Furio Jesi - Man from Utopia. L’eco in noi e fuori di noi

Carlo Trombino e Claudia Martino hanno realizzato un film documentario su Furio Jesi, sulla Torino di una stagione indimenticabile, intitolato “Furio Jesi — Man From Utopia”.

Edoardo Manuel Salvioni
La Caduta 2016–18

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Locandina del film “Furio Jesi — Man from utopia”

Chi si spande come la sorgente, lo conosce conoscenza;

in estasi lo guida per le serene vie della creazione,

che spesso termina col principio e inizia con la fine.

Rainer Maria Rilke, XII, Sonetti ad Orfeo

Ogni pellicola filmica è una superficie di conduzione, digitale o analogica che sia. Una cosa atta a scorrere, a dispiegarsi, a raccogliersi, una forma in cui essere portati. L’essere nel flusso, il lasciar essere condotti dallo sguardo nella vista è conoscenza antica e sempre rinnovantesi. Come la sorgente, o un occhio meccanico, la sua traccia vuole essere discreta e feconda. Vuole confinare lievemente l’indistinzione senza sconvolgerla, indicare una linea di divisione che attesti un esistente senza prevaricare il resto. Eppure essere, quasi per paradosso, onnicomprensiva, frontale, per una sua ostinata delicatezza. In un libro familiare a quanto qui trattato, di Carlos Castaneda, si affermava che il migliore sciamano è colui che per scherzo e intuizione profondissima sa fingersi ai suoi allievi come il primo, il più piccolo e insignificante degli apprendisti.

Walter Benjamin nello scrivere di Kafka indicava un libro sulla fondazione dei confini, dei canali e dei fiumi nella antica Cina, su come tracciare i confini dei flutti per tracciare una analogia di spiriti ed epoche. Andare a cercare insospettabilmente nella mentalità del tracciare, dividere zone, per far comprendere il senso rinnovato dello spazio e della sua potenza nelle parabole cinesi di Franz Kafka, la loro sconvolgente ed atavica modernità. Il confine è il luogo di passaggio, la soglia del guardiano, la prova, il bussare o l’assalto dell’estraneo ha una gravità unica. Oltrepassato o meno il passaggio, esso sa sempre rivelarsi con forza inestinguibile.

Dettaglio del film: Canale del fiume Dora a Torino

Un fiume spesso ha la medesima potenza di confinare: resosi umano si canalizza, traccia percorsi e faglie, si nasconde per poi riemergere. Può aiutare come vendicarsi, se non se ne rispetta il suo corso. Il cinema verso la storia umana taglia e monta forse per una medesima intenzione: ciò che confluisce espande, ciò che viene omesso può distruggere o perdersi proprio nel suo stesso scorrere.

Necessario pur sempre è ricomporre, ritrovare i segni che hanno preceduto, ripercorrere una impronta che precede, far germogliare naturalmente da una voce una storia che la ricomprenda e porga avanti. Il futuro fluire come “speranza nel passato” sorgivo. Il fiume di una bellissima storia riversato nel mare aperto della memoria umana.

Questo viene in mente alla vista del film Furio Jesi — Man from utopia. Questa opera prima dei registi Carlo Trombino e Claudia Martino è frutto di uno studio sentito, serio, appassionato, condotto con rigoroso senso della forma e spirito di curiosità. Nell’eleganza del montaggio, nell’orchestrazione dei registri, nell’agilità e vivacità dialettica che esso offre è una prova di cinema autentico, spiazza per come nasce prima opera e già così matura, frutto di un lavoro di anni e di una lunga gestazione di montaggio. A prescindere che il film tratti di una mente fondamentale del secolo scorso, italiano, europeo e non: Furio Jesi.

Particolare del Museo Egizio di Torino, da un fotogramma tratto dal film.
Furio Jesi mentre prepara alcune delle voci dell’Enciclopedia europea Garzanti.

Furio Jesi nasce a Torino nel 1941. È uno studioso di iconografia, archeologia, mitologia, egittologia, letteratura ed infinite altre discipline che seppe unire come pochissimi altri nella sua epoca in un pensiero ed una scrittura unici. Viene da pensare ad alcuni maestri che lo hanno preceduto, da cui egli stesso si è lasciato condurre, in una erudizione scatenante una intuizione degna della migliore poesia, pensiero poetato: Walter Benjamin, Elias Canetti.

