Il peso dell’Identità: sull’importanza di Persona 5 e il suo riflesso della società
L’Ego che si annulla nella Società, la sua riscoperta ma non i rischi che nascono nel mostrare la nostra vera natura al mondo. Questo è Persona 5.
Il 4 aprile 2017 venne rilasciato in worldwide Persona 5, dopo oltre 7 mesi dal rilascio nel Sol Levante. Anche in Occidente il successo del titolo è stato stellare, surclassando qualunque standard sia di vendite che di qualità non solo rispetto ai suoi predecessori, ma anche agli altri titoli della casa madre Atlus, imponendosi come il titolo più popolare — perfino nei confronti della sua saga originale, quel pregiatissimo Shin Megami Tensei di cui Persona era partito come mero spin-off.
Probabilmente il successo di Persona 5 è dovuto al suo tempismo impeccabile essendo uscito in un clima sociale in cui gli elementi più superficiali della cultura giapponese sono stati divulgati e assimilati da milioni di fruitori nel mondo. L’intero contesto del titolo è dunque riuscito ad attirare una grossa fetta di pubblico sia tra i videogiocatori (consci o resosi conto della storica solidità come J-RPG del titolo), sia tra i fan degli anime o più generalmente del Giappone attratti dal setting esotico e parecchio fedele alla topografia di Tokyo.
Risulta forse questo l’aspetto più particolare della serie dei Persona: la capacità di immergere il giocatore in una realtà giapponese non tanto reale, quanto idilliaca e compiacente, che coccola la fantasia degli amanti del Sol Levante con tutti i tropi e gli stereotipi dell’immaginario collettivo. Ma, a mio modestissimo parere, Persona 5 ha voluto prendere le distanze da questa idea sublimata sottolineando più volte la crudezza della realtà della società moderna giapponese, senza interrompere la sospensione dell’incredulità del giocatore ma suggerendogli inconsciamente e con fare sagace che forse i cosiddetti “weeaboo” dovrebbero far attenzione a ciò che desiderano. Perché la società riflessa dallo specchio di Persona 5 è tra le più terrificanti e distruttive per un uomo moderno.
“Please, don’t Take off my Mask”
Il titolo “Persona” si rifà al concetto di “Persona” (la maschera del teatro latino utilizzata dagli attori) coniato dallo psicologo tedesco Carl Jung: essa è una maschera comportamentale che ogni individuo indossa per comparire e recitare una parte all’interno della società e nelle sue relazioni sociali più superficiali. Esistono più Personae a seconda del ruolo che si vuole o si deve ricoprire, ma non sempre ciò è un bene per l’individuo. Infatti, la Persona nasconde la vera natura dell’individuo, limitando ad esempio le azioni, le pulsioni o più semplicemente i pensieri che qualcuno può provare in un determinato contesto sociale ma che non può esternare per non infrangere il quieto vivere. Dalla frustrazione di non essere se stessi e dalla perdita della propria natura che si miscela alle nostre Personae nascono la maggior parte delle patologie psicologiche e nevrosi dell’uomo.
Nella serie videoludica, i Persona non sono altro che la manifestazione metafisica della natura e del potere insito nei protagonisti che risvegliano dopo essersi scontrati con le proprie paure e pensieri più nascosti e oscuri. Ogni episodio affronta e riformula a suo modo questo concetto: come ad esempio su Persona 4, dove i protagonisti devono prima accettare la propria Ombra (una versione che incarna la parte peggiore di noi stessi).
L’accettazione di se stessi e della propria natura rimane però un elemento cardine di tutta la serie sia per i membri del party, che risvegliano Persona sempre più potenti man mano che scendono in intimità col Protagonista e a patti con le proprie debolezze, sia per i personaggi comprimari che, aiutati dal Main Character, riescono a superare i propri drammi e a cambiare radicalmente la propria esistenza in meglio mantenendo intatta la propria identità. In sostanza, Persona rappresenta in modo tangibile il cliché del “potere dell’amicizia”, fortificando chiunque stringa un legame saldo con i videogiocatori e il loro alter-ego, il muto Main Character senza nome. Un ottimo modo per caratterizzare personaggi interessantissimi e allo stesso tempo potenziare il personaggio di un J-RPG.
