“Eruzione del Vesuvio”, Sebastian Pether (1825)

Into the Inferno: il sublime infernale di Herzog e Oppenheimer

Herzog mescola vulcanologia e antropologia (e un po’ di romanticismo) per raccontare le storie di alcuni dei vulcani più pericolosi del pianeta e delle comunità alle loro pendici

Michele Bellantuono
La Caduta 2016–18
13 min readNov 17, 2016

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«Sono l’unico regista clinicamente sano di mente» afferma con il solito equilibrato humour teutonico il regista Werner Herzog, rispondendo a coloro che lo accusano di essere un uomo spericolato, privo di senso del limite. Herzog si difende attribuendo la ragione della sua presunta temerarietà (in realtà persino i suoi collaboratori lo definiscono un uomo estremamente attento ai rischi, che la professione di documentarista “estremo” può comportare) ad una forma particolarmente intensa di curiosità, che da sempre lo ha spinto a voler indagare attraverso l’arte cinematografica luoghi selvaggi e gli abitanti dei luoghi più remoti della Terra, personaggi emarginati, “diversi”. In questa diversità, che potremmo identificare come eccentricità, il regista bavarese coglie una speciale pregnanza: affascinato da questi personaggi, Herzog li spinge a raccontarsi davanti ad una ravvicinata cinepresa, dimostrando un profondo rispetto per il mistero che spesso circonda la vita di questi uomini e donne. Un celebre esempio è fornito dal racconto di Grizzly man, documentario incentrato sulla vita di Timothy Treadwell, fanatico ambientalista che decise di vivere per mesi tra gli orsi dell’Alaska, cercando di capirne i comportamenti e trattandoli come esseri umani. Un uomo che ha scelto di dedicare ossessivamente la propria vita a questi animali, senza un obiettivo quale la ricerca scientifica, quanto piuttosto inseguendo un proprio, misterioso e vincolante sogno che, in questo caso, si rivelerà fatale: un tipico “eroe” herzogiano dunque.

Ma non è necessario possedere l’eccentrica personalità e la follia di un Aguirre o un Fitzcarraldo (protagonisti di due ambiziosi capolavori non-documentaristici di Herzog) per suscitare l’interesse del regista. Ogni individuo che sceglie di fare (chi più chi meno ossessivamente) del proprio lavoro la sola ragione di vita ha il potere di affascinare Herzog, come dimostra la sua filmografia (basti pensare allo stretto contatto che il regista instaura con gli specialisti della remota stazione McMurdo in Antartica, ripresi in Incontri alla fine del mondo). Non ci sorprende dunque scoprire quanto il regista sia attratto dagli scienziati. Sorta di sacerdoti capaci di interpretare i segni occulti del mondo e di studiarne le meraviglie (azzardando una definizione herzogiana), gli scienziati sono coloro che hanno i mezzi e le conoscenze per affrontare il grande mistero della natura, caratteristica che li rende vicini a questo regista insaziabilmente curioso, alla sua sensibilità nei confronti del pianeta e della vita in ogni sua forma, confermata da una sua dichiarazione esemplare: «Io sono innamorato del mondo, mi sveglio e sono innamorato del mondo» (1)

Un amore che traspare da molte sue pellicole, ma che naturalmente si evince in primo luogo dai suoi ambiziosi documentari, nei quali la natura è peculiarmente narrata con accostamenti poetici che ne mettono in risalto un lato segreto, misticheggiante, che potremmo definire mitologico, aggiungendo alla magnificenza delle immagini (le vaste distese di ghiaccio del Polo Sud raccontate in Incontri alla fine del mondo o lo scenario dei pozzi petroliferi in fiamme nel Kuwait post-guerra del Golfo in Apocalisse nel deserto) una narrazione che aiuta lo spettatore ad entrare in una prospettiva insolita, attraverso la quale riscoprire tali scenari. Mettendosi, ad esempio, nei panni di un alieno in visita sul nostro pianeta. Un’operazione un po’ assurda e visivamente estraniante, tipica di Herzog; il migliore esempio è costituito da The Wild Blue Yonder, film di fantascienza sperimentale che utilizza filmati realizzati da sub sulla Terra (e a bordo dello Shuttle) per rappresentare un presunto mondo alieno.

