Il nuovo God of War è un viaggio alla ricerca della redenzione

Kratos inizia una nuova avventura alla scoperta della mitologia nordica e del significato di essere padre.

Luca Giovagnola
La Caduta 2016–18

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Il 20 aprile 2018 è uscito il nuovo episodio della saga di God of War. Tanti sono i cambiamenti rispetto ai precedenti capitoli: partiamo dal rinnovato e maestoso comparto grafico; dalla diminuzione del numero delle armi presenti (è vero il loro numero è ridottissimo, ma ora ognuna ha maggiori funzionalità); a una telecamera perennemente puntata dietro il protagonista; a una longevità che supera abbondantemente le venti ore; e, sorpresa delle sorprese, alla presenza di Atreus, il figlio di Kratos, come spalla per l’intero sviluppo dell’avventura.

Il nuovo God of War, come in quei film dove l’ultimo fotogramma è seguito dalla scritta “qualche anno dopo…”, sembra voler ripartire dall’ultima scena di GoW III ma vestendo i panni del reboot (dal punto di vista strutturale e delle meccaniche) che prosegue la storia immergendosi nella mitologia nordica. Una delle primissime scene che vediamo è lo svolgimento del funerale della moglie di Kratos (no, sembra non averla ammazzata lui stavolta) con la torcia posta al fianco del capezzale che illumina la cicatrice sul ventre dello spartano. Un triste incipit che funge da scintilla narrativa e configura la trama come un viaggio che ha inizio proprio con questo lutto: scopo del gioco, infatti, è quello di spargere le ceneri sulla cima della montagna più alta dei Nove Regni. Questo li porterà a vagare fra i nove mondi che coesistono attorno al tronco dell’albero della vita della mitologia nordica (chiamato Yggdrasil) e che sono collegati tra di essi da un fiume.

Chiunque abbia giocato i precedenti episodi della saga conosce il grado di follia di Kratos; soprattutto agli esordi della serie dove, per creare un personaggio coerente e col quale fosse facile far empatizzare un pubblico giovane, veniva tratteggiato come una figura spigolosa e macchiettistica. Ma ormai sono passati quasi tredici anni dall’uscita del primo capitolo e, nel corso di tutto questo tempo, non solo la fan base è andata espandendosi ma è anche cresciuta anagraficamente. E così come i giocatori sono passati dall’essere giovani ribelli ad adulti più maturi, Kratos è diventato un uomo con maggiore esperienza, più riflessivo e pacato.

Con l’uccisione di Zeus Kratos è arrivato all’apice del suo essere un dio furente e vendicativo, ma quando la sua vendetta ha terminato di bruciare tutto non è rimasto più niente. E come nella realtà di tutti i giorni sono i personaggi più estremi, coloro che la maggior parte delle volte rischiano troppo e perdono moltissimo, quelli che ci piacciono di più. Così Kratos è diventato un personaggio bidimensionale focalizzato sulla rabbia, il cui destino non poteva che essere quello di perdere tutto. Ma una volta sopraggiunta la desolazione è impossibile ricominciare il processo distruttivo da zero senza essere ripetitivi, perciò si è reso necessario (ri)creare un personaggio che avesse interiorizzato la lezione dettata dall’esperienza e che in base a questa riuscisse a cambiare il proprio destino. Il “nuovo” Kratos è sì un personaggio che guarda al passato, spaventato dalla furia omicida di cui è capace e allo stesso tempo consapevole di non poter rimediare ai errori del passato, ma è anche convinto di poter offrire al figlio una possibilità per diventare migliore di lui. Questo nuovo sentimento, insieme agli obblighi paterni, lo spingeranno a proteggere costantemente Atreus ma anche a redimersi dal proprio passato violento nel tentativo di creare un futuro diverso.

Oltre allo straordinario livello artistico raggiunto, uno degli elementi più riusciti è senz’altro la particolare cura rivolta ai dialoghi. La maggior parte di essi, infatti, sono veri e propri monologhi, fiumi di parole pronunciati da Atreus. Domande, frasi, esclamazioni: tutto viene registrato dal padre, che per la maggior parte delle volte non risponde se non attraverso la mimica facciale. Scopriamo fin da subito che Atreus non conosce il passato del padre, scoprirà la verità solo una volta che il gioco si sarà avviato verso la fine, cionondimeno da parte sua non verrà mai a mancare l’affetto nei suoi confronti, anzi più di una volta si preoccuperà per le tendenze quasi autodistruttive dimostrate dal padre (cfr. scena in cui Kratos entra nel raggio di luce alla ricerca della madre e riesce a uscirne, quindi a salvarsi, solo grazie all’intervento del figlio).