Se l’aspetto delle relazioni sociali e della scoperta di sé rimane pressoché invariato in Persona 5 sia nel gameplay che nello svolgimento della caratterizzazione, è nella trama e nel contesto del gioco che troviamo i maggiori cambiamenti: impersoneremo infatti un minore che, per aver preso le difese di una donna aggredita da un apparentemente comune ubriacone, verrà accusato di aggressione e condannato alla libertà vigilata; costretto a trasferirsi a Tokyo verrà posto sotto stretta osservazione da parte del suo tutore, delle autorità scolastiche e civili e obbligato a un’esistenza parecchio costrittiva. Molti dei personaggi di Persona 5 sono uomini di legge (o hanno a che fare con essa) e molti sono i dialoghi che vogliono far luce su alcuni dei meccanismi del sistema giudiziario giapponese, come ad esempio la quasi totale assenza di possibilità di vittoria della Difesa e lo smisurato potere che procuratori distrettuali e politici detengono sul fato sociale dei loro concittadini.
Il Protagonista diventa quindi il rappresentante di tutte quelle persone che, colpevoli o innocenti, sono state accusate di qualcosa e devono dunque portare lo stigma della condanna giudiziaria, incapaci di sciacquarsi via l’onta di esser un criminale agli occhi degli altri cittadini. Per la società giapponese di Persona 5, chiunque infranga le regole anche solo una volta, anche solo in tenera età o anche solo in buona fede, è considerato un outsider. Qualcuno da ostracizzare e limitare in ogni modo possibile senza possibilità di redenzione, qualunque “maschera” possa indossare per celare la propria identità.
“Wake Up, Get Up, Get out There”
Tutti i membri del party di Persona 5 sono, in qualche modo, degli emarginati per i più vari e personali motivi. Abbiamo ad esempio Ann, una delle prime comprimarie e compagne d’avventura, che è sempre stata isolata dai suoi compagni di classe perché in parte straniera e perché ritenuta una “ragazza facile”, quindi portatrice di guai e da evitare. Di stampo molto simile è Ryuji, classico ribelle ossigenato con un background di abusi, sofferenza e scontri con le autorità scolastiche, che ricorda alla lontana lo strabiliante personaggio di Eikichi Onizuka, protagonista di GTO e anch’egli portatore di un grande spirito di rivoluzione e critica contro la rigida e spietata società giapponese. Dall’altra parte abbiamo invece Makoto, la classica ragazza di buona famiglia che eccelle in ogni materia scolastica e aspetto della società, con una facoltosa carriera come avvocato davanti a sé. Priva all’apparenza di qualunque ombra o lato negativo, se non per la costante solitudine e inadeguatezza nei confronti di questa vita subita passivamente alla quale reagisce con un comportamento servile verso gli adulti e altezzoso verso i suoi coetanei. Tutti individui che, mancando di amici/compagni con cui condividere la propria natura, non hanno modo di risplendere di luce propria.
In soccorso di questi personaggi e del Protagonista vi è la scoperta del Metaverse, una sorta di realtà metafisica in cui l’inconscio delle persone più abbiette prende la forma di Palazzi che celebrano la loro immagine e posizione sociale sorvegliati dalle Ombre, creature della mitologia e della fantasia dell’Umanità generate anch’esse inconsciamente dalla frustrazione della società. Dentro ai Palazzi vi sono i Cuori, i desideri più segreti e l’origine del comportamento di ognuno di questi “criminali”. All’inizio del gioco si scoprirà che rubando i Cuori di questi individui nel Metaverse si potrà cambiare la loro personalità nella realtà fisica, facendoli ad esempio confessare ogni crimine che hanno compiuto. Così il Protagonista e i suoi comprimari formeranno i Phantom Thieves, utilizzando il potere dei propri Persona per cambiare i cuori dei terribili criminali che incontreranno lungo il loro cammino. Una nobile premessa e un altrettanto nobile ideale che danno inizio a un’avventura eccitante piena di humor, gameplay coinvolgente e design sopra le righe. Ma non tutto è davvero così tanto rose e fiori.
