🎎 Katana #21 — Westworld chi?

Katane deluse per cerimonie politiche

Lorenzo Mondaini
La Caduta 2016–18

--

Le famose premiazioni cinematografiche, come gli Oscars, gli Emmys o i Golden Globes, stanno diventando nulla più che dei blasonati appuntamenti annuali. C’entrano alcune recenti edizioni caratterizzate da plateali buffonate, mosse strumentali che più strumentali non si può. Come non ricordarsi la storia di Leonardo Di Caprio che per due anni non vince (ingiustamente) l’Oscar, ma alla terza volta glielo danno, tipo contentino, anche se ecco, se lo meritava prima, non dopo. Oppure, sempre agli Oscars, un anno non vengono nominati iniquamente attori o registi neri e scoppia il putiferio. L’anno dopo, per controbilanciare, vince diciamo abbastanza immeritatamente un film sui neri girato da un regista nero con tutti attori neri. Perché questa pagliacciata, ci si chiede. Because ‘Merica, of course! (D’altronde è un po’ il loro stile: è sempre una storia di razza).

Ultimamente quindi, la politica è entrata a gamba tesa nei salotti più sfarzosi di Hollywood e Los Angeles. Non è, ovviamente, casuale: l’elezione di Donald Trump ha giocato un ruolo fondamentale in tal senso, e nelle varie occasioni molti personaggi si sono eretti a paladini della democrazia, con discorsi carismatici, qualche urlo, qualche pianto; mentre alcune premiazioni sono state viziate da un simbolismo estremamente politico, a discapito di una selezione obiettiva e meritocratica.
Anche la recentissima edizione degli Emmys, tenutasi lo scorso 17 settembre, è finita in questa trappola del politically committed. Due serie molto impegnate — e di qualità notevole, ci mancherebbe — hanno stravinto senza lasciare nulla agli altri: stiamo parlando di The Handmaid’s Tale e Little Big Lies. La prima un adattamento del formidabile romanzo distopico di Margaret Atwood, nel quale le donne non hanno praticamente più diritti e vengono costantemente sottomesse; la seconda una miniserie drammatica sui tremendi effetti psicologici degli abusi e delle violenze sulle donne, sempre tratta da un libro, quello di Liane Moriarty. Entrambe ruotano attorno ad un tema forte, che ricopre un ruolo importante nel dibattito pubblico, specie in quello americano. Nel mezzo però, una serie di gigantesca qualità e complessità come Westworld — altro esempio di tv fenomeno prodotto in casa HBO — forte delle 22 nomination, è tornata a casa con sole 5 statuette tecniche e nessuna di un certo peso, nemmeno quella per Miglior sceneggiatura di una serie drammatica, anche se il finale curato da Lisa Joy e Jonathan Nolan è stata la miglior cosa vista in televisione nel 2017 finora.

Cosa sta ad indicare, dunque, questo oramai costante squilibrio nelle premiazioni? Che il messaggio politico oramai è più importante della qualità televisiva. Quella di quest’anno è stata definita come l’edizione degli Emmys più politica di sempre, perché la politica era in tutto e per tutto: dalla conduzione e le gag di Stephen Colbert, ai discorsi dei vincitori fino alle premiazioni stesse.

E il problema gigante di questa brutta piaga che hanno preso tali cerimonie è che all’americano medio che ha votato e supporta Trump non frega nemmeno un cazzo di chi vince cosa e di quali significati ci sono dietro, oppure di cosa Mr. o Mrs. attore di turno dice su un palco in una convention tra milionari. Lo star system americano dimostra ancora di non aver imparato la lezione: la politica si fa tutti i giorni, si fa sul campo, nei rallies nei posti sperduti, non su un palco di uno show un paio di volte all’anno.

Volete avere un ruolo politico in tempi bui come questi? Continuate a produrre grandi serie, grandi film, grandi documentari, fatelo ancora, fatelo di più, fatelo meglio. Ma date a Cesare quel che è di Cesare. Più grandezza, più merito, meno finzione, meno discorsetti.

--

--