Kraus: la degradazione del binomio pubblico-privato e della parola come arte

Una riflessione su uno dei grandi personaggi del Novecento la cui distanza nel tempo non sembra comprometterne la straordinaria attualità

Chiara Mammarella
La Caduta 2016–18
7 min readOct 1, 2016

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«Società: erano presenti tutti quelli che dovevano esserci e che altrimenti non saprebbero a che serve essere, se non appunto a esserci[1]».

Fino a che punto può (pre)valere l’apparenza? È possibile che talvolta la volontà di “apparir d’esserci” sovrasti la più autentica volontà di esserci? Come avviene che tanta parte del proprio tempo venga (im)piegato per rispondere a tale assillante richiesta auto-imposta, che da richiesta sempre più si fa necessità, dipendenza? E quando addirittura non basta più l’esserci, la fisica presenza, ecco subentrare una seconda segnalazione autocertificata della propria partecipazione, che nell’era moderna delle mostruose tecnologie assume le sembianze della foto-testimonianza sul social. Quanto è grande quindi la preoccupazione di essere dimenticati, e quanto fondamentale questo continuo, incessante testimoniare il proprio essere ovunque?

All’alba del ventesimo secolo c’era chi, come Karl Kraus, aveva già profeticamente individuato gli esiti cui l’umanità sarebbe stata condotta dai suoi malefici prodotti, oltre che dai suoi temibili meccanismi di potere, di controllo e censura. Ne costituiva, e costituisce tutt’oggi, un esempio la diffusa necessità del dir la propria, quel dilagante opinar di tutti su tutto, già a suo tempo fortemente avvertita, e non senza disdegno, dallo stesso Kraus, il quale sempre si astenne dal sostenere pubblicamente un’opinione, considerata quest’ultima come una cosa privata, da preservare da quei cacciatori di notizie, noti anche come giornalisti, impegnati a mercificare persino ciò che per definizione, come l’arte e la parola, ad una mercificazione dovrebbe sfuggire. Questa esigenza del dire, del dar voce a qualsiasi argomento di sociale interesse, si percepisce in maniera estremamente amplificata nell’era dei mass-media, di internet e degli smartphone. Ogni giorno una foto da mostrare, un’opinione da proporre, una verità da rivelare. È proprio in questo sottilissimo spazio (ormai pressoché disintegrato) separante la sfera del pubblico da quella del privato che si inserisce l’opera di Kraus, nel suo vano tentativo di “proteggere la vita privata contro la morale e i concetti in una società che ha intrapreso la radioscopia politica della sessualità e della famiglia, dell’esistenza economica e fisica, in una società che si accinge a costruire case con pareti di vetro, dove le terrazze entrano profondamente dentro le stanze, che già non sono più tali”[2]. Di certo la natura dell’alterazione, o meglio del deviamento, di tale rapporto fra le due sfere — la pubblica e la privata — ha potuto conoscere un’evoluzione nel corso del secolo; se infatti le redini di tale processo erano, all’epoca di Kraus, principalmente tenute dalla classe medioborghese di quella Vienna “capitale della decorazione”[3], che voleva unicamente vedere e farsi vedere, esse sono ora nelle mani del singolo individuo che per propria autonoma volontà decide di darsi una particolare forma da esibire pubblicamente, da mostrare ad un pubblico ampio e sconosciuto al cui anelato giudizio sottoporsi. Ciò per cui si batteva Kraus, e a cui strenuamente si opponeva, era la pretesa partecipazione da parte del governo all’interno di ognuno di quegli ambiti costituenti la quotidianità del singolo; una partecipazione destinata poi a degenerare, in tempi di dittatura, in persecuzione e continua sorveglianza, volutamente estesa quest’ultima anche a quegli spazi di vita privata che, secondo l’autore, meriterebbero di esserne assolutamente e sacralmente preservati. Cases all’interno della sua introduzione a Morale e criminalità esplica perfettamente il rapporto che, secondo Kraus, sussisteva fra tali due ambiti: la morale a cui l’autore fa riferimento non è quella individuale, prodotta dall’insieme di fattori contribuenti alla crescita e allo sviluppo del singolo e alla quale ognuno può più o meno rispondere; la Sittlichkeit krausiana è, al contrario, “quella collettiva, la morale dominante, il costume consacrato”[4]. È proprio questo aspetto pubblico, sociale, della moralità a rendere possibile una sua associazione al concetto di criminalità verso cui si sente trascinato chiunque avverta l’ingiustificata intrusione di altri nel proprio privato. Probabilmente Kraus non poteva prevedere un completo ribaltamento di tale scena (quale quello cui si può assistere oggi) entro il quale sarebbe stata la stessa società a chiedere di essere giudicata, puntando da sé i riflettori entro le camere della propria vita.

