From the Vault — Farewell Plastics

1977: nascono i Plastics, quint’essenza della new wave nipponica ed espressione di un genio pacato e sensazionale.

Pier Francesco Corvino
La Caduta 2016–18

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Nel settembre 2016, Toshio Nakanishi scoprì di avere un cancro all’esofago, ormai giunto alle ultimi fasi; quest’anno, a Febbraio, è morto; aveva sessantuno anni. Anche per questo, stiamo scrivendo questo martirologio alla buona, per rendere giustizia alla sua potenza artistica.

Oramai quarant’anni fa, il Giappone viveva uno dei suoi periodi più floridi, di crescita industriale e di progressivo smarcamento dall’ingerenza americana. Le subculture ed i relativi generi musicali anglofoni attecchivano con molta facilità nella terra del sol levante ed, in questo, non faceva eccezione la New Wave (d’ora in poi NW nel testo).

La NW era il secondogenito del Punk, quello di cui andare meno orgoglioso, tutt’altro rispetto all’estroso fratello Post-Punk; tantochè anche molti cugini che sembravano averlo in simpatia, in un primo tempo, furono costretti a tagliare con lui i ponti (vd. Coldwave, Darkwave, No-Wave, e chi più ne ha più ne metta; erano, d’altronde, ancora i tempi delle famiglie molto numerose). Viene da sé che il motivo principale per cui la NW veniva messa all’angolo era il suo ammiccare al pop in maniera palese, poco raffinata, troppo poco intellettuale e, difatti, nel continente e negli USA quest’atteggiamento trovava ampia conferma, nonostante alcune nobili eccezioni. Eppure, per motivi che non staremo qui ad analizzare, in alcuni luoghi del mondo la NW assunse una carica più spiccatamente eversiva, senza mai per questo ripudiare la sua irriverente vena pop: è questo il caso della movida spagnola, del fermento jugoslavo, e, non ultimo del Giappone.

Esempio prezioso e, quindi, qualcosa di più, erano i Plastics, prima formazione del sopracitato Toshio Nakanishi. Nati nel biennio 76/77, essi produssero, grossomodo, due dischi (non contando ri-edizioni, mixaggi vari et similia) di cui vorremo qui esporre una descrizione farlocca e “agiografica”: Welcome Plastics (1979) e Origato Plastico (1980). Welcome Plastics viene, tutt’oggi, ostinatamente descritto dalla critica come il disco dei B52’s (i marpioni goderecci di Love shack e della OST del film dei Flinstones nda) giapponesi, seguendo l’opinione che diede, ai tempi, David Byrne; a nostro parere, questo disco è molto di più. Questo disco è stato, infatti, una lucidissima e consapevole esposizione del dominio culturale americano sulla musica giapponese. Mischiando scelte sonore dei Kraftwerk, dei Talking Heads, ovviamente dei B52’s ed altri, i Plastics offrivano un prodotto vincente, super-catchy, con zero pretese ed un incredibile capacità di creare jingle no-sense. Più che di una profonda elaborazione tecnica, questo lavoro era il risultato di una scarsa preparazione musicale e di una scelta prettamente commerciale; non tutta la band, infatti, conosceva l’inglese e la loro produzione con un etichetta anglofona, la Rough Trade, era in verità un disperato tentativo di diventare qualcuno, dove contava esserlo. Ecco, allora, dove fuorisce la moderata e sottaciuta vena punk di questa NW, nel coerente messaggio, esposto a mo’ di gioco, a mo’ di convinta alienazione: « Originality, no no no no/copy, PEOPLE!/C-O-P-Y/copy this, and a-copy, that» sostiene la canzone Copy, appunto. Il copiare non è più il non-detto, la questione da nascondere, da reprimere, ma è anzi l’elemento da palesare, da rendere manifesto — ma non seriamente, senza nessun tipo di reprimenda; piuttosto, è ora giusto scherzarci sopra, non darvi peso e trastullarsi beatamente nella finzione, consapevoli e passivi.

