J. Cole ha trovato la sua dimensione

Contro le dipendenze e l’abuso di droghe, KOD è un manifesto di critica generazionale. Tra moralismi, dietrologie e spiritualità

Lorenzo Mondaini
La Caduta 2016–18

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Che J. Cole sieda in pianta stabile ai vertici della scena rap internazionale è oramai una certezza assoluta. Lo dimostra il recente record di ascolti-nelle-prime-24-ore conquistato su Apple Music con KOD, quinto album uscito a sorpresa lo scorso 20 aprile — una data significativa, come vedremo. Eppure sono anni che la critica americana stenta a riconoscere le qualità di uno dei più talentuosi storyteller e beatmaker di questa generazione. Basta vedere la ridicola recensione di Pitchfork o quella tenera di SPIN, tanto per fare gli esempi più eclatanti. Ma per il suo essere evasivo e distaccato, possiamo immaginare quanto il rapper originario della North Carolina si interessi poco o niente dell’opinione di qualche critico di turno. Perché in questo 2018, J. Cole ha decisamente trovato il suo percorso, la sua formula, la sua funzione. Sono anni che non si guarda più alle spalle, sicuro delle sue potenzialità, dei suoi ideali e dei suoi seguaci. E con questo KOD non fa altro che rinforzare la sua posizione in una società sempre più nevrotica e interconnessa.

KOD può definirsi come l’ennesimo testamento di J. Cole, il seguito di un percorso nobilissimo di critica sociale e di introspezione, tra esperienze personali e finzioni teatrali, che mette la voce sullo stesso livello del suono, dando un’importanza superiore (e legittima) alle parole — una cosa che dovremmo fare tutti, al giorno d’oggi. Un tragitto iniziato con 2014 Forest Hills Drive e continuato con 4 Your Eyez Only e che arriva con questa prova, dopo anni di ricerca, ad una fase evolutiva finalmente definita ma ancora un po’ nebulosa.

Quello di J. Cole è un tipo di rap ragionato e colto, sempre devoto alla tradizione del genere ma distaccato dalla schizofrenia dell’ambiente di cui fa parte. La differenza tra le sue maniere artistiche e quelle di tendenza in USA al momento, risiede nella funzione che egli conferisce alla sua musica: come pochi altri nel giro — vedi Kung Fu Kenny — utilizza le sfumature della disciplina per erigersi a una sorta di moderno “profeta”, che dall’alto della sua semplice grandezza, sentenzia e giudica ciò che lo circonda, predicando una filosofia urbana influenzata, biunivocamente, dal reale, dal quotidiano.

Non è più una questione solamente artistica o culturale, ma anche di orgogliosa fede ad un credo personalissimo e controverso. J. Cole ha superato la fase del ragazzo prodigio di un certo conscious rap ritrovatosi da giovanissimo nelle grazie di Jay-Z. Con il passare delle esperienze è diventato un uomo e un artista completo, complesso e contorto. Sia per il successo — anche se sempre demonizzato — che per l’esperienza e la maturazione, disco dopo disco, ha lentamente estremizzato le caratteristiche del suo status. E con questa recente autoinvestitura sì è trasformato nell’anticonformista per eccellenza, con tutti i pregi e i difetti del caso.

In KOD quindi troviamo tutte le sfaccettature caratteriali e concettuali di questo eremita urbano, per la prima volta proiettate soprattutto verso l’esterno e talvolta filtrate dall’interessante alter ego/voce interna kiLL edward — un espediente poetico simile a quello usato nel precedente album.
A differenza delle passate pubblicazioni però, questo può considerarsi un vero e proprio concept album: l’impianto critico nei riguardi delle varie forme di dipendenza, specialmente l’abuso di droghe — il titolo è un acronimo che potrebbe stare per Kids on Drugs, King OverDosed o Kill Our Demons — rappresenta il fulcro dell’intera opera, tanto che pervade ognuna delle 12 tracce. (Il fatto che il disco sia uscito il 4/20, giornata internazionale della cannabis, non è ovviamente un caso.)

