Il Club to Club 2017 porta epifanie e nuove consapevolezze

Un racconto a tre voci sul festival d’avantpop d’eccellenza in Italia. A Torino abbiamo partecipato al weekend postmoderno dei nostri tempi

La Caduta
La Caduta 2016–18
14 min readNov 14, 2017

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Novembre è quel periodo dell’anno in cui si ritorna coi piedi per terra dopo due sani mesi di riassestamento post-estate: si tirano fuori i giacconi invernali, ricominciano le sessioni d’esami, si torna a patire il freddo mattutino per andare al lavoro e a Bologna addirittura sta già nevicando. Per fortuna però novembre è anche il mese più vivo tra concerti e festival, e a chi piace la musica resta solo l’imbarazzo della scelta su che evento sfruttare come valvola di sfogo per la propria depressione autunnale. Noi abbiamo scelto di prendere un treno da Milano e di passare il weekend al Club To Club di Torino, per dimenticarci dei nostri impegni e dei nostri immancabili scazzi quotidiani. Di certo non è stata una scelta azzardata, il festival lo conoscevamo molto bene e sapevamo già che non saremmo rimasti delusi. Dopo quattro edizioni e svariati eventi paralleli su Milano, tra cui la bellissima preview di quest’anno con Lorenzo Senni, siamo entrati al Lingotto con la consapevolezza di essere nel posto giusto al momento giusto, in quello che molto probabilmente è il miglior festival d’Italia e l’unico evento di musica elettronica del nostro paese ad avere un respiro internazionale. (Tommaso Tecchi)

A Torino approdo rapidamente, di nuovo, nelle prime ore del pomeriggio di venerdì. Manco da un po’ e sono qui, di nuovo, nel primo weekend novembrino, per il festival che aspetto ogni anno conscio sempre di più che nella mia vita c’è stata una fase pre-Club to Club e una post-Club to Club — generalmente parlando — e solo dopo questo tempo riesco a capire come le due notti del Lingotto siano per me un’epifania personale e collettiva. Nel primo weekend di novembre, a Torino, mi rendo conto che quel che va in scena di fronte ai miei occhi mi rimanda a certi scorci di reportage dal Weekend Postmoderno degli anni ottanta raccontato da Pier Vittorio Tondelli, così lontano nel tempo. Eppure è incredibile ritrovarsi, nel giro di pochissimo, da Porta Nuova alla zona del Quadrilatero fino in Vanchiglia, due giri di spritz e una tigella (!) da Emilia in Corso San Maurizio, poi ci si saluta, in un attimo siamo in San Salvario, è un po’ tardi e il festival è cominciato. EdoP e TT sono già sul posto, io rivedo volti conosciuti e mi godo un po’ il ritrovo — che poi noi mai al Lingotto prima delle undici, prima c’è bisogno di un beveraggio, di qualche chiacchiera, la notte sarà lunga, la line-up è folta e bisogna dosare bene le energie. (Pietro Giorgetti)

Dalla grigia Milano alla grigia Torino, un viaggio che odora di vacanza, 48 ore di vita, 18 ore di musica. Fuggiamo a testa bassa, con la giacca pesante, il cappellino di lana e tanta voglia di toccare l’iperuranio al Club To Club 2017, per godere un po’ e pensare già al momento in cui sarà tutto finito. Partire con un furgoncino, sette amici nuovi e vecchi al contempo, la condivisione di una fetta di spazio-tempo della propria vita con chi forse sparirà domani o forse resterà per sempre. Ciò che con certezza granitica rimarrà una pietra miliare fissa del corso della mia esistenza saranno sicuramente questi due giorni, che non saranno solo musica, ma si tratterà di puro divenire; prendere parte a un qualcosa di unico, inimitabile, sentirsi vivi davvero, creare dal nulla emozioni intensissime. Questo è il Club To Club per me, già lo so in anticipo e già so che non mi deluderà. (Edoardo Piron)

