From the Vault — The Curse of Monkey Island

The Curse of Monkey Island è un gioco che a distanza di decenni continua ad appassionare

Giacomo Alessandrini
La Caduta 2016–18

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A quattordici anni ascoltavo Hai paura del buio? degli Afterhours, ordinavo la collection di Akira su Ebay, leggevo Asimov e insultavo pirati su The Curse of Monkey Island. Era una tradizione, che con forza ha resistito fino ad un paio di anni fa: finire il gioco almeno una volta l’anno. In quel periodo dedicarsi al proselitismo diventò una necessità: i miei amici dovevano conoscere quell’universo sconfinato, dovevo sentirmi meno solo. Mi esaltavo come un bambino a Natale nel raccontarmi quelle storie, con reazioni al limite dell’autismo. Zack McKracken, Beneath a Steel Sky, Full Throttle, Broken Sword, Grim Fandango, Syberia… Mi hanno accompagnato nel terribile passaggio dall’infanzia all’adolescenza.

Cercherò di essere sintetico, poiché parlare di qualcosa che si conosce come l’Ave Maria non è mai facile; una panoramica sulla LucasArts è d’obbligo.

Grazie ad un videogioco come Maniac Mansion il mondo scoprì il potenziale della software house di George Lucas. Il sistema di scripting SCUMM (creato ad hoc per il gioco e successivamente implementato per la quasi totalità delle avventure grafiche fino al 1998) introdusse un concetto inedito di interazione con il main character, ora guidato da una griglia di verbi prestabiliti e selezionabili dal fruitore. La meccanica verbo-oggetto, la costante presenza di enigmi, il limite della rigiocabilità, hanno da subito interessato una nicchia di utenti pc, oggi hardcore gamers navigati. Le avventure grafiche, possiamo dirlo con assoluta certezza, sono il risultato di un primo, felicissimo, incontro tra cinema e videogiochi. Non è un caso l’interessamento di Steven Spielberg, che tenta nel 1994 la scrittura del soggetto di The Dig, poi sbocciata un anno dopo nella splendida sceneggiatura di Sean Clark e Orson Scott Card. Andando più affondo come non citare il Blade Runner della Westwood, in cui la complessa trama investigativa avvicina l’esperienza al migliore hard-boiled interattivo. Tornando alla Lucas e saltando altri dignitosi titoli come il sopracitato Zack McKracken and the Alien Mindbenders e Indiana Jones and the Last Crusade, arriviamo al 1990, l’anno della definitiva consacrazione. Ron Gilbert, stanco di “punta e clicca” senza spessore, privi di obiettivi chiari o riconoscibili (nel 1989 pubblica il saggio Why Adventure Games Suck, elencando i difetti da superare per rendere il genere maturo), chiama a raccolta Dave Grossman e Tim Schafer, proponendo l’idea dell’eroe qualunque, anonimo e imprevedibile. Per ammissione dello stesso autore, il Pirates of the Carribean ride al Disney World ispirò l’opera. «Sono Guybrush Threepwood, e voglio diventare un pirata», avverte il protagonista; i minuti iniziali di The Secret of Monkey Island non lasciano adito a dubbi: sfacciatamente sovversivi.

Un riuscitissimo doppiaggio in italiano, incredibilmente fedele all’originale (localizzazione italiana: C.T.O s.p.a. / direzione del doppiaggio: Claudia Madrigali)

Il nome Guybrush è frutto del caso: i disegnatori salvarono il file su Deluxe Paint come “guy” e l’estensione del programma “.brush” fece il resto. L’esigenza di rinnovamento passa attraverso la creazione di ambienti, caratteri, dialoghi e ritmi coerenti con lo spirito ironico. «Tutto quello che ho è questo pollo di gomma con una carrucola in mezzo », «spegni il computer e vai a dormire », «guarda dietro di te, una scimmia a tre teste!», «sono Guybrush Threepwood, un temibile pirata»: la sceneggiatura grottesca cancella la quarta parete e coinvolge lo spettatore in un turbinio di richiami letterari, cinematografici e teatrali. L’eco del fenomeno ha portato alla creazione di numerose pagine dedicate: gruppi coesi di appassionati popolano i social network. I fandom non dimenticano, creano storie, si documentano e vivono di citazioni all’ordine del giorno [Last Tales of Monkey Island, Spegni il computer e vai a dormire, Monkey Island — fanpage, Calavera Cafè — il Podcast delle Avventure Grafiche (quest’ultima trattando di avventure grafiche a 360°, tra podcast e videoanalisi)]. La Maledizione di Monkey Island si apre con un Guybrush miracolosamente in fuga dalla Fiera dei dannati in sella a quello che sembra un bolide da autoscontro, in mezzo all’oceano. Salvato dalla fortuna scopre di trovarsi a poche miglia da una misteriosa isola, teatro di uno scontro a fuoco tra un galeone pirata e un fortino. Plot twist: le truppe di terra sono capeggiate dalla sensibile e affettuosa Elaine Marley, mentre la scheletrica ciurma di bucanieri vede in testa l’acerrimo nemico di sempre, lo zombie pirata LeChuck. «Per il mio sangue congelato, imparerai ad amarmi. Salpa con me e farò di te la regina dei defunti!» ;«Mh, non posso, mi lavo i capelli stasera» tuona Elaine ad un impietoso LeChuck. Il gioco, fregandosene di raggiungere le vette toccate degli illustri predecessori, vive di una comicità magica, fanciullesca; rendendo l’opera accessibile ad un pubblico di minori. Se oggi quel «e separata dall’unico uomo che abbia mai amato, Guybrush Threepwood» di Elaine stona, e non poco, con quanto raccontato finora; se gli sviluppatori hanno optato per strade sicure, diversificando il target con una storia dall’amaro sapore di reboot; comunque, da qualsiasi prospettiva lo si guardi, la terza avventura del temibile pirata biondo è riuscita a far avvicinare i neofiti al genere.

