🎎 Katana #23 - Meme meh!

Katane mimetiche per una politica memetica

Pier Francesco Corvino
La Caduta 2016–18

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Nonostante giornali, blog e televisioni cerchino disperatamente di capire il senso e, mediaticamente parlando, la portata, dei meme, questi sembrano sfuggire ad una comprensione chiara e distinta. Un tale gap è probabilmente dovuto alla natura passiva con cui il suolo italico ha ricevuto questo prodotto tutto americano, o al differente stato di sviluppo della nostra sotto-cultura virtuale, alternativamente troppo dipendente dai maggiori canali d’informazione, o troppo settaria nei suoi templi di informazione, tanto alternativa quanto parcellizzata.

Fattostà, che dopo un rapidissimo sviluppo del formato top/bottom text, i meme sono entrati prepotentemente all’interno dello spazio politico nazionale e culturale, senza che nessuno sia riuscito a comprenderne la latente complessità, a carpirne il segreto. Certo, non necessariamente l’insipienza è un freno per il genio italico, anzi, storicamente lo sprovveduto italiota è sempre stato capace di ampi salti d’ingegno; guardiamo il povero Colombo che, in quanto ignorante, scoprì i pomodori.

Eppure; eppure non è questa la costante che ci interessa indagare nel concetto-nazione Italia — quanto piuttosto quello che tanta parte ha avuto nella storiografia nostrana. A detta di molti (da Bobbio a Calogero, da Gramsci a Luporini) il pensiero critico in Italia, quando c’è stato, è sempre stato pensiero politico. E così è anche oggi, vedi al proliferare delle grandi pagine memetiche che tutti conosciamo (e a cui non offriamo la pubblicità di cui non abbisognano), come anche secondo la nuova sociologica memetica, che indaga questa nuova classe, disagiata e gentista. Tutta satira, sproloquio abile, retorico, irriverente, a tratti nero; ma è veramente questa l’essenza dei meme?

America docet, certo: i grandi momenti dell’”Alt-right” (forse essa stessa niente più di un gigantesco meme) Pepe the Frog, ed oggi, forse, anche Rick&Morty — ma c’è di più. C’è un retroterra, una componente strettamente estetologica, nichilistica e mortalmente attaccata alla più totale opacità; è il prodotto originario di un mondo virtuale di outcasts che creavano, come in Futurama, una città sotterranea in cui si gioca col potere effimero dell’immaginazione (qui non vale l’obiezione che il gioco giochi il giocatore, perché egli stesso si pasce nella sua illusione). E noi, e loro, gli abbiamo rubato anche questo, rendendo il meme un dispositivo, dando ancora una volta ragione ai teorici dell’onnipervasività del politico, che noia mortale. Poi un giorno, sono nati i meta-meme, la deriva ermetica dei meme, che fanno i meme sui loro stessi meme, parlando un linguaggio codificato, mimetico prima che memetico, da addetti ai lavori — costretti ad una riflessione sulla propria spontaneità e sui propri limiti, mentre noi stiamo ancora a menarla con Piero Fassino e la love story di Boschi & Dibba (per altro bellissime). Questo, lo status questionis (che potrebbe essere mutato proprio ora a mia insaputa, ma tant’è).

E non è comunque detto che esista una contrapposizione così netta tra il meme politico e quello nihil-catartico, ma un discorso sul nulla si può fare solo in realazione a ciò che esso non è. Inutile nasconderlo, questa storia puzza tanto di bruciato, di sommerso; un po’ come dire che se oggi c’è un Wu Ming, è perché non eravamo pronti a sopportare il peso di un Luther Blisset.

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