Il fantasy storico secondo Del Toro

Riflettiamo sull’importanza degli elementi horror e fiabeschi nei film di Del Toro commentando tre delle sue pellicole più riuscite

Francesca Orestini
La Caduta 2016–18

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Ciò che è sicuramente interessante delle pellicole di Guillermo Del Toro è senza dubbio la volontà di rappresentare il legame tra la grande Storia e le storie secondarie che si svolgono al suo interno. La realtà storica oscura e straziata dalla guerra, perché sempre una guerra fa da sfondo in Del Toro, diventa indice di rappresentazione della violenza e della ferocia insite nell’ animo umano, insieme alla brama di giustizia, ad amore, affetto e libertà. C’è poi la realtà fiabesca, quella dei bambini, da sempre simbolicamente legata alla crescita e per questo contenente in sé difficoltà e violenza, mostri e sangue, ma soprattutto amicizia, speranza, possibilità di rivalsa. Tutto questo interessa quella poetica perfettamente riconoscibile in tutti i suoi lavori, che vedono un armonico equilibrio tra spettacolo e riflessione, sia sulla morte che sulla rinascita, mentre il realismo e la fantasia s’intrecciano nel flusso meccanico del tempo, in una continua celebrazione dell’imperfezione. Non fa eccezione il suo ultimo lavoro La forma dell’acqua, vincitore dell’Oscar come miglior film del 2018: una metafora della precarietà del nostro presente, che per lo spettatore rappresenta anche la possibilità di farsi trasportare dal fascino magnetico che da sempre la fiaba esercita nell’immaginario umano.

La forma dell’acqua

Lo si vede nell’iniziale isolamento in cui vessano i personaggi principali: Eliza, la giovane sordomuta la cui vita è racchiusa in una serie di azioni ripetitive e ordinarie; l’amico Giles, artista omosessuale la cui fragilità caratteriale gli impone l’isolamento tra le quattro mura del suo appartamento, e la collega Zelda, afroamericana dal carattere forte e leale: portatori di traumi e diversità che in un periodo di sospetto e paura psicotica, quello della Guerra Fredda, non fanno altro che attirare disprezzo e discriminazione. Creature relegate ai margini della società, le cui imperfezioni regalano una comprensione e visione diverse dell’esistenza, più intimistiche. Di questa profondità di significato si fa portatore l’amore che Eliza sente per la creatura acquatica, da sempre condiviso dal loro creatore. È evidente, infatti, come per Del Toro il mostro non sia necessariamente un personaggio totalmente positivo, in cui rifugiarsi per accantonare le proprie paure, ma esso offre la possibilità di viverle e affrontarle. Da qui scaturisce tutto il suo potere e l’importanza che costituisce nel confronto con la realtà.

Se si pensa ad esempio al film La spina del diavolo del 2001, ambientato in un orfanotrofio per bambini costretti alla solitudine dalla Guerra, rigettati dalla violenza del loro passato e la cui maledizione è consistita nel nascere in un determinato momento storico, è subito evidente la quantità di elementi che denunciano il trauma della guerra conclusasi con la vittoria del regime franchista nel 1939: una bomba inesplosa piantata al centro del cortile dell’istituto; la stessa direttrice Carmen, ex partigiana senza una gamba, simbolo chiaro di una Spagna dolorante e ferita ormai stanca e morente; Casares, compagno di Carmen durante la guerra civile, ormai vecchio ed impotente, raffigurazione di un ideale spezzato dalla portata distruttiva della sconfitta; Jacinto, giovane cresciuto in orfanotrofio dall’indole rabbiosa e violenta. Ed infine Santi, il fantasma di un bambino vittima di un brutale omicidio, simbolo dell’innocenza uccisa da una ferocia oscura e inimmaginabile, spettro che il giovane protagonista Carlos, abbandonato a tradimento dal suo tutore nell’istituto, vede palesarsi tra le mura malinconiche con un misto di terrore e fascinazione.

La spina del diavolo

L’immagine di Santi come fantasma dal volto deturpato da una eterna putrefazione, il cui corpo è stato gettato sul fondo di una cisterna nascosta sotto l’orfanotrofio, e il suo ricomparire ossessivo sono la forma che nella mente di un bambino assume la guerra, il trauma di una violenza dimenticata che grida nelle profondità nascoste della nazione. Non a caso infatti la prima volta che Carlos incontra il piccolo fantasma scappa e si rifugia in un ripostiglio, mentre il montaggio alternato ci mostra il vecchio Casares che, andato in paese per delle commissioni, assiste alla fucilazione di due repubblicani. Il fantasma e la guerra sono la medesima cosa, strumenti del terrore pronti a palesarsi di fronte all’uomo in tutta la loro mostruosità. Eppure Carlos non subisce da questa creatura solo la paura, ma anche una sorta di fascinazione che lo spinge a ricercarlo nella notte, e questo stato di attrazione/repulsione diventa il luogo di un’attesa, una sospensione latente metafora del momento psicologico che sta vivendo la Spagna traviata dalla lotta contro Franco, in attesa che si trovi il coraggio di affrontare il passato per andare incontro all’avvenire. Una volta scoperta la vera storia di Santi, Carlos riesce a comprenderne tutta la tristezza e l’orrore ed è libero di sfruttarlo come spinta per fuggire dall’orfanotrofio. In verità dunque, La spina del diavolo è una storia di formazione e di crescita, in cui il fantasma è l’elemento orrorifico e spaventoso, ma anche l’unico mezzo per arrivare ad affrontare i propri incubi e il trauma dell’abbandono, per andare verso un futuro che, seppur ignoto, è necessario raggiungere. Lo stesso processo di crescita coinvolge le dinamiche narrative del più celebre Il labirinto del fauno, soltanto che, invece di mantenere più spiccatamente gli elementi dell’horror, il campo narrativo con il quale il regista sceglie di confrontarsi è la fiaba.