Jonathan Ackley e Larry Aehern, sostituendo Gilbert alla guida del progetto, dimostrano una grande competenza nella direzione artistica, con il contributo di Bill Tiller alle animazioni (in veste di lead background artist); entrambi saturi dell’esperienza con Day of the Tentacle e Sam & Max Hit the Road. Le evocative musiche di Michael Land ancora risuonano nella mia cameretta — dal theme di Blood Island a quello di Puerto Pollo, dal chiasso carnevalesco di Monkey Island ai pacati titoli di coda: il MIDI viene sostituito dalle registrazioni in studio, lasciando il videogiocatore spiazzato dalla qualità del sound design. Il primo della saga ad avere un doppiaggio completo, il primo ad essere venduto su CD-ROM, il primo a proporre lo standard SVGA con cutscene in full motion video. Il lavoro dietro l’illustrazione dei personaggi è a dir poco strabiliante: un misto tra Looney Tunes e il Dragon’s Lair di Don Bluth; non ha niente da invidiare ad un Bianca e Bernie nella Terra dei Canguri o Basil l’Investigatopo. La personalità di Guybrush fa un salto di qualità: abbandonando la condizione di “medio-man” viene provvisto di uno spiccato sense of humor, determinante in passaggi inaspettati e impreziosito dalle comiche risposte selezionabili nei dialoghi. Più parlato e maggiore qualità della scrittura, in compagnia dell’assurdo: Murray il teschio parlante disilluso dalla vita, il giovane Kenny che passa dal riempire brocche con limonata fresca a vendere cannoni (mamma!), Slappy Cromwell e l’ossessione per gli Shakespeare’s plays, il trio dei pirati-barbieri a caccia di tesori. Immancabili i ritorni, Stan e la Voodoo Lady, gli indiscutibili attori-feticcio. Le situazioni-tipo dell’allora trilogia si ripetono, dimostrandone l’efficacia a distanza di anni: divorati dal gigantesco serpente possiamo combinare solo gli oggetti presenti in scena per proseguire, similmente allo sketch con l’idolo in The Secret of Monkey Island; armati di ricettario dobbiamo placare i sintomi del dopo-sbronza di Griswold Goodsoup, con un procedimento che strizza l’occhio allo scontro conclusivo in LeChuck’s Revenge (di cui parlerò in separata sede). Ecco infine Guybrush incontrare un non troppo loquace Manuel Calavera — protagonista di Grim Fandango — nell’atto di sponsorizzare il prossimo videogame di Tim Schafer; peccato sia morto, povero Manny. Ah, se andate nel menu principale potete abilitare l’accelerazione 3D — una rivoluzione per il 1997. Due i livelli di difficoltà: Standard e Mega-Monkey, quest’ultimo utile ad aggiungere bizzarri rompicapi; frustranti a volte, in ultima analisi divertenti.

Nel gioco catapulti un cadavere fuori da un hotel, impersoni un gigantesco demone-pollo, fai infuriare un vulcano intollerante ai latticini, raggiri dei pericolosi contrabbandieri di giocattoli, strappi una mappa dalla schiena di un tizio - “credo si sia addormentato” -, e, dulcis in fundo, sfidi a duello, con insulti in rima, i peggiori pirati dei Caraibi. Della serie: — Sei il mostro più orrendo mai creato! \ Un po’ come le ragazze che hai corteggiato!; — Engardè, touchè! \ Oh, basta coi cliché; — Somigli a quel fesso di mio zio Vito \ Tua zia troverebbe il paragone alquanto ardito. Come sintetizzato da Kurt Kalata in quello splendido tomo enciclopedico dal titolo The Guide to Classic Graphic Adventures: “The Curse of Monkey Island is one of the funniest, best looking, best sounding adventure games in the genre, and, along with the rest of the series, is absolutely essential.”

Non dimenticherò mai le nuvole, quelle nuvole.

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