A sx: Sexy Arca; A dx: Didascalico Servizio Antincendio

Venerdì ci si fionda alla velocità della luce al Lingotto, mentre ci chiediamo se moriremo di sete, se l’impianto sarà di livello, se non verremo arrestati dalla polizia all’ingresso per avere con noi un carica telefono. Superati i cancelli di Mordor, entriamo in qualcosa che sembrano le miniere di Moria: una sala gigantesca senza goblin e nani, ma con una colonna sonora che già non delude le nostre aspettative sul sound. A fare gli onori di casa è Arca, che in realtà ancora non si vede: sembra ci siano dei problemi tecnici con il suo computer. Con 20 minuti di ritardo il venezuelano, tacchi, bustino e culo scoperto, sale sul palco e fa dimenticare al pubblico questa breve attesa con uno show fatto di sesso e punk. Sesso perché Arca è sensualità allo stato puro, in grado di far dubitare EdoP della propria eterosessualità, in grado di ammaliare sia con la sua imponente e perfetta fisicità sia con la sua voce e i suoi brani tutti i presenti. Salta su dei tacchi altissimi, scende nella platea, lancia rose bianche, propone qualcosa di così punk da spezzare tutti i ferrei ideali di una vita intera. Potente, mascolino e femminile allo stesso tempo, il producer venezuelano si mostra come il futuro della musica, come qualcosa di unico e irrinunciabile. Poco da dire, tanto da ammirare, nonostante TT sostenga che gli ultimi due dj set italiani dell’artista lo abbiano gasato di più: si ballava di più e si cantava di meno, dice. Ah, dimenticavamo la proiezione finale di un fisting anale tra due uomini in loop che ha confuso un po’ tutti i presenti ma “giustificato” da Arca con un: It’s only human bodies touching other human bodies. Nulla di più vero.

Mentre il buon PietroG ci raggiunge, sul main stage arriva il turno di Bonobo, ma nell’aria già c’è troppa allegria per i nostri gusti e decidiamo di andare nella sala Red Bull Music Academy (ex-Sala Gialla, sigh) ad ascoltare Laurel Halo. TT riesce a convincerci che sia una buona idea, ma fatica a convincerci a rimanere lì: l’americana suona i suoi pezzi senza ritmo e canta creando un’atmosfera che ricorda molto i Portishead. A quanto pare però il trip hop non basta e parte del pubblico ha bisogno di qualcosa di più carico per proseguire la serata. Il karma decide di punirci tutti per questa eresia e ci porta sotto cassa da Ben Frost, che sicuramente è incazzato per qualche motivo dato che fa contemporaneamente alzare tutti i volumi e abbassare tutte le frequenze. Il risultato è che dopo cinque minuti a mezzo metro dal subwoofer sentiamo che stiamo progressivamente perdendo l’uso dell’udito e ad ogni colpo di basso ci ribolle nello stomaco il prosecco bevuto in Vanchiglia prima di arrivare al Lingotto. Calmo Ben, non fare così.

La serata prosegue, ci si perde di vista, ci si ritrova, si vaga a caso da una stanza all’altra, si esce a fumare, ci si interroga sulla convenienza o meno di continuare a spendere 10 euro a drink. Finalmente all’1 arriva uno dei momenti più attesi dell’intero festival: il live di Nicolas Jaar. Qualcosa si accende, i motori delle nostre gambe iniziano a scaldarsi e i cervelli sono pronti a raggiungere il Nirvana. Il cileno però ci fa aspettare circa 40 minuti per sentire una cassa pseudo-dritta: da inizio serata nessuno lo ha ancora fatto e la gente sembra iniziare un po’ a spazientirsi. Jaar, su un palco illuminato solo da un piccolo faro e ogni tanto da un led orizzontale, esce fuori dalla sua gabbia di synth per cantare davanti al pubblico. Three Sides of Nazareth, No, The Governor e soprattutto hit più vecchie come Space Is Only Noise If You Can See ci spazzano via e la cassa ricomincia a martellare. Sembra che stia suonando dentro al suo studio, per sé stesso, ci dà spesso le spalle e non comunica con nessuno. Anziché ritenerci offesi ci sentiamo fortunati che un artista così riservato ci lasci guardare e ascoltare mentre fa il suo lavoro.