Il labirinto del fauno

Strutturalmente connessa ai processi di crescita del bambino, è proprio nella fiaba che la piccola Ophelia, protagonista di questo sesto film di Del Toro, cerca rifugio dall’orrore di un presente, quello ancora una volta della dittatura franchista, che non le lascia possibilità di crescita. Strettamente legato allo studio di Vladimir Jakovlevič Propp, il celebre saggio Morfologia della fiaba, il viaggio della bambina è evidentemente un rito di iniziazione all’età adulta verso la conquista di un futuro migliore. Ophelia si rifugia nella sua fantasia per creare nuovi mondi a sostituzione dalle dolorose vicende familiari e dalle lacune affettive, quindi dalla inevitabile solitudine che ne deriva, affrontando così la paura del quotidiano, incarnato dalla minacciosa figura del patrigno, il capitano franchista Vidal, e attuando un processo di crescita autonomo. Il fauno che trova nel labirinto, la creatura fiabesca che le prospetta la speranza di accedere ad un mondo migliore tramite il superamento di tre prove, non è altri che il dio Pan, divinità di origine ellenica, che in questo film assurge a incarnazione della leggenda stessa, diventando personificazione del potere affascinante e ambiguo che risiede nella mostruosità e nella diversità. Alla piccola Ophelia Pan dona uno strumento capace di aiutarla a risolvere le tre fatidiche prove: un libro dalle pagine bianche, vera metafora del potere individuale di creazione. É dunque la piccola Ophelia, con la sua determinazione e forza d’immaginazione e creatività, a dover costruire pagina dopo pagina il suo avvenire.

Creatività come metafora di ribellione giovanile alla malvagità e furia distruttiva di cui si vede circondata, affiancata metaforicamente alla lotta della resistenza spagnola al consolidato potere totalitario, incarnato in questa pellicola in maniera quanto mai estrema nella figura del capitano Vidal, convinto fascista e sostenitore della repressione violenta contro qualsiasi forma di rinascita. Come Jacinto, l’orfano cresciuto nell’istituto de La spina del diavolo, che trasforma la sua brama di rivalsa nella ferocia del suo risentimento, o come il colonnello Strickland in La forma dell’acqua, raffigurazione dell’affermazione della volontà di omologazione e conformismo al perbenismo americano in risposta alle paure psicotiche nel periodo della Guerra Fredda. Infatti, quando nell’ultima parte del film, il Fauno le ordinerà di sacrificare il fratellastro appena nato, Ophelia, pur di non spargere del sangue innocente, rinnegherà il futuro prospettatole dalla creatura. Ma la ricompensa per lei arriva esattamente nel momento in cui, dopo essere stata colpita a morte da Vidal, la sua immaginazione si libra alta, oltre il limite oscuro della morte, trasportandola in quel regno fatato di cui sarebbe diventata principessa. La morte come totale rinascita e definitivo accesso all’avvenire, che, anche se illusorio, diventa l’unico vero obiettivo da perseguire tramite la nostra forza individuale di creazione, pena la totale caduta nell’oblio. Evidente il messaggio simile nel finale di La forma dell’acqua, dove Eliza, colpita a morte da Strickland, viene trasportata dalla creatura nel mare e lì rinasce grazie al potere salvifico della fiaba e del suo amore.

Se da un lato nelle pellicole di Del Toro è ben evidente come l’umanità nel corso della storia si sia macchiata e continui a sporcarsi di violenze, atrocità omicidi, ingiustizie, distruzione, è altrettanto visibile come non sia possibile ridurla a tutto questo. Se da una parte continua il pericolo dell’imposizione di una natura distruttiva e malvagia, la natura umana ricerca anche l’alternativa, la salvezza e la rinascita grazie alla capacità di sentimenti quali l’amore, l’amicizia, la giustizia. Per questo nella sua poetica ritroviamo continuamente la lotta eterna tra Bene e Male, giudizi costanti nella revisione della Storia umana, ma è altrettanto vero che la sua poetica, sempre in bilico tra spietato realismo e anelito alla fiaba e al sogno, crea una sorta di terra di mezzo, un limbo sospeso formato da tutte le varie sfaccettature dell’animo umano. Un universo altro, diverso, in cui gli stessi concetti di bene e male, giusto o sbagliato, buono o cattivo, vengono sfumati e sorpassati in un moto centrifugo e per nulla lineare, ricettacolo di azioni, passioni, ideali, malvagità, atrocità.

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