Chiunque venga a contatto con una sua pagina, è altamente probabile che vi ritorni. Difficile non essere presi dalla curiosità dello stile personalissimo, dell’umorismo, della ricchezza delle notazioni, della capacità di far vedere processi in minimi battiti o sfumature. Serie di aspetti che questo film riesce perfettamente a tradurre nella sua agilità visiva, nel dosaggio preciso dei dettagli nei passaggi. Un film su cui ritornare a vedere e che si fa rivedere con piacere.

Per chi ama l’autore, questo film sarà un coronamento della propria passione, una proiezione ancora più intensa della giustizia di un percorso di un uomo a cui appassionarsi, per chi ha a cuore il destino del pensiero. Ma questo film elude agilmente anche ogni ingenuità tecnicistica dei cultori. Esso è un perfetto compendio, è un ottimo avviamento per chi Furio Jesi lo viene a conoscere ora. Ha una ricchezza di freschezza che l’estremamente sfaccettata natura del personaggio avrebbe potuto con altissima probabilità ingolfare, ma questo non accade, la naturalezza del montaggio, la scelta dei materiali, le interviste e un implicito andare come a capitoli/luoghi è genuino: come il pensiero dinanzi ad una finestra aperta, all’apparenza privo di fine, in una attesa che è vero senso dell’attenzione, fatta con adeguato respiro, senza improntitudine o impazienza. Il film è la migliore soglia in cui entrare nel cuore pulsante di Furio Jesi per chi ancora non lo conosce. Un manuale introduttivo perfetto, fatto per fotogrammi e voce, senza alcuna goffaggine o aridità di troppi manuali cartacei.

Uno splendido confronto tra un allievo magistrale ed un maestro assodato: Furio Jesi e Karoly Kerenyi. Il loro interagire terminerà con una rottura dolorosa, dettata da divergenze politiche insanabili. Qui riportata la copertina della prima ed unica edizione, uscita per Quodlibet.

Il film agisce attraverso di tre strati che interagiscono in una sintesi davvero gradevole, che sono imprescindibili uno dall’altro: uno di essi è legato all’ intervista e al testimoniare come forma di indagine di Furio Jesi. La storia orale ne è il veicolo primario. Vengono intervistati diversi suoi amici, i colleghi, gli studiosi, i suoi studenti. Da ognuno di essi nasce un tassello, un aneddoto che a volte può stare anche tra il divertente e il curioso, può commuovere come far molto riflettere, ma che sa essere in molteplici occasione una spia potentissima della peculiarità del soggetto trattato, nella sua storia familiare e individuale.

Jesi è un uomo della borghesia torinese, una borghesia appena reduce dalla guerra, è orfano di padre morto a seguito delle ferite nelle guerra d’Etiopia, è un fanciullo che ha una splendida interazione con la famiglia materna, con suo nonno Percy Chirone, con la collezione di antichità di El Cairo, proprietà di quest’ultimo che lì vi lavorava, presenti nella sua dimora torinese. Torino è un ponte privilegiato verso la civiltà del Nilo. Jesi ne assorbe il portato con la voracità del fanciullo e con il trasporto dei veri studiosi. Qui il suo destino di genio precoce (a 5/6 anni il nonno gli impara il greco e il latino) e di iconografo in erba. Questo film offre chiavi inedite mai prima percorse. soprattutto sul periodo dell’infanzia e della giovinezza di Jesi. La fascinazione del fanciullo Jesi dinanzi alla potenza visiva della civiltà del Nilo si traduce con sapienza nel film in dettagli e primi piani di immagini, di qualità egregia, del Museo Egizio di Torino. Dettagli di volti e statue, luci ed ombre delle teche. Una musica in tintinnio di percussioni che sembra localizzare quanto la vista ciò che si va indagando.