Nicolas Jaar Laser + Ninos Du Brasil 3Nov ©Tommaso Tecchi

Terminato il set di NicoJaar si corre in sala gialla a sentire il finale in tinte dub degli Still e a volare insieme a Not Waving che suona una techno stellare e ci tiene incollati al pavimento solo fisicamente, perché ormai la testa sta toccando il cielo di Torino. Nel frattempo nel sottosopra (Main Room) sono le 3 e The Black Madonna sale sul palco: una presenza imponente che comincia a scaldarci con un mix di dance, house e momenti disco che ci incanta, e finalmente sentiamo qualcuno urlare, vediamo la gente ballare, siamo tutti presi bene, bisogna salire. EdoP dice “you better look good on the dancefloor”: sarà il motto di chiusura fino agli etnicismi dei Ninos Du Brasil, che dopo anni di Sala Red Bull ci riportano alle origini dell’esistenza umana, facendoci sentire nudi, in presenza di un rito propiziatorio di una qualche tribù lontana. Così si chiude potentemente la serata di venerdì.

Sabato è il giorno di Liberato. Per tutta la cena facciamo ipotesi su chi potrebbe presentarsi sul palco questa volta dopo aver assistito alla trollata di Calcutta, Izi, Priestess e Shablo al Mi Ami. PietroG dice che ci sarà Ghali, io scuoto la testa. Arrivati giusto in tempo al Lingotto, l’hype nell’aria diventa sempre più tangibile, la gente cancella tutte le app che ha sul telefono per lasciare spazio ai 200 video-scoop che manderà ai propri amici rimasti a casa. (Tommaso Tecchi)

Il sabato a Torino c’è il Balôn e con TT ci facciamo un salto. EdoP: non pervenuto. In teoria ci sono moltre altre cose in città questo weekend: tra la fiera d’arte di Artissima, quella di Paratissima e le varie mostre site-specific (vedi The Others o The Book of Art a Palazzo Cisterna), pullula di vernissage e gallerie aperte nel quartiere tra Piazza Vittorio e il parco del Valentino. Noi siamo fedeli alla linea: arriviamo in Borgo Dora che c’è un cielo grigio ghisa freddo e conosciuto. Allo Stallaggio del Leon D’Oro ci accolgono degli amici, poi ci si fa un té da Al, sotto casa. Ci sono arabi che giocano a carte e fumano narghilè. Uno di loro ci sente parlare e ci chiede cosa ne pensiamo dei Berlusconi e dei Renzi, dei Cinque Stelle. Ma oggi non ci vogliamo pensare e siamo già incredibilmente, dopo una cena frugale e del buon vino, nella metro per il Lingotto. (Pietro Giorgetti)

Sabato pomeriggio è una guerra tra me e il piumone, che mi tiene ancorato a letto. Gli arti sopravvissuti alla serata sono tipo anestetizzati e le uniche forze che mi restano sono quelle per strisciare fino in cucina, bere un sorso di succo ACE e masticare affannosamente due biscotti, per poi tornare in backwards nel letto. Poi, tardo pomeriggio le chiacchiere con gli amici e l’idea di andare a sentire i Jungle in apertura, si rivelano essere l’arma migliore contro la pigrizia. E non mi pento. (Edoardo Piron)

EdoP è l’unico coraggioso a presentarsi in tempo per l’apertura del sabato. I Jungle sono una band dannatamente divertente, tra funk, rock ed elettronica si salta per più di un’ora. Ma verso le 22.30 arriva il momento di Liberato: uno schermo circolare, due batterie elettroniche, qualche synth e un microfono; il fumo si alza e si presentano sul palco tre figure incappucciate à la Assassin’s Creed di cui non riusciamo minimamente a vedere il volto — ma il punto è proprio quello e lo capiamo presto. Siamo finalmente davanti al vero Liberato, una figura quasi mistica; c’è tanta tensione nell’aria (e pure telefoni, troppi telefoni). Il napoletano, inaspettatamente, tira fuori un concerto serio suonato dal vivo. Dopo un intro per prendere tempo canta tutti e tre i suoi singoli — Nove Maggio, Tu T’e Scurdat’ ‘e Me e Gaiola Portafortunaoltre ad un inedito, che mentre scriviamo ancora non è uscito ma ha già generato diverse cover e tributi. Pare si chiami Pecché Me Stai Appennen’ o qualcosa del genere, è più tamarro degli altri tre messi insieme (c’è forse Moroder di mezzo?) ma è un’altra bombetta.