Katia Krafft a pochi passi da un letale fiume di lava. Vulcanologa francese, assieme al marito Maurice (anche lui studioso di vulcani) rimase uccisa da una colata piroclastica sul vulcano Unzen, in Giappone. I due erano noti nella comunità scientifica per la temerarietà dimostrata nel voler esaminare e immortalare pericolosi fenomeni vulcanici avvicinandosi oltre le soglie di sicurezza. Come Treadwell, tipiche figure herzogiane: uomini ossessionati dalla propria passione al punto di mettere a rischio la propria vita

Da un regista dalla mentalità così aperta, appassionato di scienza ma aperto alle suggestioni della superstizione e della mistica, non ci si può mai aspettare un documentario sterile e didascalico (Herzog con orgoglio misto a ironia garantisce che quello che mostra nel suo film non sarebbe presente in nessun documentario della National Geographic!). La calma voce narrante di Herzog ci accompagna in viaggi che affrontano gli spazi geografici del pianeta tanto quanto la sfera dell’interiorità, portandoci a stretto contatto con ambienti remoti ma soprattutto con i loro abitanti, i curiosi racconti dei quali occupano la parte più importante di ogni narrazione. Si ha dunque la sensazione che il regista stia tentando più di una semplice esplorazione spaziale (in questo senso si crea un abisso tra queste opere e le forme tradizionali del documentario), tentando piuttosto di sondare lo stesso animo umano, sempre nel contesto di una relazione uomo/natura.

Sono caratteristiche che ritroviamo anche nella più recente opera documentaristica di Herzog, Into the Inferno. Accompagnato da un esperto vulcanologo dell’Università di Cambridge (incontrato sul ciglio del Monte Erebus durante le riprese di Incontri alla fine del mondo), Clive Oppenheimer, Herzog resta fedele alla propria sensibilità di artista “romantico” (un aggettivo che cercheremo di giustificare più avanti), affascinato dalle manifestazioni di potenza e maestosità della natura, raccontando questa volta elementi naturali che sin dall’antichità hanno suscitato paura e, allo stesso tempo, meraviglia negli esseri umani: i vulcani, già oggetto di un suo breve documentario del 1977, La Soufrière.

Werner Herzog e, alle sue spalle, il vulcanologo Clive Oppenheimer, sulla cima del monte Yasur. La specialità di Oppenheimer è la prevenzione delle eruzioni, campo nel quale è considerato uno dei più importanti esperti al mondo

Il viaggio di Herzog e Oppenheimer copre zone di importante attività vulcanica, sia storica che presente, sparse per il mondo: i due visitano l’isola vulcanica di Ambrym e il monte Yasur (nello stato di Vanuatu), in Etiopia visitano l’area archeologica circostante il vulcano Erta Ale, si spostano in Islanda per commentare l’apocalittico paesaggio dei crateri di Laki, in Indonesia raccontano la catastrofica eruzione del Toba e visitano i vulcani Merapi e Sinabung (dal quale la troupe deve fuggire a seguito dell’attività del vulcano); i due riescono perfino ad ottenere un permesso speciale per entrare in Corea del Nord, con l’autorizzazione a raccogliere informazioni riguardo il sacro vulcano Paektu.

Quello che, dicevamo, poteva facilmente diventare un mero documento audiovisivo dell’attività vulcanica di queste diverse località, creato sulla spinta di un interesse strettamente scientifico e un intento didascalico, per mano di Herzog si trasforma sin dai primi momenti in un’indagine di più ampio respiro, che mira a fondere l’immancabile elemento scientifico (sostenuto dagli interventi di Oppenheimer, presenza scenica gradevole capace di raccontare le storie di questi vulcani senza mai appesantire il tono del racconto herzogiano con eccessivi tecnicismi) con spunti antropologici e mitologici.

«Certamente c’è una parte scientifica nel nostro viaggio ma quello che ci interessa narrare è il lato magico, i demoni, i nuovi dei nascosti dietro ai vulcani» spiega il narratore/Herzog, mentre un fiume di lava scorre inarrestabile sullo schermo davanti ai nostri occhi. Le riprese mozzafiato di Herzog sono sempre affascinanti, ma la sceneggiatura fa il suo lavoro nel creare l’atmosfera quasi ultraterrena protagonista di tante scene. Ad esempio, è evidente quanto il regista ami l’accostamento dell’immagine con pensieri filosofici, o frasi poetiche. Quando vulcanologo e regista si trovano in Islanda, decidono di consultare un antico manoscritto del XIII secolo (il Codex Regius) contenente poemi in lingua norrena; tra questi, uno attira la loro attenzione poiché sembra descrivere una sorta di eruzione mitica, un evento legato nella leggenda alla fine degli dei pagani:

