Illustrazione di Marika Banci

Gli eptapodi di Chiang

Un resoconto della lingua degli eptapodi basato sul racconto di Ted Chiang, con qualche osservazione sul film Arrival di Villeneuve

Mattia Pacetti
La Caduta 2016–18
6 min readMay 29, 2017

--

Nel racconto fantascientifico Storia della tua vita (1998) di Ted Chiang, l’incontro dell’uomo con una razza aliena in visita sulla Terra è interamente giocato sul problema della reciproca comprensione. Traducendo, o meglio, decodificando, la lingua scritta degli alieni, l’uomo deve fare i conti con un’intelligenza che si regge su principi diversi di interpretazione della realtà.

Gli eptapodi (sette-piedi, una sorta di rigidi polpi di terra con visione a 360 gradi) giungono con le loro astronavi sopra l’atmosfera terrestre e spediscono sulla superficie degli schermi attraverso cui poter comunicare. Con ogni schermo un fisico e un linguista tentano di instaurare un dialogo. Il loro scopo finale, cioè scoprire il perché gli eptapodi siano venuti, passerà in secondo piano, rispetto all’enigma di un’intelligenza che scombina e ribalta le più elementari ed intuitive logiche umane.

Dopo aver constatato che la lingua parlata (Eptapode A) fa uso di categorie grammaticali analoghe a quelle umane, l’interesse della linguista Louise Banks si focalizza sulla scrittura (Eptapode B), che non ha codici terrestri paragonabili. Qualunque sia la complessità del messaggio e la quantità di informazioni trasmesse, l’Eptapode B si realizza sempre in un unico scarabocchio, simile a una “ragnatela” di forma circolare: un semiogramma (cioè un simbolo che non veicola dei foni) il cui statuto si scopre essere completamente visivo: lo spessore, le curvature, i ghirigori dei tratti, il loro orientamento reciproco esprimono tanto gli oggetti del discorso quanto i connettivi logici della sintassi.

L’osservazione del processo di scrittura permette a Louise di comprendere il funzionamento dell’Eptapode B, quindi di replicarlo. Gli alieni compongono il semasiogramma tracciando una serie di linee continue, la cui interazione con le altre linee, già tracciate o da tracciare, lo suddividono in segmenti significativi. Una linea, passando da un segmento ad uno successivo, può significare, ad esempio, il verbo della reggente, quindi una congiunzione inserita in una frase subordinata, quindi la declinazione di un sostantivo ecc… a seconda dello spessore, della curvatura e del suo configurarsi con le altre.

Essa è dunque tracciata prima di significare e soltanto l’ultimo segmento rivelerà il significato complessivo del semasiogramma-testo, come se si trattasse, in una prospettiva umana, della chiave che ne risolve il rebus.

Il semiogramma alieno in “Arrival”

Da ciò Louise deduce che il pensiero degli eptapodi concepisce la realtà senza l’ausilio della parola fonicamente intesa, e con una simultaneità in cui è vano e si annulla il senso delle concatenazioni causali. Ciò viene confermato dal fatto che gli eptapodi non comprendono la matematica e la fisica per noi più intuitiva, che lavora sul piano della causalità e della successione, ma rispondono a quella variazionale, il cui obiettivo non è di stabilire cosa ci sia alla fine di un processo ma, posta che questa fine è già nota, di determinare le vie percorribili per raggiungerla.

Si scopre così che sono in grado di prevedere il futuro e che il loro esserci non è, nella loro coscienza, dal loro punto di vista finalistico, un essere presente, un fatto collocabile in un solo punto della linea temporale. La loro lingua è esclusivamente performativa e, come qualsiasi altra azione, è paragonabile ad un rito grazie al quale si conformano al corso necessario degli eventi e attuano quanto è certo dover avvenire.

