Il Club to Club scandisce il tempo che passa, però la musica rimane

Sono andato al Club to Club 2016 in veste ufficial-magnifica La Caduta style, ma ci sono andato coi miei amici perché ovviamente un po’ me la volevo spassare. Qua sotto ve ne racconto un po’, con un nuovo non-reportage

Pietro Giorgetti
La Caduta 2016–18

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Ho scoperto veramente Torino nei miei tardi diciott’anni e in questa città ho vissuto stabilmente per circa due anni, in cui, tra le tante cose che mi rimangono attaccate addosso delle piazze dei palazzi e di tutto il resto, i flash e i ricordi più vividi e forti si accompagnano e si legano a tutta la musica ascoltata in religioso silenzio o ballata a viva forza insieme agli altri. Lo spaesamento da grande città si sa che causa irrequietezza nel senso di movimento. Un movimento che a un certo punto mi porta al Club to Club, nel 2014, il mio primo Club to Club a Torino.

Non sono mai stato un real clubber, quello che va in discoteca il sabato, e alle serate, che conosce i dj, appassionato di boiler room e dj set, no, niente di tutto questo, almeno fino a due anni fa, almeno fino a che non ho scoperto Built On Glass di Chet Faker — con 1998 e Cigarettes & Loneliness che in certi giorni mi ritrovo a ballare sommessamente dentro casa, in un metro quadro, cercando di chiudere gli occhi per recuperare il ricordo del live di due anni fa, Hiroshima Mon Amour, una sera d’inizio novembre.

Nick Murphy aka Chet Faker

Quel concerto, vedere quel Chet Faker sul palco muoversi come se avesse avuto i mille tentacoli d’un polpo tra i macchinari e i synth e il piano elettrico fu davvero una bella botta, una bella virata verso nuovi suoni e sensazioni. Dopo di lui sono arrivati, di seguito, nella del tutto personale e slegata trinità, Jon Hopkins e Apparat.

Il Club to Club 2016 che è andato in scena dal 2 al 6 novembre scorso, per me si consuma nell’attimo di un vecchio rituale, quello che accade cadenzato e preciso in questo primo fine-settimana di novembre, quello che aspetto ogni anno sempre un po’ in una maniera inspiegabilmente concitata. Quest’anno con La Caduta ho la possibilità di partecipare documentando un po’ sul momento le serate di venerdì 4 e di sabato 5, e ora, con questo reportage cerco di riportarvi un po’, per chi ci è stato, alle due notti del Lingotto, e per chi non c’era, di raccontare quello che per me sono stati, anche per quest’anno, i nuovi suoni e sensazioni cui accennavo poco più sopra.

E’ così che sono già dentro cogli amici giusti, nell’aria grosse aspettative e voglia di sorprese perché siamo ancora con lo spirito allo splendido venerdì dello scorso anno con Jamie xx, ma senza giudizio ci guardiamo un po’ intorno: le persone che riempiono il Lingotto di anno in anno aumentano, e di anno in anno anche la venue cambia e si rinnova — ed è lo stesso Club to Club a giocare e a scegliere ogni anno un simbolo e un tema da dedicare a ogni edizione — con le tre stelle e il bianco e l’oro; mi sento che è importante essere qui e non altrove, che per questi giorni forse è solo qui che accade qualcosa di cui necessito. Ogni anno per me andare al Club to Club, coi miei amici e ballare, cosa che non ho mai fatto veramente in vita mia, mi ha dato da scoprire mano mano qualcosa di nuovo; cosa e come può agire la musica su di te, cosa ti provoca se reagisci al ritmo, se cerchi di seguirlo un po’ e di farlo tuo, se lo addomestichi, come diceva qualcuno.

Subito sul dancefloor, ci dirigiamo rapidi verso la fonte sonora e di calore dei corpi che si scaldano a ritmo, sul palco sappiamo di una vecchia conoscenza della santa trinità, Nick Murphy aka Chet Faker, uno degli ultimi nomi annunciati per il venerdì, che ha di recente deciso per il cambio di monicker e ha fatto uscire due canzoni che un po’ si discostano dalle sonorità di soli due anni fa. Comunque, l’australiano ci fa ballare e ci tiene alti, un set massivo e dritto, e comunque le gambe e i piedi van già da soli, mi guardo e tutt’intorno si balla, si sorride, la vita che scorre coi decibel che crescono e poi diminuiscono, con momenti di stacco e tensione a salire, Chet Faker suona per un’ora e mezza e, senza soluzione di continuità, dà il cambio rapido a Laurent Garnier, che per tre ore ci delizia col suo french touch e noi, comunque, imperterriti, siamo lì per ballare e stare insieme.

Anche quest’anno alla Sala della Red Bull Music Academy — che per tutti gli amici si chiama Sala Gialla — c’è gran calca per entrare, e la coda, e i buttafuori che fanno da buttadentro e controllano col contapersone le persone che scalpitano per entrare. Noi non ce la facciamo, di là sono saliti gli Autechre che hanno fatto calare il buio totale sul Lingotto e, dopo i tanti colori di Garnier ci fanno tornare un po’ mestamente a casa, un po’ col groppo in gola — e un po’ è un peccato abbandonare così presto.

