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Game of Thrones e il peso di 16 milioni di telespettatori

Una stagione controversa, spettacolare e sottomessa alle dure regole della tv via cavo

Giacomo Alessandrini
La Caduta 2016–18
5 min readAug 30, 2017

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Ci siamo, arrivati a conclusione di questa settima e tribolata stagione possiamo dirlo: è stata un’ottima annata per il fan service. No, la mia non è una critica, non è facile produrre un’opera del genere e mantenere inalterati gli equilibri narrativi, escluso un sesto episodio raffazzonato e privo di quella coerenza a cui l’HBO e David Benioff e D. B. Weiss ci hanno abituato. Eppure siamo lì, contestiamo e critichiamo la velocità con cui bucano lo schermo i draghi di Daenerys per salvare la neonata compagnia dell’anello, gli instancabili fisici dei protagonisti che a colpi di martello e spada dilaniano i soldati dell’armata dei morti, la presenza costante sullo schermo di comparse pronte a farsi ammazzare per mantenere alto l’interesse dello spettatore.

Sono molti gli elementi da contestare a una puntata che fa unicamente leva sui sentimenti, qualche battuta tra Clegane e Tormund e uno scontro tra bene e male talmente teatrale da sembrare scritto per la recita dell’oratorio. E in effetti lo è, la settima stagione getta le basi per un finale di serie sicuramente agrodolce, deve esserlo. Jon è al comando della Resistenza, ha trovato l’amore, è a un passo dal trono, perché non rovinargli la vita? Anzi, perché non rovinare la vita a tutti? Dopo una stagione di certezze e prese di coscienza su un destino guidato dalla (sadica?) mano del Signore della Luce, un’inversione di tendenza suona più scontata della morte di Ramsey nella Battaglia dei Bastardi.
Una stagione veloce, dal montaggio serrato, che muove necessariamente verso quella bramata conclusione che fan, puristi o meno, attendono. I romanzi, se mai verranno terminati, vedranno con ogni probabilità Ditocorto ergersi a protettore dei Sette Regni, ma la televisione deve scendere a compromessi con la sua stessa natura, un medium che si autoalimenta di emozioni; per questo motivo non possiamo accanirci contro un racconto che per forza di cose è schiavo di due vite parallele, passatemi il termine. Nessuna pausa, i più importanti eventi svelano il fil rouge di un ritorno in pompa magna degli Stark: Arya dopo aver sterminato i Frey torna a Winterfell, stesso discorso per Brandon dalla Barriera, e infine Sansa lasciata a fare le veci di Jon; l’inverno è arrivato e i sopravvissuti siedono allo stesso tavolo. Nelle catacombe di Grande Inverno le due sorelle indicheranno la strada intrapresa dagli sceneggiatori per questa stagione: “Tutti quelli che conoscevano il volto di nostro padre sono morti” — “No, non tutti”.

Un mutamento forse necessario data l’importanza acquisita nel tempo dalla serie, che non vede più Game of Thrones come l’antifantasy, ma il più alto esponente del genere, il trionfo dello spettacolo hollywoodiano. Nessuno dei personaggi più amati muore, anche nelle situazioni più sfavorevoli: c’è sempre una via di fuga (es. Jamie poteva morire al termine del conflitto nel quarto episodio, o addirittura giustiziato dalla Montagna per ordine della regina; Ser Jorah Mormont curato miracolosamente dal morbo sopravvive allo scontro con i morti nel sesto episodio e con fredda determinazione si aggrappa al drago resistendo alla caduta — atteggiamento degno del miglior supereroe).

Samwell e Bronn ricoprono il ruolo di deus ex machina, burattini nelle mani degli showrunner, variabili importantissime in una scacchiera che improvvisamente ha smesso di perder pezzi. La prevedibile fine di Petyr Baelish è il punto esclamativo al termine di un percorso che porterà sì, come dicevo, ad un finale agrodolce, ma che fa gioco a un senso di giustizia divina che mal si integra con quanto raccontato fino ad ora. La parolina magica è solo una: equilibrio; scendere troppo spesso a compromessi con lo spettatore non è mai cosa buona, è una primadonna, si perde, sempre. Vincono le emozioni, dobbiamo accettarlo. Uno dei momenti significativi che sottolineano questa dipendenza da feelings è sicuramente la scena di sesso tra Missandei e Verme Grigio, per non citare l’ovvia chiusura tra i Targaryen e la gravidanza di Cersei, degne del peggior melò. Chiudere il dramma in soli sei atti sarà difficile, per non dire impossibile, per questo consiglio di prepararci a salti temporali e flashback.

Il processo di pace è stato accelerato, influenzando i tempi di scrittura dei singoli episodi, tenendo conto della Grande Guerra (come abbiano fatto i Dothraki a raggiungere le armate Lannister in così breve tempo e senza una flotta decente rimarrà un mistero). Ma in fondo è quello che vogliamo, o quello che la maggioranza cerca da anni, lo scontro immediato e violento tra i pretendenti al trono. Così come ci sentiamo soddisfatti nel vedere i protagonisti riuniti, vecchi personaggi riapparire (Frittella), Sam cambiare le sorti della battaglia dalla Cittadella e Jon uscire dalle grotte di Dragonstone insieme alla Madre dei Draghi (con un’inquadratura a dir poco profetica). Eppure qualcosa non torna, “i buoni” sono indistruttibili e “i cattivi” a tratti troppo umani (es. Cersei che lascia andare Jamie in soccorso dei nuovi alleati).

Le critiche feroci mosse al sesto episodio non tengono conto della natura dello show, quella d’intrattenere. E anche se possiamo concordare sull’incapacità di mantenere alta la qualità del romanzo televisivo, tra incongruenze logistiche e dialoghi telefonati, non possiamo invece non considerare quei milioni di telespettatori che come una spada di Damocle influenzano passivamente la storyline, bramosi di eccessi e plot twist. Non si vuole di certo giustificare la mancanza di pianificazione palese dietro l’episodio, ma non poteva essere altrimenti, vista la continua pressione che devono subire gli sceneggiatori. Più che una caduta di stile parlerei di cambio di rotta, in favore di una banale ricerca del climax.
Parlando sempre di Beyond The Wall, il regista Alan Taylor spiega l’episodio in termini di “emotional experience” e come l’effetto, mancato, di realismo debba necessariamente passare in secondo piano. L’impossibile plausibile”, una situazione al limite della sopportazione, indispensabile ad una trama che scivola e inciampa verso il terzo atto aristotelico, incatenata a budget sempre più alti e contratti interminabili.

Domandiamoci questo: ha senso disprezzare l’operato di un team che con ogni probabilità incasserà il più alto numero di telespettatori nella storia della televisione? Coerenza o meno, Game of Thrones non è The Walking Dead, Game of Thrones è la televisione del futuro.

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