Ora che al re nudo erano stati fatti fin troppi complimenti, qualcosa veniva a mancare. Ora, a distanza di un paio d’anni, la spensierata accettazione di una passività indegna non era più una risposta, era anzi motivo di frizione. Origato Plastico, la seconda prova del gruppo, uscito a solo un anno di distanza, diventa, così, un tentativo di serrare i ranghi. Esso è, cioè, un disco in cui l’atmosfera giocosa si unisce ad una progressiva riflessione sulle scelte passate, che vengono vissute con un certo grado di diffidenza e di mal-sopportazione. Welcome Plastics non sembra più appartenere ai Plastics, sembra, invece, esserne un eteronimo, uno sdoppiamento non voluto, da depennare. Eppure, si sa come vanno queste cose, la terapia è lunga e la riabilitazione lenta: il disco è ancora intriso dei modi di Welcome Plastics, ma nei pezzi già si nota qualcosa. Il lavoro musicale conosce degli spazi noise, cerca di ridiscutere lo straniamento che la band sta vivendo, barcamenandosi tra una riflessione più profonda sulla dipendenza culturale ed un ineliminabile voglia di ridurre le cose ad un gioco del destino: «oh, fuck off baby, don’t be serious» dice in Diamond Head, la corista e poi compagna di Toshio, Chika Sato.

Ecco, allora, che qualcosa si rompe nell’intreccio della band, la coppia sopracitata si separa dagli altri, i Plastics, improvvisamente, si separano. Toshio tenta la fortuna in America e la sua grande capacità interpretativa, la sua capacità di apprendere e ridiscutere, lo formerà integralmente come il grande tramite che è stato per la cultura nipponica. Di ritorno, il suo progetto più noto saranno i Melon, gruppo convintamente NW, più attento alle scelte musicali, ai suoni dell’epoca e alla profondità del testo; i Plastics non sono più, soltanto, un eteronimo del nostro, sono il suo vero e proprio alter-ego, giovanilistico, svogliato, assurdo. I Melon sono anch’essi, un gruppo ovviamente interessante, grandi ricettori, buoni interpreti; si sentono woke, vogliono dire e sperimentare, ma anche la loro esperienza, di pessimistico entertrainment, giunge ad un termine — e noi non vi spenderemo troppe parole del resto.

Non spenderemo troppe parole nemmeno sulla successiva ed estenuante ricerca di Toshio, piena di progetti, di lavori solistici e di pirotecnici esperimenti, sempre capaci di stupire senza allontanarsi dalla piacevole compagnia di un pubblico comunque ampio. L’impadronimento capace del noise (forse c’è dietro Masonna?), ed anche dell’hip hop, diventa l’appropriazione della virtù autoreferenziale della gang del sobborgo americano, trasmutata nella virtù degli yakuza, o semplicemente del mondo post-industriale. La varietà stilistica dello stesso, evidentemente, doveva raggiungere un compimento nel lavoro del 2005, Plastic Sex, incorniciato da un breve ma sapido tour con i Plastics. Sembra che siamo giunti ad un punto di svolta, o di compimento, e non potendo dare un giudizio complessivo su questi ultimi lavori, vorremmo, però, tirarne le somme da un altro punto di vista.

Vorremmo, cioè, sostenere, indebitamente, che il lungo e prezioso percorso che la mente di questo profondo scopritore ha seguito, era già completamente inscritto all’interno di Welcome Plastics. Di fatti, la gioviale sopportazione del nulla culturale giapponese, costitutivamente pago di ricevere e di ricopiare, sottintendeva, nella sua lucida alienazione, il franco ripudio di questa posizione. Questa prima posizione, cioè, per mantenere costante il rapporto meraviglioso e disincantato con questo stato di passività e costrizione, doveva essere completamente rifiutata, completamente contraddetta, per conquistarne, infine, l’ineffabile consapevolezza. Cerchiamo di essere più chiari: il pensiero manifesto dei Plastics è quello della giocosa accettazione del mondo-copia, dell’ all is pointless but the desire; Toshio negli anni 2000, ritorna con una riflessione sull’amore artificiale, sul rapporto carnale con un oggetto inanimato o comunque de-vitalizzato, possiamo sostenere che quest’ultima riflessione rappresenti l’inevitabile riduzione ad un oggetto percepibile, del gioco che annienta (quale dimensione più ludica, d’altronde, di quella pacatamente sessuale)? Vogliamo insomma sostenere che il cammino di Toshio Nakanishi sia stato una progressiva dissimulazione della sua illuminazione giovanile, nelle terre del pensiero critico, della sperimentazione musicale, nelle variazioni di genere; atto a conservare un tesoro volatile, diciamo pure l’elio che anima la bambola gonfiabile.

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