita online hanno modo di intercettare , anche grazie all’algoritmo di Facebook, delle copie di se stessi. E invece credo che si debba andare in tutt’altra direzione e non solo perché queste due dimensioni rischiano di polarizzarsi, ma perché una narrazione provinciale è una narrazione dell’Italia, che è a sua volta una provincia d’Europa. Quindi, ecco, credo che ci sia bisogno di mettere più al centro la provincia ma allo stesso tempo far vedere gli aspetti più periferici del centro.
In Italia il reportage narrativo sta crescendo, anche se lentamente: oltre al vostro esempio, penso a quello di Rivista Studio o IL Magazine, ma anche e soprattutto quello di Super8 de La Repubblica, uno dei pochi quotidiani a dedicare un inserto a questo modello giornalistico. Pensi che tale modello possa trovare sempre più spazio nell’ambito editoriale italiano? E come mai, secondo te, data la sua incisività investigativa e il suo stretto collegamento con il reale, non ha già raggiunto livelli di propagazione maggiori? Perché stenta ad affermarsi? Perché si è dato spazio a un tipo di informazione più frammentata e generalista?
C’è tutta una questione di attenzione del lettore che sembra essere calata per via dei social network e della loro fruizione veloce e discontinua. Quindi si pensa che un pezzo da 20mila/30mila battute non lo leggerà mai nessuno. In realtà la nostra esperienza, seppur piccola, ci dimostra il contrario. Dall’altro però c’è la solita questione dei costi, perché i reportage di questo tipo hanno dei costi importanti. Quindi da una parte penso che ci sia tutta una serie di concause, ma dall’altra mi sembra che la strategia di non provare a diversificare sia molto simile al suonare il pianoforte sul Titanic. Nel senso che anche il mainstream, il generalista, in realtà è molto vicino a crollare in termini di visibilità e sbattere contro l’iceberg. Per questo noi abbiamo deciso di salire sulle scialuppe, rinunciando a tutti i lussi della nave da crociere, ma almeno siamo in grado di evitare lo scontro fatale e sperare di andare il più lontano possibile.
Voglio aggiungere anche come molte testate locali, quali il Resto del Carlino o L’Eco di Bergamo, sbaglino nel tentare di emulare i quotidiani nazionali, semplicemente perché inadatte per questioni economiche. Potendo contare su una base locale molto stabile, dovrebbero spingersi ad andare più a fondo, bussare alle porte dei cittadini, invece di rivolgere alle aree di provincia un’attenzione superficiale.
In un mondo frenetico e iperconnesso, un giornalismo lento e ragionato sembra essere una perdita di tempo. Eppure in Inghilterra la rivista quadrimestrale Delayed Gratification ha fatto dello slow journalism la sua ragione di essere. Secondo loro infatti, la spiegazione, la riflessione e la lentezza sono gli unici modi per controbattere questa grande ondata di disinformazione collettiva. Nel vostro piccolo, anche voi siete allineati, per stile e contenuti, a questo modo di pensare e di agire. Credete quindi che una maggiore attenzione ai dettagli, una maggiore imparzialità, possano essere davvero una delle soluzioni a questa grande piaga culturale?
È quella speranza di cui parlavo prima… Continuando con le metafore marine, se c’è un’ondata e tutti seguono quel trend, da un’altra parte ci sarà una risacca, uguale e contraria, come insegna la terza legge della dinamica. Quindi visto che la forza verso il giornalismo fast-food, la tempestività, il poco approfondimento è moltissima, io credo, anzi, spero che ci sia una forza che spinga dal lato opposto, come gli esempi che citavi. Si liberano degli spazi di cui la gente ha bisogno e vanno riesplorati senza dare la colpa al lettore e ai suoi comportamenti. Servirebbe anche molta più autocritica e serietà da parte dei professionisti dell’editoria, per capire il perché delle loro scelte di vita. Se si sceglie solo quello che funziona, che non ha rischi, è chiaro che si starà meglio, si guadagnerà di più, ma a questo punto tanto vale fare un altro lavoro. Se invece si fanno delle scelte editoriali specifiche, bisogna esserne consapevoli, crederci e portarle avanti, soprattutto nei momenti di difficoltà.
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Un ringraziamento a Dario Panizza per il supporto tecnico.