Questo film non è una celebrazione della grandezza di un pensiero e di un destino di un uomo stimabile per infinite doti, come Jesi fu ed è. Certamente vuole elogiare e raccontare, ma questo viene fatto con grande pudore,per far sì che la storia traduca la sua eccezionalità da sola. Non ha alcuna ingenua generosità apologetica, piuttosto riesce proprio a vedere nella e dalla storia di una generazione l’interazione peculiare che un individuo certamente non comune le offre, pur avendo, a differenza di molte altre menti, estremamente a cuore il destino comune, disposto ad una radicale discussione ed assunzione di responsabilità. L’intenzione del progetto del film è anche quella scavare nella Torino di quegli anni, nel suo ambiente. Le domande secche e precise, il silenzio del regista Carlo in ascolto che accompagna gli intervistati nelle riprese, la genuina discrezione del suo trovarsi nel fotogramma. Il suo essere lì per ascoltare e sorridere incuriosito dal racconto. L’intenzione di far sì che siano le relazioni stesse a parlare, senza velleità autoriali a sovrapporsi. Un essere compassati nell’agire e registrare, saper guardare è farsi condurre. Il film ha grandissima attenzione fotografica, che di sua forza distrugge la fittizia naturalezza dello spettacolare a cui siamo troppo spesso abituati. Una lezione di stile cinematografico, una gioiosa fuga da ogni isteria della visibilità. La vera via verso la genuinità del raccontarsi, del vedere senza filtri. Dalla ricerca dei due registi emerge perfettamente canalizzata la storia degli uomini, dell’epoca. Con tutto il portato politico, troppo spesso occultato per una sorta di neutralismo “scientifico”: nel caso di Jesi la sua attività di militanza politica e sindacale, vicina agli ambienti della rivista Resistenza — Giustizia e Libertà, alle lotte di fabbriche negli stabilimenti Fiat, durante la stagione delle contestazioni tanto degli anni ’60 che ’70. Essa ha una parte non irrilevante e molto avvincente nel film, si palesa offrendo ulteriori nuove prospettive sulla già composita figura di studioso enciclopedico.

Una militanza che non è cosa marginale dell’operare di Furio Jesi, che gli costò non pochi sacrifici e screzi, condanne ed incomprensioni. Questo il film lo sa mostrare con una nudità e nitidezza che non possono non definirsi come maestria, anche a costo che il nostro entusiasmo sembri essere un atto di piaggeria.

Un esemplare fotografico del film: il Lago d’Orta, in cui Furio Jesi visse.

L’altro strato e lato della forma visiva di Furio Jesi — Man from utopia riguarda l’osservazione degli spazi, delle geografie, delle nature urbane e non. Un continuo incedere dei fotogrammi che si innesta insieme alle parole delle interviste e delle voci fuori campo. Qui l’occhio della regista Claudia Martino offre una prova di precisione e levità, perfettamente equilibrata alle parole e alle memorie intrecciate ad esso. Uno sguardo che sa cogliere particolari visivi focalizzandoli sia in primi piani che sembrano osservare una città come fosse una corazza di memoria da sezionare in reperti, sia darsi in panoramiche che sanno cogliere la carica emozionale e situazionale, l’attimo che descrivono. Alcuni fotogrammi sono delle vere e proprie confessioni di passione osservativa, dettagli architettonici, messe a fuoco sulle pagine dei libri e foto, gli interni, il rigoglio della natura e la tenuità metafisica di una piazza in un pomeriggio prossimo alla sera.

Ci sono dei primi piani del Lago D’Orta, di Duino, delle piazze torinesi, colte in frangenti cromatici e temporali, tenui azzurri o arancioni densi, che sanno sintetizzarsi facendosi voce visiva della voce narrante fuori campo che spesso narra la sorte di Jesi tra i luoghi che ha amato ed ha vissuto. Ciò che è accaduto e ciò che è ancora possibile vedere attraverso il cinema e la storia di Jesi si offrono esemplari nelle storie piene di pathos che emergono dalle note preziosissime dalle interviste, nella natura compositiva che il film stesso è.

Il terzo strato, intrecciato come i due precedenti, suo contrappunto e motore, investe la forma sonora latu sensu: la musica, il sonoro e la voce narrante fuori campo. Peculiare è la scelta di due voci: una narra il film nei suoi passaggi e momenti che uno vede da spettatore, l’altra va direttamente nel corpo dei testi di Furio Jesi. Due voci di due amici e conoscenti di Furio Jesi, Diego Buonsangue per la voce narrante la storia, ascoltatore delle lezioni di Jesi a Palermo, giornalista, e Umberto Cantone alla lettura diretta dei testi di Jesi nel film, attore di una compagnia di teatro che Jesi conosceva e frequentava.