Atreus è un bambino debole e malaticcio, che per sua stessa ammissione necessita delle cure del padre, il quale è preoccupato per i pericoli che implica essere Kratos (con tutte le relative disavventure che ne seguono) e per il fatto che il figlio sia ancora così giovane e inesperto. Tutto questo risulta paradossale data la forza di Kratos e visto che il figlio è letteralmente parte integrante del gameplay: Atreus, infatti, è in possesso di un arco che si comporta come un’arma a distanza in possesso di Kratos, facendo dei due un tutt’uno per tutta la durata del gioco. Anche per questo è difficile considerare Atreus come un semplice personaggio secondario, ma è più un vero e proprio protagonista che accompagna e fa da contraltare a Kratos man mano che la storia avanza portandolo a superare delle sfide che lo rendono più sicuro di sé. Il “building romance” dei due personaggi inizia fin dalle prime scene di gioco, dove alla fine della battuta di caccia Kratos, stringendo le sue dita intorno a quelle di Atreus, accompagna il coltello che il figlio tiene fra le mani per trafiggere il cuore del cervo abbattuto. Proprio perché il Fantasma di Sparta è alla ricerca di una forma di redenzione, è importante per lui insegnare al figlio che nella vita è necessario lottare ma non per questo bisogna diventare dei mostri spietati: “We are the gods we chose to be”, afferma in un importante dialogo.

Potremmo considerare questa storia contrapposta a quella di Baldur e Freya. Per farla breve: Freya nella mitologia norrena è l’equivalente di Venere per la mitologia romana e, nell’interpretazione adottata dagli sviluppatori, avrebbe reso, attraverso un sortilegio, il figlio Baldur (figlio nel videogioco ma non nella letteratura) immune a qualsiasi oggetto o sostanza presente nell’orbe terraqueo. Di conseguenza, un pugno o una montagna per Baldur diventano oggetti inoffensivi che gli scivolano addosso. Questo aspetto è reso nel gioco con un Baldur che lamenta verso la madre il fatto di averlo reso immune a qualsiasi dolore ma anche a qualsiasi piacere, di averlo reso incapace di morire ma anche insensibile a tutto. Intrappolato in questa esistenza asettica Baldur è alla ricerca di un modo per tornare a vivere o riuscire a morire. Dietro l’ossessione di Baldur per lo spartano s’intuisce lo zampino di Odino, il quale gli suggerisce di provocarlo visto che quest’ultimo sembra avere uno straordinario talento nell’uccidere gli dei. Baldur, di conseguenza, perseguiterà Kratos per tutta l’avventura nel tentativo di provocarlo e trovare finalmente qualcuno capace di ucciderlo. Arriverà perfino, in preda a una disperazione lancinante, a tentare di uccidere la responsbile della sua condizione: la detestata madre.
Tuttavia non è possibile paragonare Kratos e Atreus con Freya e Baldur: da una parte c’è un rapporto vivo e in continua evoluzione, dall’altra ci sono solo rimpianto e odio cieco. L’impossibilità per Baldur di morire è un pretesto per mettere Kratos contro una sorta di sé precedente: una divinità accecata dal proprio egoismo e dalle proprie tragedie, che non vuole sentire ragioni e non ha nemmeno il coraggio di uccidere la madre che dice di odiare così profondamente.

Al di là degli sperticati elogi o delle critiche negative rivolte a determinati aspetti, possiamo affermare che alcuni degli aspetti per cui questo titolo ha destato così tanto interesse ed entusiasmo riguardano l’umanità e la sensibilità finora mai così presenti e importanti. Perché grazie a questo titolo, che potrebbe essere il canto del cigno della vicenda di Kratos, tutti possiamo provare a capire l’odio provato da Baldur nei confronti della madre, ma è solo nelle espressioni e nei modi di fare di Kratos che percepiamo così forte tutta la fragilità umana che ci accomuna e che in buona analisi porta questo titolo a ricordarci quanto siamo umani.

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