Nell’opener KOD, probabilmente il singolo più potente insieme a Window Pain — Outro, tramite la narrazione di una breve finestra di vita, J. Cole espone, quasi goliardicamente, la sua dura posizione nei confronti degli stupefacenti e di ciò che gli ruota attorno. Nascondendo solo nei secondi finali un messaggio morale:

Power, greed
Money, Molly, weed
Percs, Xannys, lean, fame
And the strongest drug of them all
And the strongest drug of them all
Love

Il tema ricorrente dell’abuso di droghe, viene sviscerato in piccole parti in quasi tutti i brani, creando un po’ di confusione dal punto di visto logico-teorico e intaccando la qualità lirica, comunque altissima, del disco. Un segno, questo, che forse servirà ancora del tempo prima di avvicinarsi alla perfezione.

Nella seguente Photograph, è la dipendenza da Internet a finire nel mirino dell’autore, nella sua declinazione sociale e interpersonale. L’autore denuncia l’appiattimento dell’amore nell’era dei social, causato della tossicità degli strumenti digitali.

Love today’s gone digital
And it’s messing with my health

Una visione parecchio arretrata, viene da pensare, specie se pronunciata da un giovane come lui. Ma pur sempre in linea con l’anima spirituale (e cattolica?) dell’uomo saggio e rigido in cui J.Cole si sta trasformando.
Le tematiche sentimentali ritornano anche in Kevin’s Heart, canzone caratterizzata da un dualismo vivente tra amore e droga. Dal punto di visto amoroso, stavolta è la dipendenza dal sesso a finire sotto inchiesta. Collegandosi alle vicende coniugali del comico Kevin Hart, il quale ha ammesso di aver tradito la sua prima moglie— non a caso è anche il protagonista del video — il rapper espone tutte le contraddizioni di una società che quasi predispone o incita a commettere adulterio.
In chiusura, l’iconico slogan “Choose wisely”, ripetuto anche in altre parti dell’album. Principio che racchiude in due parole l’essenza della dottrina di J.Cole.

Ogni paternale viene recitata, verso per verso, con il savoire faire tipico di J.Cole — oramai un marchio di fabbrica — che mescola un linguaggio aulico e studiato alla sottocultura da ghetto afroamericano, caratteristica questa di ogni rapper per definizione.

Nel melodramma trova spazio, ovviamente, anche l’argomento economico, il quale viene articolato, in maniera diversa, in ATM, in Motiv8 — dove dal minuto 1:21 possiamo assistere ad un virtuosismo ritmico, nel cantato, davvero incredibile — e BRACKETS. Generalmente, il nostro tende a comunicare con molta forza quanto dovremmo essere tutti più distaccati, nei limiti del possibile, dall’elemento del denaro, per non rischiare di diventarne schiavi. La sua vuole anche essere, nuovamente, una dura critica allo stile di vita medio ostentato da ogni rapper in circolazione, da lui considerato un cattivissimo esempio per le generazioni future. In questa triade comunque, il vero gioiello è BRACKETS. Sopra una base familiare e molto chill (tutte le produzioni del disco sono sue) J. Cole spara senza freni una serie di attacchi durissimi alla politica americana e all’uso (improprio) delle risorse pubbliche. Quel che viene fuori dal secondo verso della traccia è una fiume ideologico coloratissimo, tra idee liberali e libertarie, spunti accelerazionisti e di democrazia diretta, racchiuso dentro una grande sensibilità sociale. Forse J.Cole potrebbe essere, inconsapevolmente, un personaggio più interessante e intrigante di quello che sembra.

Tutto KOD vuole ruotare attorno all’implicita volontà di educare e insegnare come vivere e comportarsi con umiltà e rispetto. Tale attitudine è rivolta in special modo ai più piccoli, ai ragazzi, figli di un mondo dagli accessi immediati, difficile da controllare. Nella traccia di chiusura 1985 (Intro to “The Fall Off”) coglie l’occasione per un’ultima lezione — ma forse prima? Il titolo sembra richiamare ad un potenziale prossimo disco — tutta dedicata ai giovani rapper, i nuovi mattatori. Pur se in maniera distaccata e senza mai aver creato disordine, sembra voler rispondere agli insulti di quel moccioso di Lil Pump.
Il risultato suona come un brontolio di un vecchio conservatore, bellissimo e acutissimo, ma pur sempre fuori luogo.

Avrà ragione Jon Caramanica dunque, quando scrive sul The New York Times:

Mr. Cole è un rapper empatico, ma può anche essere un cattivo moralista. “1985” è esattamente il tipo di rimprovero da vecchio che i suoi giovani provocatori si aspetterebbero. Eppure è esattamente ciò in cui è il migliore.

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