Entrambe convergono con la trama di dettagli urbani e naturali intersecati tra di loro, diventandone commento visivo al testo e oggetto allo stesso tempo, secondo una logica di rappresentazione che non ha mai il sentore del didascalico. Si passa con grande abilità dalla voce allo sguardo, ma è un immaginare nel momento stesso in cui si narra, è vero evocarsi dell’immagine a sé stessa. Attraverso le musiche davvero pregnanti e di esatto spessore di Giorgio Trombino, trame percussive e suoni ambient, si crea una atmosfera in cui la gravità feconda delle parole dei saggi di Jesi sanno ben emergere con rinnovata forza. La scelta delle pagine di Jesi sono tra i passi più belli e ispirati di tutta la sua carriera: la descrizione della città in rivolta in Lettura del bateau Ivre di Rimbaud, la descrizione della risalita del Nilo, passi di lettere agli amici (contenute nel volume monografico su Furio Jesi della rivista Riga curato da Marco Belpoliti e Enrico Manera) che sanno tradurci ancora splendidamente la loro freschezza.

A voler concludere questa analisi del film nasce istantanea una considerazione. Ci si lamenta in continuazione della condizione del cinema come di una arte orfana di una precedente stagione di grandezza, così nel mondo, come spesso in forma parimenti o maggiormente caricaturale in Italia.

I cicli e le azioni umane variano il respiro di questa mitologia chiamata cinema. Che siano epoche d’oro, momenti di nebbia od ombra, nelle infinite schermaglie del giudizio, quel che conta è la gioia dell’operare imprescindibilmente: nella proprio istanza e oltre ogni salita e discesa della storia. Jesi parlava dell’orfano divino, peculiare figura mitologica, come di un arbitro di metamorfosi quando il tempo attraversa le crisi per giungere ad un nuovo ciclo. Possiamo parlare di questa prima prole filmica, Furio Jesi — Man from utopia con la stessa egida di gioia e forza rinnovata di uno sguardo di fanciullo.

A visione avvenuta, è certa la dimensione del cambiamento, l’esperienza di avere osservato l’innocenza del divenire. Bisogna essere grati ad opere del genere e ai loro fautori.

Una ironica dedica di Furio Jesi contenuta in una copia di Cultura di Destra, uscito per Garzanti nel 1979.

Qui sotto riportata, una intervista ai registi ed ideatori Carlo Trombino e Claudia Martino.

La prima domanda verte intorno a questo aspetto: la costruzione del film nei due aspetti che la compongono: nella sua base documentaria, di ricerca pregressa all’immagine, ricerca storiografica anzitutto e poi sulla scelta delle immagini, delle riprese, del montaggio, del sonoro. Come ti sei trovata, Claudia, a tradurre tutta questa ricerca di materiali, esperienze e persone in una chiave visiva, auditiva, cinematografica latu sensu?

(Claudia): Posso dirti che la costruzione parte proprio dal fatto che non esiste costruzione. Io sono la parte visiva, sono l’occhio di questo progetto. Non sono una studiosa di Furio Jesi, ma ho avuto il grandissimo onore di apprendere la vita e le opere attraverso l’esperienza di Carlo, come di tutte le persone che abbiamo incontrato in questa esperienza meravigliosa. È la nostra prima opera. Noi ci siamo letteralmente buttati in questa esperienza: da lì sono nate tutte le improvvisazioni e i passaggi che compongono la trama visiva del film.

Nessuna costruzione. Attraverso le testimonianze di tutti gli studiosi, in particolare di Enrico [Manera, n.d.r], di tutte le persone che erano in contatto con lui, ho assorbito come una spugna la loro specifica considerazione di Jesi. Da lì ho proceduto assemblando, tassello dopo tassello, il percorso che ha portato Furio Jesi in vari luoghi di Italia, in cui ha offerto la sua peculiare forma di studio e la sua umanità, nel corso della sua vita.

Come giustamente osservi, il percorso di Jesi si proietta in varie geografie.

(Claudia): Esatto, proprio per questo, insieme a Carlo, andavamo per le città e derivavamo [secondo il metodo della deriva psicogeografica, nato dalla geniale mente di Ivan Chetglov, poi portato ad una teorizzazione complessiva da Guy Debord, n.d.r] partendo dai luoghi in cui Jesi era vissuto e di cui aveva scritto. Mentre procedevamo nel metodo della deriva, ci fermavamo, leggevamo un passo di Jesi ed iniziamo da lì a costruire la scena.

Ci sono ore di riprese di questi luoghi che abbiamo in parte compreso nel montaggio del film. È stata una improvvisazione, un ascolto ed un inseguimento delle coincidenze, rocambolesche in alcuni casi, felici e fortunate in altri! In questo percorso siamo stati davvero molto fortunati! Davvero, a tratti risultava quasi inquietante come tutto girasse come per un caso voluto, per sua stessa natura!

Un destino inteso come una conduzione di immagini, o per immagini!