“Neath the sea the land sinketh, the sun dimmeth, from the heavens fall the fair, bright stars; gusheth forth steam and gutting fire, to very heaven soar the hurtling flames. The fates I fathom, yet farther I see: of the mighty gods the engulfing doom. Comes the darks and dragon flying, Nithhogg, upward from the Nitha Fells. He bears in his pinions as the plains he o’erflies, naked corpses: now he will sink.”

Un esempio di tipica didascalia “alla Herzog”

Questa suggestiva deriva letteraria stimola la nostra immaginazione e ci ricorda che abbiamo a che fare con Herzog, lo stesso regista che ha dedicato un film a pozzi petroliferi in fiamme (Apocalisse nel deserto) raccontandoli con una sensibilità lirica che vuole e può affascinare. Dunque chiaramente questo nuovo documentario non ha come solo oggetto d’indagine il fenomeno naturale del vulcanismo. L’attenzione del regista è ancora una volta soprattutto rivolta al rapporto che si instaura tra natura e uomini a contatto con essa. Il cinema herzogiano infatti è in primo luogo antropocentrico e Into the Inferno non fa eccezione; gran parte della narrazione è riservata ai racconti delle comunità a contatto con i rispettivi vulcani, una vera manna per antropologi: passando da un vulcano all’altro, Herzog e Oppenheimer apprendono dei suggestivi riti compiuti alle pendici del Merapi per appagare il monte; ascoltano i racconti di un capovillaggio di Ambrym che descrive il vulcano come una presenza viva che parla, riconosce gli abitanti e accoglie gli spiriti dei defunti nelle fiamme, ma che viene irritato dalla presenza dei turisti; interrogano gli abitanti dell’isola di Tanna, ai piedi del monte Yasur, scoprendo l’esistenza di un bizzarro culto che venera una misteriosa divinità nata nel vulcano, incarnata nella figura di un soldato americano, l’enigmatico Jon Frum; accompagnano un eccentrico archeologo alla ricerca di ossa di uomini primitivi nell’area vulcanica etiope, trovando per una fortunata coincidenza un reperto particolarmente raro; ascoltano il mito del monte Peaktu, vulcano ritenuto il leggendario luogo di nascita del leader Kim Jong-il.

Immagine propagandistica ritraente il leader nordcoreano Kim Jong-il e suo padre Kim Il-sung. Alle loro spalle, il cratere del vulcano Paektu

Clive Oppenheimer ha sottolineato in un’intervista l’importanza di questo aspetto umano: «For volcanologists with any interest in protecting populations living on volcanoes […] it is natural to want to understand cultures and beliefs and not simply waltz in with the latest monitoring technology and think that will fix everything». Ha poi aggiunto che collaborare con Herzog in un progetto simile e “multidisciplinare” è stato per lui un’esperienza decisamente costruttiva, che ha avuto il merito di avergli fornito una prospettiva diversa sull’arte, rappresentata dallo stesso Herzog («Werner’s perspectives have certainly influenced how I think about art»).

E in effetti Werner Herzog è uno degli autori di documentari più strettamente legati ad una concezione di cinema documentaristico come forma d’arte, come poesia dell’immagine. Into the Inferno costituisce l’ennesima conferma e ci consente di spingerci un po’ oltre e azzardare l’etichetta di autore romantico, utilizzando il termine secondo l’accezione ottocentesca. Molti letterati, filosofi e artisti del diciannovesimo secolo, esponenti del Romanticismo, si sono riavvicinati ad una concezione antica della natura, arrivando ad ammirarla come puro mistero del creato, una presenza che suscita meraviglia ma che, per la sua estensione sconfinata e la sua potenza, sfugge alla comprensione umana, provocando terrore e inquietudine, oltre che piacere. Questo binomio di piacere e timore (la paura di morire suscitata dalla natura distruttiva che si manifesta a noi) è stato oggetto di studio filosofico per molti secoli, ma arriva ad una sorta di punto di arrivo proprio in età romantica, quando si giunge a nuove definizioni del cosiddetto sublime. È un termine che risale al I secolo dopo Cristo, ricavato dal Trattato del Sublime, di autore incerto (si parla di uno Pseudo-Longino): in questa antica opera di estetica si parla di sublime in riferimento ad una retorica particolarmente elevata, capace di toccare nel profondo i sentimenti del pubblico procurando un stato definito “estasi”.