Tale degradazione del privato sembra vivere ed alimentarsi dei prodotti cui l’uomo è stato fornito dal sempre più imperante macchinismo; in quest’ottica è sorprendente osservare come quella che divenne nel corso del Novecento materia di tanta narrativa tra il distopico e il fantascientifico — basti pensare a Bradbury, Orwell o Dick — possa trovare un suo valido precursore nella figura assolutamente avanguardista di Kraus. All’interno di Sprüche und Widersprüche, la cui prima pubblicazione risale al 1909, numerosi sono gli aforismi dedicati all’osservazione critica del progressivo istupidimento cui l’umanità stava andando - e andrà- incontro nel favorire lo sviluppo delle macchine. Nulla di fantascientifico, pura, lucida constatazione di un processo del quale non vuole essere tracciato un ritratto totalmente negativo: anche qui infatti, esattamente come nel caso dell’interferenza del giuridico entro la sfera del privato, è l’abuso, la distorsione, l’uso improprio che viene accusato; è così infatti che «il progresso meccanico va a vantaggio soltanto di una personalità che per mezzo di esso riesce a giungere più rapidamente a se stessa, scavalcando gli impedimenti della vita esterna. Ma i cervelli della media non sono all’altezza di una ipertrofia del progresso. […] La separazione dalla fonte naturale, che produce la macchina, la repressione del vivere per mezzo del leggere e l’assorbimento di ogni possibilità dell’arte nello spirito pratico compiranno la loro opera con sbalorditiva rapidità»[5].

Locandina di Berson, un produttore di tacchi per scarpa che utilizza la figura di Nietzsche per pubblicizzare i suoi prodotti. L’immagine venne proiettata da Kraus al termine di una delle sue pubbliche letture tenute nel “Beethovensaal” di Vienna (1914).

La denuncia al processo di asservimento cui sempre di più si stava sottoponendo l’arte costituisce un’altra delle attualissime e ricorrenti tematiche rintracciabili all’interno dell’opera krausiana, nella quale vengono preannunciati, quasi visionariamente e senza sconti, quelli che saranno gli esiti di una società la quale alla realizzazione dei propri piani e dei propri progetti assoggetta qualsiasi cosa, senza nulla risparmiare, nemmeno quell’arte la cui sola funzione dovrebbe tautologicamente consistere nel solo, puro esser arte. Da qui la feroce critica a quella che era ormai divenuta l’essenza del giornale, contro le cui banalità lo scrittore si allineò sempre, sottolineandone l’incolmabile distanza a separarlo dall’arte letteraria. Alla parola come puro “essere il farsi corpo di un pensiero secondo la necessità naturale”[6] sembra infatti contrapporsene un’altra, asservita ai poteri della stampa, resa meretrice della pubblica offerta, piegata, distorta, fraintesa, presentata a caratteri cubitali nell’onnipresente ingombranza dei giornali e dei cartelloni pubblicitari. Kraus individua la causa di questa demistificazione del ruolo originario della parola nel fatto che, a differenza della musica o della pittura, al cui riguardo solo chi è esperto sembra pronunciarsi, la parola è uno strumento accessibile a chiunque, in quanto da tutti impiegato sin dall’infanzia. Questo facile accesso alla parola ne avrebbe sminuito il valore, facendo sentire chiunque, per il solo fatto di saper leggere o scrivere, valido critico e giudice esperto in materia d’arte; «gli analfabeti del suono e del colore sono modesti. Ma la gente che sa leggere non viene compresa fra gli analfabeti»[7]. Kraus contrappone a questa degradazione del ruolo del linguaggio una nuova necessità: quella di guardarlo alla luce di una nuova prospettiva e considerarlo come “potenza neutra, totale, incombente, di cui siamo l’oggetto prima che il soggetto”[8]. La parola in quanto tale viene rivestita di un valore inestimabile, perché quello che si cela dietro il suo apparente aspetto puramente formale è lo spessore dell’Ursprung, quell’Origine che Cases descrive come “la pienezza dell’uomo nell’armonia di ragione e istinti”. Un’armonia originaria oramai completamente sovvertita dalla perdita di ogni adeguato riconoscimento del vero ruolo della parola, ridotta quest’ultima a mero strumento di potere e di guadagno. È il potere demonizzante della réclame ad avere attivato questo ineluttabile processo di uscita e progressivo distaccamento da uno sorta di rousseauiano stato di natura, all’interno del quale la parola poteva ergersi a simbolo ed emblema di una primordialità incorrotta in cui era l’espressione a prevalere sulla comunicazione, così come la forma sul contenuto. E l’uscita da tale benevola condizione umana sembra portare ben oltre il consolidamento della società civile; ad affermarsi è infatti la dittatura della parola, dell’informazione distorta, del chiassoso ridondare della chiacchiera, del famelico mercantilismo, il quale “ha avuto il coraggio di utilizzare anche la soglia della nostra coscienza per l’affissione”[9].

Note:

[1] K. Kraus, Detti e contraddetti, a cura di R. Calasso, Adelphi Edizioni, Milano, 1972, p. 97

[2] W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, collana Einaudi Paperbacks 40, Torino, 1973, p. 107

[3] R. Calasso, Una muraglia cinese, in Detti e Contraddetti, a cura di R. Calasso, Adelphi Edizioni, Milano, 1972, p. 14

[4] C. Cases, Introduzione a Morale e Criminalità, BUR, Milano, 1976

[5] K. Kraus, Detti e contraddetti, a cura di R. Calasso, Adelphi Edizioni, Milano, 1972, p. 106

[6] Ivi, p. 131

[7] Ivi, p. 133

[8] R. Calasso, Una muraglia cinese, in Detti e Contraddetti, a cura di R. Calasso, Adelphi Edizioni, Milano, 1972, p. 20

[9] K. Kraus, Elogio della vita a rovescio, traduzione di N. Carli, a cura di M. Cometa, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1988

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