(Claudia): In parte concordo, ma vorrei anche specificare la matrice del mio lavoro. Io sono di formazione una naturalista, non so, l’idea delle coincidenze mi ha spiazzato! Mi ha aperto letteralmente altri scenari!

Una mappatura che si trova dunque nella sua stessa improvvisazione!

(Claudia): Esatto, quindi si può certamente parlare di improvvisazione e di deriva. Derivare in questi luoghi meravigliosi, Torino, Duino, il lago d’Orta, Palermo, che è la nostra città. Avendo sempre questo riferimento potente ad orientarci: Furio Jesi.

Un tenue particolare nei pressi del Lago d’Orta. Dettaglio del film.

In questo senso il montaggio offre questa indicazione che tu stessa affermi: i passaggi delle città, con l’orchestrazione delle voci fuori campo a leggere passi di Jesi, i dettagli dei luoghi (statue, scorci di vie, particolari architettonici, giardini, canali, foto, libri, aule). Rende questo prodotto, o sarebbe meglio dire quest’opera, un lavoro davvero indicativo di un metodo trovato nel suo stesso farsi.

(Claudia e Carlo): L’autore del montaggio è Manfredi Bernardini. Lui è la persona che ci ha seguito per la maggior parte del tempo.

(Claudia): Occorre dire che è stato un lavoro lungo, non semplice. Possiamo parlare senza problemi di un prodotto, perché è un prodotto finanziato da un ente pubblico [La regione Piemonte n.d.r.]. Non è assolutamente una parola erronea per indicare quel che dici. Si tratta del risultato di qualcosa.

(Carlo): Possiamo dire che la fase del montaggio è stata la più lunga. Ci siamo ritrovati con tantissimo materiale audio e video, andare poi a sezionare 12 ore di sole interviste più le altre riprese in una sintesi massimale di una ora è stata una vera sfida. I materiali interagivano come agenti chimici, cercavamo di farli reagire, stava poi a noi ricavarne la soluzione soddisfacente.

(Claudia): Un’altra cosa che vorrei aggiungere è il fatto che noi non abbiamo vissuto questi quattro anni in una unica direzione, monolitica: Io e Carlo ci trovavamo in momenti diversi della nostra vita, io stavo finendo delle mie ricerche. Io mi occupo, di tutt’altre discipline: scienze naturali, zooarcheologia, paleontologia, tafonomia. Quindi ogni volta convogliavamo in una direzione da punti diversi del pianeta. Carlo si trovava in Italia, io in Spagna. Dunque avevamo dei giorni precisi, un intervallo ristretto di tempo per riflettere e concretizzare quello che avevamo studiato e pensato. Tutto questo è stato come una danza, un muoversi da un punto all’altro, come ha fatto Furio Jesi. Lui ha viaggiato tantissimo nella sua vita, anche lui è stato come condotto da una danza in vari luoghi.

(Carlo): Ti confermo la medesima sensazione di Claudia, è stato incredibile osservare tutti questi luoghi diversi in una trama, provenendo noi stessi in quel momento da città e posti diversi.

(Claudia): Avere in mente le precise locazioni che segnarono i passaggi della vita di Jesi ed avere poco tempo, una urgenza molto utile per realizzare l’oggetto della nostra ricerca.

D: Vengo a te, Carlo. Mi pare di capire che la tua ricerca sull’autore parta dalla città di Palermo [Luogo in cui Jesi fece dei corsi universitari di assoluto pregio, seguitissimi da studenti e non,n.d.r.], dunque anche da un tempo preciso della vita di questo autore. Spiegaci il nesso che si è stabilito attraverso questa città con questo autore.