“Mount Vesuvius in Eruption”, William Turner (1817). Un buon esempio di sublime nell’arte, raffigurazione di un evento catastrofico nella quale dominano i contrasti cromatici e il senso di caos

Ma si tratta di una definizione ancora lontana dal concetto romantico, più vicino alla definizione teorizzata da Edmund Burke nel 1757, con la sua opera Un’indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di Sublime e Bello. Burke definisce il sublime come il sentimento più grande che un uomo possa percepire, ma un sentimento terribile, un terrore che porta alla sensazione di pericolo, tanto grande da non poter essere affrontato. Ma questo “oggetto terribile”, per la sua magnificenza, può suscitare anche piacere, sempre che la nostra vita non sia messa a rischio. Contrapposto al sublime si colloca il bello, caratterizzato da elementi quali la delicatezza, la gradualità, la chiarezza, la mancanza di contrasti. A quest’ultimo è associato l’eros (amore), al sublime thanatos (la morte).

Un binomio, quello proposto da Burke, che ci permette di individuare le diverse indoli dei pittori sette-ottocenteschi: l’arte di William Turner costituisce un ottimo esempio di pittura del sublime, come dimostrano le sue tele dedicate a maestosi e devastanti fenomeni naturali, quali tempeste, alluvioni ed eruzioni. Ecco allora che iniziano a diffondersi in questo secolo dipinti rappresentanti catastrofi naturali nelle forme più diverse: tra queste, particolare attenzione è rivolta ai vulcani, certo uno dei fenomeni più visivamente suggestivi (è noto che molti intellettuali europei durante il celebre Grand Tour italiano si siano soffermati a Napoli per ammirare il Vesuvio in attività). I nomi degli artisti che hanno affrontato questo soggetto figurativo sono molti, ma suggeriamo di dare un’occhiata a questo articolo, che raccoglie alcuni suggestivi esempi di dipinti appartenenti alla corrente nota come Volcano School, attiva negli Stati Uniti tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900.

“Eruzione del Vesuvio”, dipinto attribuito a Camillo de Vito (pittore attivo a Napoli nel XIX secolo)

Herzog potrebbe coerentemente inserirsi in questa tradizione. Il regista ha personalmente espresso la sua concezione di sublime durante una presentazione del suo film Apocalisse nel deserto a Milano (qui una trascrizione completa del suo discorso in inglese). In sostanza, Herzog dichiara di non entrare nel merito del sublime kantiano, molto più articolato del burkeniano, molto più romantico nel suo spirito: in sostanza Kant sostiene che l’uomo attraverso l’esperienza terribile del sublime possa prendere coscienza (fatto che garantisce piacere) della superiorità della propria ragione, che si sostituisce all’intelletto nel contemplare un’infinita vastità (sublime matematico) e un’infinita potenza (sublime dinamico), caratteristiche associate alla natura, come chiariscono le parole utilizzate da Kant (nella Critica del Giudizio):

“Rupi ardite e scoscese, quasi minacciose, nubi di tempesta che si accumulano in cielo, avanzando con lampi e tuoni, vulcani in tutta la loro potenza distruttrice, uragani che si lasciano dietro devastazione, l’oceano illimitato sollevatosi ribelle, un’alta cascata di un fiume potente e simili fanno del nostro potere di resistenza, a confronto della loro potenza, una piccolezza insignificante.”

Come si può notare, Kant stesso usa come rappresentante di una natura incommensurabile e potente la figura del vulcano. Ma Herzog dichiara di preferire la definizione classica, di Longino: il fenomeno dell’estasi, dello straniamento che eleva al di sopra del naturale stato umano (sorta di illuminazione), sembra essere più facilmente attribuibile, secondo il regista, ad alcune immagini rappresentate nei suoi film.