“Gli eptapodi, per come noi intendiamo questi concetti, non sono liberi né schiavi; non agiscono secondo la loro volontà, e non sono automi senza speranza. Ciò che caratterizza la loro consapevolezza non è solo che le loro azioni coincidano con gli eventi della storia; è anche che le loro motivazioni corrispondono agli obiettivi della storia”.

La trasposizione filmica di Denis Villeneuve, Arrival (2016), ha un poco semplificato le riflessioni di carattere cognitivo-linguistico del racconto, tradendone in parte la centralità nella storia.

A questo proposito è stata chiamata in causa l’ipotesi di Sapir-Whorf per giustificare l’acquisizione da parte di Louise della preveggenza degli alieni dopo che ne ha appreso il linguaggio visivo. L’ipotesi sostiene, sulla scorta della filosofia di Wittgenstein per cui “il linguaggio traveste il pensiero”, che le strutture profonde di una lingua si ripercuotono sul modo con cui la nostra mente interpreta e percepisce la realtà. Nel film è palese la forzatura di tale nozione, inserita per orientare lo spettatore senza volerlo impegnare troppo. E alla faciloneria della spiegazione si accompagna l’intromissione della scienza in un ambito che non le pertiene, in quell’aspetto della storia in cui, come accade spesso nel genere fantascientifico e come accade nel racconto, le sue conquiste si arrestano di fronte ad una potenza fantastica inesplicabile.

Louise nel film “Arrival”

Così in Louise convivrà paradossalmente, accanto alla visione umana, quella teleologica, esperita in nitidi flashforward, per cui il futuro è un oltre soltanto in apparenza, un piano compresente benché non attualizzato. Grazie alla preveggenza, Louise scopre che la sua futura figlia morirà di malattia a soli 25 anni. E la sua coscienza “eptapodica” del tempo sembra riverberarsi sul piano umano in senso velatamente sacrale: nel fatto che accetti senza esitazioni il dover concepire e amare una vita illuminata dalla sua tragica fine.

Ma il film indica questa prospettiva senza aprirla, senza quasi mostrarne coscienza. Ed è un peccato che abbia mancato l’occasione di approfondire il dramma di un’esistenza sfasata rispetto al suo piano naturale, secondo il grande modello di Solaris di Tarkovskij.

Meno coraggiosamente, Arrival si sviluppa come un modesto kolossal della stupidità umana che teme e cerca la sua apocalisse. I governi della terra progettano un folle attacco contro le navi aliene, spaventati dal fatto che gli eptapodi, nel tentativo di proporre uno scambio non solamente verbale, abbiano usato un semagramma traducibile come “portare un’arma”. Sarà la preveggenza di Louise, esercitata in modo inconscio, a salvare le cose in extremis: ponendo il film sulla falsariga di tanta fantascienza d’azione che impernia le sue trame sul principio di autoconsistenza di Novikov.

L’arma che gli eptapodi hanno voluto portare in dono, ovviamente, non era altro che il loro linguaggio. In cambio, si aspettano (sono certi) che l’uomo offrirà loro un imprecisato aiuto dopo tremila anni. Ma perché aprire uno squarcio su un futuro così gravido, senza nemmeno darci una sbirciata? Ancora una volta, è l’imperativo di dare una completezza di senso alla storia, senza curarsi che questo senso è di una portata troppo vasta per potersi esaurire in due righe di copione.

Pregio indubbio della pellicola è l’impatto visivo della presenza aliena. Perché nel film le astronavi-monolite (evidente citazione della lastra nera di 2001: Odissea nello spazio), stanno sospesi a pochi metri da terra, entità solenni e grandiose. E brillante è l’inquadratura che introduce l’uomo di fronte all’eptapode nella galleria dentro l’astronave: perché è ribaltata, cioè segue la prospettiva della gravità terrestre (in quanto l’astronave muta la direzione della forza di gravità). Oppure (mi diverto a ipotizzare) è ribaltata come se volesse suggerire l’opposizione delle due forme di intelligenza, tra prospettiva causale e teleologica.

Ted Chiang

--

--