(Carlo): Nel mio caso, si trattava proprio di essere consapevole del fatto che Palermo custodiva questa memoria di Furio Jesi in maniera discreta: se uno sa dove chiedere, è possibile trovare ancora oggi decine di persone che hanno vivissimo il ricordo di Furio Jesi in città, e dire che ci ha vissuto meno di tre anni! Ti faccio un esempio che ha peso nella costruzione del film. Ci sono due voci narranti fuori campo, ed entrambe appartengono a persone che conobbero personalmente Furio Jesi a Palermo. Si può parlare, dato che prima si parlava di fortuna e di cose non casuali, di veri e propri easter eggs. Per chi è della città sono voci che si possono riconoscere. Una delle due è la persona che ci ha avvicinato al pensiero di Furio Jesi. Si tratta dello speaker che narra i passaggi della biografia di Jesi e non di quello che legge i passi dai libri di Jesi, la voce di Umberto Cantone, attore e regista che lo aveva conosciuto quando Jesi recensiva e frequentava la scena teatrale palermitana. Si tratta di Diego Buonsangue, giornalista, che a quel tempo stava facendo un dottorato in filosofia. Lui andava a seguire le letture e le lezioni di Furio Jesi, in qualità di esterno. Ti specifico questo come dettaglio indicativo del fatto che Jesi fosse una autentica celebrità in quegli anni palermitani. Ovviamente questo non era nella sua indole di studioso, rifuggiva da queste cose. Però è innegabile che un certo tipo di cultura palermitana, un poco conformista, se lo contendeva come intellettuale da avere in casa e consultare. D’altro canto, ad indicarti il peso di Jesi su Palermo, possiamo fare l’esempio di Giovanni Puglisi, allievo di Armando Plebe [filosofo, traduttore di Hegel, parlamentare ex P.C.I, poi parlamentare dell’ M.S.I], a 33 anni preside della facoltà di magistero di Palermo dove insegnò Jesi, che ebbe l’idea di intitolare un’aula dell’Università proprio a Furio Jesi. Da quel che sappiamo, pur insegnando entrambi nella stessa città, Plebe e Jesi non ebbero mai contatti. Secondo Puglisi non si sarebbero piaciuti. Al prof. Puglisi, che intervistammo per primo facemmo una domanda fatta spesso ai nostri intervistati: A chi potrebbe assomigliare Jesi come pensatore?

Lui, tra tutti, ci ha dato forse la risposta più interessante: lo ha accostato a Guido Aristarco, un grande storico del cinema, e Leonardo Sciascia, perché, ricordava, Sciascia a Palermo voleva essere chiamato “maestro” e non “professore”, perché “una distanza fra me e voi deve esserci”. Sciascia conobbe Furio Jesi e scelse la sensualissima copertina del libro sul simbolismo mariano edito da Sellerio “Sola fra le donne”, tradotto e introdotto da Furio Jesi nel 1978. Entrambi, Sciascia e Aristarco, come Furio Jesi, non erano laureati. Ed io penso che l’accostamento fatto da Puglisi è oltremodo pregnante perché tutti e tre sono iscritti dentro un sentiero irregolare, in qualche modo sconcertavano la società letteraria cittadina. Fuori da ogni logica gerarchica del sapere o della politica, non si erano mai ridotte a bassezze come trovare un dottorato o un padrino nell’accademia.

Quindi, dal mio lato, posso dirti che l’ispirazione nasce a Palermo, chiedendo direttamente ai testimoni diretti, a chi conobbe questo studioso. La cosa meravigliosa da sottolineare è come tutti sgranassero gli occhi gioiosi, tutti con una unica e diretta opinione: “ [Furio Jesi n.d.r.] Era la persona più incredibile che mi sia mai capitato di incontrare!”. Per questo noi abbiamo avuto una potente spinta nel lavoro di ripresa e ricerca, tutti erano letteralmente entusiasti!!

Una Torino in silhouette di ombre, estratta dal film.

(Claudia): Per dirti, cosa ironica, noi abbiamo partecipato a questo bando, col pensiero: “Dai, partecipiamo, essendo Furio Jesi originario di Torino magari a loro [la Regione Piemonte come sovvenzionatrice n.d.r.] può interessare!”. Essendo non addetti ai lavori, all’epoca non lo conoscevamo ancora approfonditamente. Possiamo senza alcun dubbio dire che l’entusiasmo della gente ci ha fatto andare avanti, oltre ogni difficoltà, oltre le tempistiche lunghe e la fatica del lavoro di produzione. Sono quelle scosse positive, la bellezza incredibile dell’accoglienza, tutti che ti dicono: “Ma certo, Furio Jesi! Vieni qui, parliamone!”.