È già il momento di Mura Masa che, fresco di uscita, propone pezzi del disco e fa tutto live. Sul palco anche da lontano si muove con leggerezza, ha un fare educato. Anche quando gli partono i drop. Peccato solo che il genere non sia esattamente pane per i nostri denti e che i brani dell’artista si basino su ospitate giganti che la cantante turnista non riesce a ricreare al meglio. Già meglio Richie Hawtin, che propone un live set tutto particolare: ci sono delle telecamere intorno a lui che riportano sullo schermo una foto del palco visto dall’alto, ma tutto fatto di punti. Vi lasciamo immaginare il trip.

Verso le 2 arriva la svolta della serata, EdoP è preoccupato che la musica in sala gialla non sia all’altezza delle sue cariche aspettative, ma TT lo rassicura: Jacques Greene, grazie ancora ai fantastici algoritmi di Spotify, l’ha ascoltato e garantisce per lui. Cinque minuti dopo ci ritroviamo in mezzo alla folla, felici come due bambini un po’ tardi. Chiamiamo subito PietroG e gli diciamo di lasciar perdere Mr. Techno e di correre qua. Rispetto al disco, i pezzi di Feel Infinite suonati live sono molto più sporchi e cattivi, ma sono eseguiti alla perfezione e sembrano arrangiati apposta per questa serata. Il resto lo fanno i bellissimi visual alle spalle del canadese. Siamo tutti d’accordo che questo è il Club To Club che ci serviva. Ci sentiamo come Rick Deckard, dei Blade Runner della notte. Ogni movimento intorno è sinuoso e tutti si sono uniti nella danza, ma non si rendono conto che la serata sta scorrendo già veloce verso i titoli di coda. Ci risvegliamo alla fine del set, quando PietroG si accorge e ci urla che qui il dj sta remixando White Ferrari del vecchio Frank e definitivamente il cerchio lo si chiude, si raggiunge la lucidità. Per dovere di cronaca ci giungono voci di un djset di Helena Hauff di altissimo livello, tra i migliori del festival.

Seduti sul fondo della main room, tra fumi color senape, distrattamente ci accorgiamo di una voce a noi molto familiare: dal nulla parte una versione sporcata da glitch e filtri de L’Ombra della Luce di Franco Battiato a cui segue, terminato il brano, un’intervista del maestro tra manicheismo e dualità della vita, da cui Nicolas Jaar estrapola una frase: io preferisco la luce al buio. Dopo questa meravigliosa immagine, rimangono su un loop ritmato solo quattro parole: la luce al buio alle quali si aggiunge lentamente una cassa dritta. E da lì un martello pneumatico arricchito dai bassi rotondi e oscuri inizia inesorabilmente a tirare giù l’intera sala, con una violenza che proprio non ci aspettavamo.

A sx: Gabber Eleganza; A dx: IL PRIVÉ

A qualche metro sta iniziando a suonare Lorenzo Senni e noi siamo costretti a sdoppiarci. Il romagnolo di casa Warp comprime i suoi suoni rave e porta nello spazio il suo pubblico, che non smette più di saltellare. EdoP è estasiato e continua a ripetere che il Lorenzo nazionale è uno dei migliori sulla scena…e mortacci di chi dice che non si può ballare. Chi non c’è non sa cosa si sta perdendo. Torniamo un attimo di là per vedere come procede l’infinita esibizione di Nicolas Jaar e ci accorgiamo subito che le cose non sono affatto cambiate: la gente inizia a crollare sotto i colpi del producer, molti ballano sconnessi, c’è uno stato di trance generale che accomuna incredibilmente chi è carico sotto cassa e chi sta iniziando ad accusare la stanchezza.

