Jackie: piattissimo, primissimo piano

Nel biopic di Pablo Larrain realtà e mito mancano di profondità

Chiara Grilli
La Caduta 2016–18

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Il regista cileno Pablo Larraìn offre un biopic su una delle first lady più famose della storia americana, Jacqueline Kennedy, la cui figura rimane viva ancora oggi nell’immaginario internazionale come espressione del glamour elegante e della “mediaticità”, se così si può dire, della brevissima presidenza Kennedy. Incentrato sui quattro giorni successivi all’omicidio del presidente, avvenuto a Dallas (Texas) il 22 novembre 1963, il film tenta di avvicinarsi all’ormai mitico personaggio di Jackie attraverso una prospettiva interessante: tessere la trama di una dramma privato in un contesto storico che tende, tuttavia, a deformare il personale in pubblico, nonché a fondere (e confondere) il reale con il fittizio. Il film Jackie, insomma, sfrutta a proprio vantaggio l’incapacità di distinguere tra la Storia (quella dei grandi accadimenti) e la storia (quella privata degli individui), nonché tra realtà e mito. Più nello specifico, ciò che attrae della pellicola è la sua stessa incapacità di fornire certezze: nessuno sa cosa sia precisamente accaduto in quelle ore, come lo stesso Larraìn ha dichiarato in una recente intervista su Best Movie:

“L’obiettivo è creare l’illusione, non raccontare la realtà. Certo, ci sono riferimenti storici reali, ma di quello che è successo dietro le quinte io proprio non ne avevo idea”.

Tutto, dunque, è presentato come verosimile, come una storia che, insomma, potrebbe essere vera, ma che non può davvero distinguere tra il reale e il mitico. Al pubblico in sala, perciò, è richiesto lo sforzo di capire, discernere, dividere quanto più possibile i due elementi, per giungere a un’interpretazione della narrazione che cambia da spettatore a spettatore, e che va contro l’omogeneità di facciata costruita dai media.

Inquadratura tratta dalla riproduzione eccellente del filmato “A Tour of the White House” mandato in onda negli Stati Uniti il 14 febbraio 1962

Questo progetto trova concretezza nella ricostruzione accurata dei filmati storici dell’epoca, riprodotti nel dettaglio da una regia e un montaggio scrupolosi, nonché da una Natalie Portman che ha saputo interiorizzare alla perfezione la cadenza, il portamento e la gestualità della first lady. È difficile trovare delle differenze tra i vecchi filmati in bianco e nero e le rispettive scene del film, grazie non solo alla perfetta riproduzione di costumi e acconciature, ma anche all’utilizzo di telecamere d’epoca che ripropongono meticolosamente le sfumature di grigio, gli spostamenti di macchina e la sceneggiatura dei video originali.

Ciò nonostante, il film stenta a coinvolgere, e il difetto è soprattutto della regia. Nel tentativo di far avvicinare, o addirittura di “far entrare” lo spettatore all’interno del punto di vista della protagonista, il film propone un lungo e ripetuto utilizzo di primi e primissimi piani che, dopo le scene iniziali più riuscite, perdono la propria funzione e intensità. L’abuso di inquadrature ravvicinate appiattisce il film non solo a livello estetico, ma anche emotivo e narrativo, tanto da negare qualsiasi tipo di coinvolgimento da parte del pubblico.

I primi piani, le luci e i colori scelti appiattiscono anche emotivamente il film di Pablo Lorrain

Jackie è protagonista assoluta, quasi dittatrice dello schermo: trovata che rispecchia, certamente, il desiderio di mostrare la natura a volte frivola e (forse inconsciamente) egocentrica della donna, ma che accantona con indifferenza qualsiasi rapporto umano vissuto dalla first lady. Appena tratteggiato il legame con Robert Kennedy, fratello del presidente, svanisce quasi del tutto sotto l’ingombranza dei primi piani quello con i figli, con la migliore amica, coi familiari, col marito, col pubblico americano. Se è apprezzabile il fatto che il regista abbia rinunciato alla creazione di un film strappalacrime e, allo stesso tempo, abbia evitato di essere condizionato dal gossip che aveva stretto la coppia entro dicerie (più o meno confermate) che parlavano di mafia, scappatelle e gozzoviglie, non si può non avvertire l’incompletezza del personaggio. La buona interpretazione di Natalie Portman, tuttavia non eccellente, è sminuita e livellata da una telecamera che non riesce davvero a creare, come vorrebbe, quella nebbiosa, confusa commistione tra storico e mitico: ciò che rimane, più che altro, è la sensazione di vedere qualcosa di puramente costruito.

La colonna sonora, d’altra parte, non rende giustizia ai progetti originali. Cadenzata e ridondante, la musica è un requiem oppressivo, che si adegua ai colori spenti e piatti della pellicola, accesi solamente nei rari flashback delle scene di vita della famiglia Kennedy prima dell’attentato. Il tentativo di mostrare l’esperienza del lutto nelle sue diverse sfaccettature e, allo stesso tempo, di descrivere gli sforzi di Jacqueline nel costruire il mito del marito (e il proprio) rimane un tentativo. Privo di trama e di scene di spessore narrativo o emotivo, il film si presenta come una sequenza di immagini splendidamente ricostruite.

La presenza della sigaretta nella vita privata di Jackie è costantemente proposto: è la prima e più palese differenza tra la Jacqueline pubblica e la Jackie privata.

Con il titolo, Larraìn ha voluto far capire che non si sarebbe parlato tanto della Jacqueline Kennedy-first lady, quanto della donna-Jackie, con le sue debolezze e le sue passioni, con l’alcool e le sigarette ad accompagnare il suo lutto. Tuttavia, come già altri biopic prima di lui, quali Lincoln (Steven Spielberg, 2013), ma diversamente da altri, come Malcolm X (Spike Lee, 1992) o The Social Network (David Fincher, 2010), il film non riesce ad andare davvero in profondità e a costruire quel “confronto con il pubblico” che il regista aveva affermato di voler raggiungere.

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