(Carlo): Senza leccare il culo a nessuno, senza asservirci, possiamo dirti che il Doc Film Fund della Regione Piemonte è stato seminale in questo, perché senza i fondi da loro concessi le riprese in Piemonte sarebbero state letteralmente impossibili. Come possiamo poi legare questo ultimo discorso, quello della committenza e della produzione culturale e audiovisiva, al pensiero di Jesi? Attraverso l’articolo uscito per Resistenza — giustizia e libertà, intitolato “CULTURA DI ELITE E ANALFABETISMO DI MASSA”. Come diceva anche Luttazzi [Daniele Luttazzi, scrittore conduttore e comico, vicino al piglio ironico ed apocalittico di Karl Kraus n.d.r.] Jesi sosteneva che la censura in un sistema capitalistico come l’Italia degli ultimi decenni opera attraverso dei meccanismi che sono inediti rispetto a quella che può essere la censura RAI durata fino agli anni 90, o quella del governo cinese o del Vaticano, o per i tempi rinascimentali, del Malleus Maleficarum [libro uscito nel 1487 dai frati domenicani tedeschi Sprenger e Kramer, in cui si indicano tutti i mali allora conosciuti e riportati dai testi antichi inerenti alle pratiche eretiche, diaboliche che la chiesa deve e può combattere ricorrendo alla Bolla Papale o alla violenza diretta].

In questa nuova inedita censura il capitale usa una logica inversa: dà spazio ad un pensiero che lo stesso capitale non contempla, se non addirittura vi si oppone apertamente, in maniera antagonistica, assorbendone la logica nel suo stesso funzionamento, o relegandola ad ambiti marginali e inoffensivi, come i venticinque lettori di Croce durante il fascismo. Sia Jesi che Luttazzi rinunciarono al posto fisso, in Rai l’uno e alla Utet l’altro, compiendo un gesto di rottura dettato da motivi politici, ravvisabile in pochi altri intellettuali italiani, penso a Bianciardi che sfancula Montanelli e la Feltrinelli o, come ci disse Antonino Buttitta durante l’intervista, a Giuseppe Antonio Borgese, enfant prodige forse più di Jesi e fra i pochi professori universitari a rifiutare fedeltà al fascismo. Io che ho una formazione da storico, ho molto a cuore questo aspetto. Come anche dal documentario si evince, Jesi per mantenersi lavorava tantissimo pubblicando libri [oltre ad una cospicua attività di consulenza, traduzione, redazione editoriale per molte case editrici e riviste, n.d.r.]. Mi vengono ora in mente i suoi bellissimi volumi-compendi, scritti per campare e non per altro, quali “Cosa ha veramente detto Pascal?”, Cosa ha veramente detto Brecht?” usciti per Ubaldini-Astrolabio. Questo film ha una intenzione simile a questi libri di Jesi. Cosa ha veramente detto Furio Jesi?

Però ovviamente il film non si propone come una biografia di Jesi, ma con un film di storia orale, in cui a essere protagonista è la memoria degli intervistati.Volendo fare un documentario in un’ora, abbiamo inevitabilmente compendiato, poiché già solo leggere un solo capitolo di un qualsiasi libro di Jesi avrebbe mangiato il tempo che si impiega a vedere il film. Immaginati a dover leggere un solo capitolo di “Letteratura e Mito”, ci avrebbe portato via un’ora e mezza!

Posso immaginare! Ho difatti molto amato come dai singoli intervistati abbiate veramente creato un compendio di dettagli che traducono la persona ed il pensiero di Jesi in una maniera umana, sentita, veritiera.

(Carlo): Siamo felicissimi ti sia piaciuto. Dario Davì, psicologo clinico nostro amico che ha visto il film, ci ha detto che secondo lui questo film ha per protagoniste le relazioni umane, e noi siamo totalmente d’accordo. E infatti ci tengo anche a dire che siamo felicissimi di averlo portato a XM24, uno spazio ottimale, un posto in cui eravamo già stati tante volte nella nostra vita. Sapevamo che qui era il luogo perfetto in cui parlare di mito, di rivolta, di collettività. Non parliamo di un mito tecnicizzato [Concetto che nella teoria di Jesi indica un mito finalizzato ad un uso di coercizione e comando politico, n.d.r.], come di un rituale di Piazza come il Motorshow, o la Fiera del cibo di Fico visto che siamo a Bologna. XM24 è un luogo in cui si fanno attività collettive donate, spontanee, autogestite e lontane dall’orrore dell’economia come subordinazione di rapporti.

Mi viene in mente in questo senso il giovane Jesi diciottenne che imbastisce in una cantina di Torino “Tamburi nella notte” di Brecht. Il fare in luoghi intimi e periferici allo stesso tempo.

(Carlo): Esattamente, lo spazio di XM24, come quel piccolo spazio dove Jesi fece il suo primo spettacolo, fa sì che un gigante del pensiero del Novecento quale lui era possa circolare in questi spazi autogestiti e illegali, mentre continua ad essere non contemplato o quasi ignorato dalle Accademie. Jesi scrisse su L’ora un articolo che raccontava di un incontro su Brecht al Teatro Biondo di Palermo in cui sembrava che Bertold, il gatto e la volpe si aggirassero fra le persone del pubblico che interrogavano gli attori sul palco dopo lo spettacolo.