Alla stessa maniera in cui critica la società giapponese e la sua repressione dell’Ego dei suoi membri, Persona 5 critica anche coloro che si bagnano completamente nella propria identità, che si elevano rispetto ai comuni cittadini frustrati e castrati dal mondo e che si prestano alla crociata in nome di una “società più giusta” che possa soddisfare e perseguire i bisogni e la natura degli uomini… e non il contrario. È una critica molto più sottile e nascosta che prende forma specialmente nel finale rispetto a quella più aperta e popolare che caratterizza l’intera premessa di gioco, ma è comunque presente, e la sua presenza riverbera come un’eco in numerosi momenti dell’avventura.
“Freedom And Security”
I vari villain sono l’esempio più esplicito di questa critica alla megalomania: individui che si nascondono alla società dietro una maschera convincente e piacevole, per poi utilizzare le proprie capacità e poteri solo per portare avanti i propri distorti, dannosi, desideri. Subito il gioco e i suoi personaggi ce li descrivono come dei veri e propri lupi travestiti da agnelli che possono venir sconfitti solo nel proprio Palazzo e con l’utilizzo dei Persona. I dialoghi, le dimostrazioni d’ingiustizie, la soundtrack del giorno del colpo fanno di tutto per coinvolgerci emotivamente nel combattimento, per farci desiderare ardentemente di smascherare quell’abietto e dunque portare “giustizia” nella società. Ma in fin dei conti, cosa stiamo facendo assieme ai Phantom Thieves? Stiamo costringendo una persona a cambiare personalità e desideri con un metodo subdolo e irrintracciabile: anche se a fin di bene è pur sempre una coercizione. L’ottimo personaggio di Goro Akechi, una sorta di rivale e compagno dei Phantom Thieves, evidenzierà molto questa fallacia dei ladri di cuori.
Sempre Goro identifica i Phantom Thieves come dei semplici ragazzini che si ritrovano tra le mani il potere di traviare completamente i desideri e il comportamento di altri esseri umani. E perfino i protagonisti, in fondo, si rendono conto dei pericoli e delle responsabilità che questo potere comporta, decidendo così di ponderare attentamente i target dei propri colpi, votando all’unanimità l’approvazione di ogni mossa nel Metaverse. Col tempo, però, la loro fama li precederà e diverranno i beniamini dell’Internet, il quale, come una sorta di coscienza collettiva, decreterà chi è meritevole di pietà e chi invece ha bisogno di un furto del cuore da parte dei Phantom Thieves.
Quando infatti non saremo impegnati a cambiare il Cuore dei pericolosi individui che minacciano l’incolumità dei vari membri del gruppo e rendono più iniqua questa società, ci addentreremo nei Mementos, una vera e propria forma metafisica dell’inconscio dell’intera società in cui si nascondono le personalità di criminali minori o semplicemente di persone “malvagie”. Ovviamente saranno gli utenti del Phan-Site, il sito del fandom dei Phantom Thieves, a decidere chi colpire con una votazione online, andando ancor di più a sottolineare quanto l’ideale dei Phantom Thieves possa esser corrotto dall’insensatezza e l’emotività di un Ego senza costrizioni (rappresentato dai migliaia di utenti senza volto del Phan-Site, i classici leoni da tastiera dei giorni nostri che non riescono a processare tutto ciò che scrivono su Internet in preda ai loro sentimenti). Senza spoilerare, questo ragionamento verrà applicato anche a qualcosa di molto più grande e complesso, sottolineando quanto spesso la Società non sia altro che un organismo cosciente e autosufficiente che ha bisogno di esseri umani frustrati e privi d’identità per funzionare e salvarci dal Caos dello Stato di Natura.
