Illustrazione di Luca Pettarelli.

From the Vault — Batman: The Animated Series

Tutto quello (o quasi) che ha trasformato un bel ricordo d’infanzia in un cult contemporaneo

Chiara Grilli
La Caduta 2016–18
7 min readJan 12, 2017

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Nello scantinato ideale, tra i libri sgualciti delle superiori e gli scatoloni etichettati “ADDOBBI DI NATALE”, tra ragnatele filamentose e spesse lenzuola di polvere, non potrebbe mancare uno scatolone traboccante di tutti gli episodi di Batman: The Animated Series. Scherzo, probabilmente sarebbero in salotto al posto delle foto di famiglia.

Batman: TAS, creato da Bruce Timm e Eric Radomski, esce per la prima volta in Italia nel 1993, un anno dopo la prémiére americana, tra l’acclamazione generale di pubblico e critica. Dando per assodato che il personaggio (e il mondo) creato da Bob Kane e Bill Finger nel 1939 è di per sé il miglior prodotto pop-culturale col quale un artista potrebbe avere a che fare, ci si chiede: perché, dopo più di vent’anni, i riferimenti a questa serie “per bambini” imbevono ancora le storie, le linee e le voci dei nuovi bat-prodotti (vedi doppiatori e skin degli ultimissimi bat-videogiochi)? E soprattutto: perché dopo vent’anni mi ritrovo ancora a guardarne le puntate mentre preparo la cena? Vecchiaia che incede? Sì, ma c’è dell’altro, molto altro, in effetti. Da cosa cominciare?

Dall’atmosfera. È difficile definire il concetto di atmosfera. Cos’è, cosa la caratterizza, quanto è nitida, quanto vaga? I ricordi precisi degli episodi sbiadiscono, le trame si confondono, ma le sensazioni che lasciano i colori, le ombre, i vicoli bui rimangono. In Batman i cieli non sono azzurri, sono rossi, infernali; le luci dei fanali e dei lampioni sono tagli netti dell’oscurità, sono dense come gli occhi dei personaggi: quelli bianchi e geometrici di Batman, quelli verdi di Selina, i folli del Joker, abbaglianti come quelli di Clayface. Certo, da bambini ci si eccita per i colori, l’azione, le battute, ma dopo vent’anni di film, serie tv, cartoni e fumetti lo sguardo può andare un po’ oltre.

Partendo in alto a sinistra. Un disegno tratto dalla writers’ guide di Timm: l’architettura e la prospettiva riprendono decisamente l’edificio del poster successivo, “Sandwich Cinema” (vuoi vedere che i due in primo piano sono proprio i genitori di Bruce?); due poster del film Metropolis (1927), chiaroscuri decisissimi e “triangoli” di luce; due poster degli anni Trenta che rappresentano Chicago e New York: verticalismo chic.

Le linee verticalissime degli edifici, i triangoli di luce gialla, la geometria delle costruzioni, per non parlare degli arredamenti interni delle abitazioni, non sono frutto di scelte casuali, ma richiamano lo stile tipico della Art Déco americana degli anni Trenta. Ambientazioni perfette per Humphrey Bogart, insomma, anche se, ovviamente in versione dark. Tutto è più scuro, tutto è più tenebroso, tutto è più BATMAN.

Il design degli anni Trenta non è solo architettonico, ma anche automobilistico. Ricordate quelle auto un po’ troppo vintage, la carrozzeria curvilinea accompagnata da quella sensazione strana di aver sempre a che fare con dei gangster? La sensazione è corretta, ma capita addirittura che le auto siano insaporite con un po’ di Streamline moderno: auto lunghissime, luccicanti, arrotondate, che se verniciate di nero, si trasformano nella Batmobile (vedere le immagini per credere!). Vintagissimi sono anche gli abiti e le curve (e che curve!) delle Sirene di Gotham (Catwoman, Harley Quinn e Poison Ivy), vagamente pin-up, decisamente femmes fatales.

A sinistra la Batmobile nei bozzetti di Timm. A destra la Batm…ah, no, una Duesenberg Coupé “Midnight Ghost” (1939)

Rimaniamo in campo artistico. Bruce Timm, infatti, si è occupato anche del primo design dei personaggi insieme a Radomski. Guardare i bozzetti della writers’ guide (il documento con le linee guida generali per i membri del suo team), lo stile minimalista e geometrico, la resa magnifica delle espressioni facciali, le posture di Alfred e del Joker, permette di dare il giusto peso artistico al cartone che, si sa, mentre lo si guarda, tra i colpi di scena e, diciamolo, l’epicità generale delle puntate, passa in secondo piano.

Alcune delle mille espressioni di Bruce Wayne — dagli sketch della writer’s guide

In un’intervista del 1999, Timm ha confessato di essere stato parecchio influenzato dall’arte di Kirby (che, per chi non lo sapesse, è una sorta di divinità fondatrice della Marvel Comics). Nonostante fossero troppo poco realistici per i suoi gusti di adolescente, Timm ammette di esserne sempre stato curiosamente attratto:

«Mi dicevo: “Mio Dio questi disegni sono roba da bambini! Sembrano libri da colorare, sono così semplici”, ma tornavo sempre a riguardarli e mi dicevo, “Se non mi piace, perché continuo a guardarli?”».