Le gambe iniziano a cedere, ma ci rialziamo giusto in tempo per percorrere per l’ultima volta il lungo corridoio del Lingotto: si conclude con Gabber Eleganza. Il progetto musicale, nato originariamente come blog, è un omaggio realistico e veritiero a come si è vissuta la tekno in Lombardia negli anni ’90. Noi eravamo troppo piccoli per saperlo, ma riusciamo comunque ad associarlo a qualcosa di familiare, TT ha nostalgia delle serate all’ormai tristemente defunto Velvet di Rimini. Ci sentiamo a casa. Tutta la sala canta un remix di Loser di Beck, saltando su 170 bpm sparati direttamente nelle orecchie. Sul palco c’è un’enorme bandiera giallo-nera con scritto Never Sleep a mo’ di logo della Bayer e loschi figuri rasati che ballano a petto nudo col sudore che gli cola sui tatuaggi. Alle 6 si riaccendono le luci e il mixer si spegne, ma Gabber Eleganza prosegue imperterrita.

Quello che accade dopo le 6 ci fa sentire dei rifiuti della società: la luce illumina persone che dormono per terra, il banchetto adibito al salvataggio dei tossici (noccioline, chewing gum e caramelle alla frutta gratis, cannucce per non sporcarsi il naso con le banconote, flyer informativi — perché tanto qualcuno ai cani antidroga sarà pur sfuggito, no?) chiude i battenti e la sicurezza inizia a cacciare via tutte le persone — comprese noi — che stanno temporeggiando. Il problema è che fuori è freddo e diluvia e la metro aprirà solo alle 7. Non c’è verso di restare dentro il Lingotto, dobbiamo andarcene e i volontari della croce rossa e dei vigili del fuoco ci guardano male fra uno sbadiglio e l’altro. Solo la tettoia di un centro commerciale riesce a ridarci un po’ di dignità in attesa di poter tornare a casa. Siamo a pezzi, ma siamo felici, soprattutto perché la stanchezza ci offusca la mente al punto da farci dimenticare che domani ci aspetta il viaggio di ritorno. (Tommaso Tecchi)

Dalle 3 alle 8 del mattino va in scena la mia epifania annuale, il rituale di chiusura del festival che mi rigenera l’animo e mi cuce le ferite dell’anno che muore. Il mio capodanno è il primo weekend di novembre ormai da quattro anni. Quest’anno lo faccio con tantissimi amici, mentre Lorenzo Senni ha abolito le batterie e fa musica supersonica e ci fa sentire orgogliosi, ci riempie di gioia; così come quando Jaar attacca il suo set alle quattro con un pezzo del Maestro (sullo stesso palco, due anni fa); così come quando Gabber Eleganza chiude la sala Red Bull con un techno-hardcore di altri tempi, skinhead e tempi impazziti, musica che è rumore, siamo veramente al delirio postmoderno, le luci si sono accese e l’impianto è spento, ma loro non si fermano, si dimenano, ci donano gli ultimi sprazzi di energia. Perché fuori piove a dirotto ed è arrivato finalmente l’autunno quello vero, perché la prima metro è alle 7 e EdoP, TT e i ragazzi sono tutti stanchi. Niente taxi no cash, bisogna aspettare. Anche se distrutti, cacciati malamente dalla sicurezza, sgomberati in quattro e quattr’otto, ci ripariamo sulle scale del centro commerciale mentre un’alba grigia sale e pulisce un po’ l’aria che respiriamo. Arrivati a Porta Nuova, i mercatini dei portici di Via Roma stanno per aprire. È domenica. Tra poco si riparte. E, nonostante si sia certi di tornare, c’è un filo di malinconia che sale. (Pietro Giorgetti)

Sono le 6 di mattina ed è tutto finito. La mia faccia si trasforma in un broncio, il broncio di chi non vorrebbe tornare a casa, sotto la pioggia, aspettando un’ora la metro, per ricordarsi che questa vita non è una vacanza, ma solo una corsa. Quello che resta si comprende soltanto il giorno dopo, in cui ci si rende conto della grandezza dell’evento di cui abbiamo fatto parte. Ci sentiamo degli eroi: mentre lentamente, torniamo tutti a casa, nel sottobosco dei nostri cervelli si può nitidamente sentire “We can be heroes, just for one day” ma a 170 BPM ovviamente. Grazie Club To Club, con affetto infinito, ci vediamo l’anno prossimo. (Edoardo Piron)

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