“Volcano at night”, Jules Tavernier (1880)

Quello che indubbiamente risulta evidente, attraversando la filmografia del regista, è il fatto che il senso romantico del sublime sia una sorta di costante di fondo, capace pure di essere aggiornato in contesto più moderno (o meglio, postmoderno). Concediamoci una piccola divagazione: poiché può essere interessante notare come una forma di sublime si insinui anche in un altro recente e ambizioso documentario di Herzog (rilasciato nel 2016 al pari di Into the Inferno), che indaga il peso assunto da Internet nella vita dell’uomo contemporaneo, dal titolo Lo and Behold. Una realtà, quella del World Wide Web, incommensurabilmente vasta e dalla quale ormai, sotto molti punti di vista, dipende la vita dell’uomo del XI secolo (e dunque un’entità dall’immensa potenza). Ecco allora che alcuni teorici hanno pensato ad una evoluzione del sublime, per adattare questo concetto al mondo odierno. Parlando ad esempio di techno-sublime, come fa il critico e artista Jeremy Gilbert-Rolfe: «While driven by electricity rather than hydrogen and oxygen in combination, the techno-sublime is sublime in the way that nature used to be: It is ungraspable because of its uncontrollable immensity […] the techno-sublime may simulate the natural sublime» (2). Si può essere d’accordo o meno con questa contestualizzazione postmoderna, ma è facile comprendere come il mondo incredibilmente vasto e labirintico di Internet abbia suscitato il suo fascino su Herzog.

Chiudiamo questa divagazione (segno comunque della presenza di un fil rouge tematico che attraversa un po’ tutti i film del regista) e torniamo a rivolgere lo sguardo all’infernale quadro in movimento herzogiano. Ed è proprio vero che pochi registi sono stati in gradi di “dipingere” sulla pellicola la sensazione di sublime che si prova guardando i suoi film: ammirando le eruzioni rappresentate in questo Into the Inferno (accompagnate da epiche sinfonie di musica classica, altro elemento squisitamente romantico) è facile che si provi uno strano senso di meraviglia, lo stesso che evidentemente ha provato Herzog, il quale commentando le immagini della lava ribollente ammette di non riuscire a distogliere lo sguardo, pur sapendo di essere a pochi passi da un letale lago di magma, che potrebbe esplodere in qualsiasi momento travolgendo l’intera troupe. «È difficile distogliere gli occhi dal fuoco che brucia in profondità sotto i nostri piedi, ovunque sotto la crosta dei continenti e sotto i fondali marini. È un fuoco che vuole fuoriuscire, a cui non importa nulla di ciò che noi facciamo qui sopra».

SOTTO: dettaglio di “Viandante sul mare di nebbia”, Caspar David Friedrich (1818). Classico esempio di arte romantica, Friedrich tenta qui di rappresentare l’esperienza del sublime. SOPRA: un fotogramma di Into the Inferno. L’uomo nell’immagine è Maurice Krafft

Allora forse non è poi così risibile la superstizione dei villaggi che venerano la montagna di fuoco come un dio, capace di, unendo la propria forza a quella degli altri vulcani del mondo, sommergere l’intera Terra nella lava (apocalittica previsione del capovillaggio di Ambrym). Molto più di qualunque presunta divinità, la natura, specialmente nelle sue manifestazioni più catastrofiche, ha la capacità di costringere l’uomo a rimettere le cose in prospettiva, mettendolo di fronte al proprio limite, alla propria minutezza. Questa la lezione fondamentale del film di Herzog, che in questa sua rappresentazione di una natura imponente e distruttiva può forse ricordare un altro fondamentale spirito romantico, il nostro Giacomo Leopardi, che ha eletto proprio un vulcano (il Vesuvio) a simbolo della natura matrigna nella sua celebre Ginestra, di cui proponiamo un suggestivo estratto:

E nell’orror della secreta notte / per li vacui teatri, / per li templi deformi e per le rotte / case, ove i parti il pipistrello asconde, / come sinistra face / che per voti palagi atra s’aggiri, / corre il baglior della funerea lava, / che di lontan per l’ombre / rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. / Cosí, dell’uomo ignara e dell’etadi / ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno / dopo gli avi i nepoti, / sta natura ognor verde, anzi procede / per sí lungo cammino / che sembra star. Caggiono i regni intanto, / passan genti e linguaggi: ella nol vede: / e l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

(1) Herzog W., Cronin P. (a cura di), Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra cinema e vita, Minimum Fax, 2014

(2) Gilbert-Rolfe J., I‘m Not Sure it is Sticky, saggio contenuto in The Sticky Sublime, Allworth Press, 2001

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