Riposo rapido, sono già in piedi alle undici per godermi la città, perché poi è anche la cornice, il luogo che dà delle vie in cui muoverti e dei posti in cui andare. Il primo weekend novembrino, a Torino, ti propone, oltre al C2C, fiere d’arte e di fotografia e mostre — Artissima, Paratissima, The Others — che ovviamente non riesco a vedere, e così mi re-immergo nel Balon, come ogni sabato torinese che si rispetti, tra i deliri di Borgo Dora e gli odori e le luci e le facce della cara Piazza della Repubblica, col gran mercato di Porta Palazzo.

E’ così che cala già la sera e mi avvio nuovamente verso il Lingotto: mi sono preparato una session ben più folta ed essendo da solo mi spartisco un po’ tra Sala Gialla e la big venue del Lingotto. Dopo aver passato i controlli e i cani dell’antidroga che è la prima volta che noto e che incontro in tre anni che vengo — Ghali è appena salito sul palco. Ghali che conosco perchè l’ho consumato in questi mesi tra Torino e Milano ma che non ho mai visto dal vivo, e pur coinvolgendo e pur essendo un grand entreneur sul palco sembra un po’ dispersivo, con Chris Nolan che gli chiude le barre ma sempre con qualche stonatura che non riesco a non notare. Una venue forse troppo grande, ma forse neanche importa troppo, Ghali cerca di prendersi e conquistarsi tutti a suon di rime e barre — e così fa, almeno con me — ed è bello perché lui è un mix di mille influenze e provenienze e gioca molto con le parole e ovviamente prod. Charlie Charles, anche con l’ultimo singolo Ninna Nanna, anche dal vivo, ci prende particolarmente. Dico che con Ghali sto.

Ghali

Scorre così rapidamente, almeno per me, e entrano già un po’ di suoni orientali e melodiosi, carichi di energia, che riempiono e riscaldano subito l’atmosfera, sono i Junun, progetto musicale di Jonny Greenwood, Shye Ben Tzur e The Rajasthan Express; ma decido di sfruttare l’orario per provare a entrare e a sentire un po’ di sound underground della Sala Gialla, dove mi fermo per un po’, con Jessy Lanza che ci fa ballare sommessi e leggeri — spero che qualcuno si sia visto l’Instagram Stories de La Caduta per riportare alla mente i suoni gentili liquidi e delicati della ragazza che ci tiene così, senza filtri, floating in the space, per un’ora, giusto il tempo di dare il cambio a Daphni aka Caribou side project che, veramente, ha roventato la stanza facendo impazzire non poche persone dietro davanti intorno a noi, così che non abbiamo potuto far altro che buttarci anche noi nel delirio e scrollarci di dosso un po’ l’anno che muore e dimenticare per un attimo il freddo cane che è arrivato, il tempo che passa ecc; Daphni rimane un sogno che dura un’ora e mezza. Usciamo ancora con ‘sto delirio addosso e nel freddo del lungo corridoio del Lingotto, tra bodyguard, alcune facce da hall of shame, odore di redbull e sguardi alti, siamo in tre, acceleriamo continuamente il passo, in un attimo, passato il freddo del guardaroba, si rientra nella calca del Lingotto — DJ Shadow sta per finire, ma dò un occhio rapido ai visual, resto un attimo in ascolto e così ci riposiamo un po’ con lui che ci accompagna verso il momento di questo tanto atteso rush finale. Il rush finale consiste in due atti. Atto uno: chiamo così in scena l’ultimo della suddetta santissima trinità, Jon Hopkins, che ci intrattiene per un’ora e mezza che non vorremmo finisse mai, tanto ci tiene su e ci conquista con un set che, per uno che sui palchi del C2C ci passa saggiamente (e per fortuna) con discreta costanza, è meraviglioso e veramente senza pecche (quest’anno, più di tutto, ma già lo scorso anno, l’acustica mi è sembrata notevolmente migliorata, meglio così, ne gioiamo tutti).

Jon Hopkins

A chiudere le danze e a far calare lentamente il sipario di questo Club to Club 2016, il protagonista dell’atto due-finale di questa commedia sghemba è Motor City Drum Ensemble che ho imparato a conoscere e danzare in una stanza in questi ultimi tempi con questi amici giusti che sono ora qui con me, e così balliamo e Motor City sembra veramente la ciliegina sulla torta di questo tanto accorato e aspettato sabato torinese che si consuma come ogni anno rapido e inaspettato con i giusti ultimi sprazzi del rituale, con un chiamiamo un taxi che ce lo dividiamo, è domenica e la metro prima delle sette non apre, e aspettare il taxi, intrattenere l’autista che chiude il turno notturno con te e che è già quasi mattino e arrivati a casa ascoltare il silenzio e se all’orecchio riaffiora ancora l’eco dei suoni, ritrovare sensazioni, aspettando un nuovo anno, una Torino diversa ma un po’ sempre la stessa, è veramente il tempo che passa, ogni tanto, a ritmo: è la cassa.

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