Una cosa che ho sempre amato di Jesi è proprio questo elemento che poco fa hai ravvisato. L’essere coi compari e i compagni di strada, nei quartieri, nei luoghi attivi del vivere quotidiano, pensando a cose straordinarie. Appunto questa vivacità del far spazio si trova anche nella sua scrittura, incredibilmente visiva. Per dirvi, conoscerete bene quel passo in cui una esperienza che per lui fu una vita di studi, quale è il mito in ogni suo aspetto, viene tradotta in una personale memoria di infanzia di una anticamera di casa, coi suoi giocattoli ed i primi oggetti a condurlo verso il suo destino di studioso.

(Carlo): Giulio Schiavoni nel documentario risponde alla tua domanda. In Cultura di destra [ultimo libro pubblicato da Jesi nel 1979 n.d.r] Per dirti parla e riporta in appendice due testi di suo nonno [Percy Chirone, nd.r.], in questo senso Jesi, come tutti i grandi, inserisce elementi personali nella ricerca scientifica. Riguardo alla visualità: Jesi come studioso nasce come iconografo. Noi viviamo in un mondo dominato delle immagini, da google, in cui la ricerca dell’immagine avviene nell’ immediato attraverso un motore di ricerca su scala planetaria. Ti faccio un esempio. Voglio cercare adesso su google delle immagini di Bes, la divinità egizia di cui Jesi si appassionò. Escono infinite immagini. Ai tempi di Jesi reperire immagini non era così. Come ci ha detto Schiavoni nel film, Jesi nasce come iconografo enciclopedista che si era creato un accesso al google della sua epoca: a quindici anni, nel 1955/56 si era costruito un archivio, e nel fare archivio reperiva immagini attraverso contatti epistolari con musei e collezionisti in tutto il mondo, lettera dopo lettera, consultazione dopo consultazione. Non erano immagini di facile reperibilità, pur essendo lui a Torino, una città che aveva luoghi cosmopoliti come il Museo Egizio o l’Einaudi, che lui frequentava dalla più giovane età. Questa è una cosa fondamentale. Lui cresce con Albino Galvano. Non so se tu conosci i suoi libri. Libri suoi come “Per un’armatura” sono libri di simbolismo, iconografici. Poi occorre sottolineare un rapporto per Jesi fondamentale con una autentica outsider di Torino: Carol Rama.

Elisabetta Chicco Vitzizzai [Compagna di liceo di Furio Jesi, sua amica n.d.r.] ci raccontò delle cose fantastiche, come il fatto che Furio Jesi letteralmente tifava per la sua arte [di Carol Rama n.d.r.] contro il critico paludato de La Stampa Marziano Bernardi. Era il periodo del magistero di Casorati, il cui studio venne attraversato da Carol Rama e da diverse generazioni di intellettuali torinesi, dal fascismo agli anni ’60. Jesi attraverso Galvano si appassionò a Carol Rama, che all’epoca viveva in povertà, perché Marella Agnelli che dettava il gusto negli acquisti d’arte dell’alta società torinese, non aveva mai apprezzato i suoi quadri e quindi nessuno se la filava, venne riscoperta pochi anni prima della sua morte e solo ora le sue opere girano il mondo acclamate dai critici. Furio Jesi invece riconobbe la sua grandezza fin dagli anni ’50. Questo piccolo esempio serve a illustrare la cosa più bella di questa ricerca, cioè tutta la parte che non riguardava direttamente Furio Jesi era imponente, migliaia di informazioni che ci servivano a ricostruire il tessuto socio-culturale in cui si mossero i protagonisti. Vogliamo derivare? La crew di Writer Torinesi la cui firma era MAC (Movimento Arte Concreta) comprendeva oltre a Galvano e Rama e anche Paola Levi Montalcini, gemella di Rita. Non avevo idea di chi fosse ma durante le riprese alla Galleria Maggiorotto ho visto le foto di alcuni suoi quadri e sono rimasto esterrefatto. Ma questo sarebbe un discorso lunghissimo che non possiamo fare perché siamo giunti ad un buon quarto d’ora e mi sembra oltremodo soddisfacente per l’intervista!

Dettaglio del film, una Torino crepuscolare.

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