Bella domanda Timm. E io? Perché continuo a guardare i tuoi cartoni?

La musica. Beh, certo, la colonna sonora è un piccolo capolavoro. Il tema iniziale è stato “purtroppo” sostituito in Italia dalla sigla di Cristina D’Avena, che, per carità, è diventata leggenda, ma in America nasce dal riadattamento proposto da Danny Elfman alla musica che lui stesso scrisse per il Batman di Tim Burton (1989). Mica male. E poi le geniali “operette” orchestrali che, con oboi, clarinetti, archi, seguono e mettono gli accenti sui passi furtivi di Catwoman, sui criminali che scivolano rapidi giù-giù per le scale antincendio, e poi su-su di nuovo per le pareti dei grattacieli appesi al bat-arpione! Musica e trama si parlano, e le storie non possono che guadagnarci. D’altra parte, come se la competenza di Timm non fosse stata sufficiente, le puntate sono a volte state scritte da geni del fumetto come Paul Dini.

Ed è qui che varchiamo la soglia della area sterminata che etichetterei semplicemente come “PERSONAGGI”. I personaggi di Batman:TAS non sono macchiette alla Biker-Mice, non hanno nulla a che vedere con gli scazzottamenti giapponesi di massa, nulla con la sterilità (sì, ci torno di nuovo: i film di supereroi sono più banali di un cartone animato), nulla a che fare con la sterilità creativa, dicevo, degli ultimi cine-comics.

Cattivi, cattivissimi e diversissimi!

Bruce Wayne non è Harvey Dent, Catwoman non è Poison Ivy, il Pinguino non è Mr. Freeze e, questo è certo, il Joker è molto, ma davvero molto Joker. Il trucco, neanche così tanto sorprendente, è di nuovo spiegato in questa Bibbia che è la writers’ guide e vorrei sintetizzarlo come segue:

  1. Le azioni dei personaggi devono essere «motivate e credibili. Vogliamo che le informazioni siano date il più visivamente possibile», preferendole a «pigri dialoghi esplicativi».
  2. Lo humor e le battute sono ok, ma devono «riflettere realisticamente la sagacia del personaggio… Gli scrittori sono invitati a cercare delle voci caratteristiche per ognuno dei loro personaggi».
  3. Meno gadget, più investigazioni per Batman!
  4. Bisogna individuare una «logica interna alle azioni del cattivo». L’avidità va bene, dice Timm, ma le motivazioni di ogni personaggio devono essere soggettive e personali.

Sono proprio le vicende autobiografiche di ciascun personaggio a rendere indimenticabile la serie. Tornate a guardare la storia in due atti di Due Facce. La rovina ha inizio ben prima del tragico episodio dell’acido: comincia graduale con i primi dubbi di Dent, i suoi primi accenni di follia, che non scoppiano dal buio come fuochi d’artificio, ma che sono radicati in ricordi passati.

Da “Cuore di Ghiaccio”: “E adesso non mi resta altro che chiedere il tuo perdono e pregare che tu possa sentirmi in qualche modo, in qualche luogo, in un luogo dove una mano calda aspetti di stringere la mia”. SNIFF-SNIFF

O rispolveriamo Cuore di Ghiaccio, dove Mr. Freeze non è un pazzoide in cerca di morti facili, ma l’eroe/anti-eroe di un dramma personale: il folle amore per la moglie malata terminale, la speranza riposta nella scienza per salvarla, l’insensibile cupidigia delle corporazioni e infine la vendetta. Poi, beh, tutto deve essere amalgamato, ristretto e semplificato: sono pur sempre 20 minuti ed è pur sempre un cartone.

Ma la chicca è quella che riguarda anche le nuovissime generazioni, così prontamente aperte a un amore incondizionato per i super-divi del cinema.

Harley Quinn in un disegno di Bruce Timm

Harley Quinn, quella in mini-shorts-praticamente-slip, quella coi codini rossi e blu, le calze a rete (mio Dio, che cosa avete fatto?!), nasce nel 1992, proprio su questa serie, proprio con Bruce Timm e Paul Dini. E con lei sboccia “l’amore” sado-maso con il Joker, decisamente più verosimile sul cartone che sul grande schermo: Harley innamorata, Harley schiaffeggiata, sfruttata e sottomessa, Harley picchiata e buttata giù da un palazzo dal suo “zuccherino” Joker (nell’episodio Un grande amore).

Cercare di recensire un’intera serie tanto legata ai ricordi d’infanzia non è semplice. Direi però, che quello che ha reso questa serie così longeva e influente, ciò che l’ha fatta spiccare tra i tanti successivi prodotti, è l’attenzione all'elemento più antico del mondo: le storie. Non le trame, non le azioni, non lo humor, ma la profondità, l’eterogeneità caleidoscopica delle storie personali.

Non chiamatele (bat-)storie per bambini.

La trionfale e oscura posa di Batman nella sigla ufficiale della serie. (La versione italiana è interpretata dall‘iconica Cristina D’Avena).

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