Vi è dunque una sorta di conflitto paradossale tra la Società, che pur di rimanere integra è costretta a distruggere emotivamente gli Esseri umani e a limitare il loro desiderio di essere se stessi con modi a dir poco barbarici, e gli stessi Uomini, che invece rischiano di danneggiare loro stessi, i prossimi e il loro ambiente sociale se decidono di abbandonare completamente l’idea delle Personae e lasciano il proprio Ego libero da catene inglobando ogni cosa e inseguendo i propri desideri come delle bestie. Al centro di questo conflitto vi è un gruppo di ragazzini col potere di cancellare la stessa struttura della società, e forse anche loro stessi.
“Our Beginning”
Quando ancora non possedevo una PS4 e sognavo di giocare a Persona 5 ero certo di sapere a cosa sarei andato incontro: uno dei titoli più catchy, stilosi e forse più ricolmo di fanservice di questa generazione, di una saga che stavo pian piano imparando a conoscere ed amare. Pensavo di buttarci un centinaio di ore e che poi sarebbe finita lì, con uno spiccato senso di vuotezza dentro le vene che sarebbe risalito durante i titoli di coda. Mi aspettavo, insomma, un classico Persona. Ma mai mi sarei aspettato una riflessione così profonda sul delicato equilibrio tra l’essere membri di una società e l’essere se stessi, con tutti i termini d’accettazione che entrambi comportano. Mai mi sarei aspettato che mi avrebbe assillato così tanto, per così tanto tempo.
Più continuavo l’avventura e più i protagonisti, quei tanto carismatici e affascinanti Phantom Thieves dal fare e dall’ideologia tipicamente eroica, mi sembravano anch’essi responsabili di ogni problema che accadeva nel gioco. E ciò che mi ha spaventato di più è che, andando avanti, essi rendevano conto dei propri sbagli e dell’eccesso delle loro azioni. Proclamandosi paladini della giustizia e della società e sfruttando il loro potere per “il bene di tutti” non sembravano tanto diversi dai criminali che affrontavano. Persone prive di Personae che volevano plasmare la società con le proprie mani ed i propri ideali. Perché, sinceramente, chi è che se avesse l’opportunità di cambiare il cuore e il comportamento di una persona senza venir scoperto, non lo farebbe? Chi, se avesse la possibilità di cambiare in meglio la società secondo le proprie visioni, non ci proverebbe? Ed è anche questo ciò che volevo io. Per questo continuavo a giocare, a stringere legami sempre più forti per fortificare il mio Protagonista; a stravolgere le menti dei cattivi che reputavo fossero tali: per cambiare una società che mi sembrava ingiusta, senza però accorgermi che mi stavo comportando allo stesso modo dei criminali e della Società, finché il gioco non me lo ha sbattuto in faccia. Una power-fantasy mai sperimentata prima, qualcosa di più di un semplice svago o di una piccola fuga dalla realtà come tanti altri videogiochi che ho provato.
Ciò che amo di questo titolo (e odio parlare in prima persona ma non posso esimermi dal parlare di questo titolo senza inserire i miei sentimenti) è che tutto questo può essere ignorato. Persona 5 non richiede tutti questi ragionamenti per esser goduto, non impone che ogni suo fruitore si domandi se i Phantom Thieves siano davvero responsabili delle proprie azioni, se la società moderna sia davvero così distruttiva ma necessaria, se, insomma, ciò che il giocatore fa sia giusto o sbagliato. Può esser giocato come un qualsiasi dungeon crawler skippando ogni dialogo, può esser giocato come un qualsiasi dating sim/time management senza che qualcuno ti dica che stai sbagliando. Per questo motivo il finale di Persona 5, nella sua semplicità e forse nella sua banalità, mi ha completamente distrutto e ricostruito.
Non c’è una via giusta o una via sbagliata, una verità assoluta o una falsità totale. Ciò che decidiamo è ciò che è, ciò che desideriamo diventa la nostra realtà. Ma dobbiamo esser pronti ad accettare tutte le conseguenze di questa considerazione e, dal momento che viviamo assieme ad altri esseri umani, dobbiamo cercare di rispettare anche i loro desideri.
“What each person sees and feels: those are what shape Reality”