La caduta delle mediazioni tra superstizione sociale e nuovo terrorismo

Quando “la sensazione più precisa e più acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere dove ogni giorno sta mettendo i piedi”

Chiara Mammarella
La Caduta 2016–18

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È indossando l’abito dello smarrimento o, ancor più, della perdita che si dispiega la vita dell’essere umano all’interno dell’ormai globalizzato e secolarizzato mondo contemporaneo. Perdita più o meno consapevole, ma di certo radicale, forse definitiva. L’oggetto di tale privazione è sfuggente, astratto, labile, eppure richiama ciò che più di ogni altra cosa rende solida e concreta la nostra esistenza: la solitudine autentica da una parte e la comunione con gli altri esseri umani dall’altra. La direzione ormai irrimediabilmente imboccata par essere quella del più asettico individualismo, a partire dal quale sembra aversi persa la facoltà di realizzarsi in maniera veramente autentica all’interno di entrambe le dimensioni, fra le quali si continua, con moto costante, ad oscillare, nel proprio continuo districarsi tra la sfera pubblica e la privata. Dal lato di entrambe è la digitabilità ad avere preso il sopravvento, segnalando l’ingresso di quell’emergente fenomeno che Roberto Calasso, nella sua ultima pubblicazione ̶ L’innominabile attuale ̶ definisce della disintermediazione. Categoria questa carnefice spietata dell’elaborazione di pensiero, di per sé innatamente mediata.

Tale progressivo svuotamento di senso del collettivo non sembra, d’altra parte, aver favorito una maggiore attenzione e dedizione a favore della dimensione individuale o privata, la quale al contrario sta seguendo, di pari passo alla pubblica, un processo di svalutazione e perdita del proprio senso originario. Se dunque pur trovandosi insieme non si “sta” mai davvero insieme, data la frapposizione tra un individuo e l’altro dei diabolici media costituiti dai social e dagli apparati tecnologici sempre più avanzati, nemmeno stando soli sembra più possibile riuscire a godere a fondo dei benefici che solo l’isolamento dagli altri può regalare; ancora una volta a causa di quella rete mondiale comodamente a portata di tasca che segue chiunque, ovunque vada. L’abilità alla relazione, indipendentemente dal secondo termine di questa, sembra essere andata completamente perduta e, con essa, la facoltà di riuscire ad assumere il distacco necessario per accorgersi della gravità del fenomeno, così da indagarlo criticamente. La difficoltà nel comprendere questo, come l’insieme degli altri processi che tessono rovinosamente la trama del vivere contemporaneo, deriva di certo anche dal fatto che, essendo completamente immersi ed avviluppati nelle reti di un tale drappo, solo a stento si può riuscire ad assumere la distanza minima ma pur sufficiente a darne una lettura critica ed oggettiva. D’altra parte, paradossalmente, sembra che non possiamo occuparci d’altro, data l’urgenza con cui l’Attuale richiama a gran voce un nostro intervento.

Peter Sloterdijk

Un’osservazione interessante a proposito della distorta percezione dell’alterità, tipica dell’epoca contemporanea, è stata proposta dal filosofo tedesco Peter Sloterdijk il quale è giunto ad individuarne le avvisaglie nel corso dell’epoca moderna, età delle prime grandi circumnavigazioni globali compiute dai marinai e dagli avventurieri europei. È qui che, secondo lo studioso, avrebbe iniziato infatti a realizzarsi per la prima volta una riflessione sul puro “Fuori”, a partire dalla quale il mondo in quanto tale avrebbe cessato di essere sentito, e di riflesso considerato, come una dimensione costitutiva dell’essere umano; è a partire da questo momento, dunque, che ad esso non si sarebbe più guardato come ad una realtà da abitare e di cui prendersi cura. In pari modo l’Altro, come parte essenziale del mondo, non sarebbe più stato percepito come il coabitante di uno spazio da condividere, ma come un mero punto del tutto esterno, nonché contingente, a frapporsi tra il Sé ed il resto degli infiniti altri punti costituenti il mondo. È partendo da tale alienante prospettiva che la categoria dello “stare nel mondo” avrebbe subito un completo ribaltamento di senso identificandosi, e dunque rivelandosi, nella completa mancanza di legami con l’Altro. In questi termini, la scommessa e l’obiettivo dell’uomo diventano allora quelli di riuscire, di fronte alla sterminatezza del mondo in quanto indifferente, a tenere fede alle proprie relazioni reciproche, individuando dunque il fondamento della non-indifferenza nell’assoluta potenza dell’indifferente.

Tuttavia pare che ognuno, chiuso all’interno della propria individualistica capsula esistenziale, porti avanti le proprie attitudini quotidiane, incapace ormai di guardare oltre ciò che gli si pone immediatamente innanzi. È da qui che si apre e dispiega lo scenario post-bellico dell’inconsistenza dove in primo piano è proprio la perdita di ogni capacità umana di trascendere il puro dato immediato, auto-impossibilitandosi irrimediabilmente ad assumere quella pluralità prospettica necessaria alla formazione di un’opinione critica sul reale e alla costituzione dunque, in seconda istanza, di una dimensione che sia autenticamente politica. È possibile, arendtianamente, relazionare tale fenomeno all’avvento della società di massa, considerando come la frammentazione del mondo comune sembri conseguire direttamente dalla distruzione di quella molteplicità prospettica in cui è il mondo stesso a presentarsi alla pluralità umana. Trionfo del sociale a scapito del politico, in un progressivo distaccamento, per quanto apparente, dalla sfera del religioso e, più profondamente, dell’invisibile. Tale società secolare, osserva Calasso, “è diventata ultimo quadro di riferimento per ogni significato, quasi che la sua forma corrispondesse alla fisiologia di qualsiasi comunità e il significato si dovesse cercare solo all’interno della società stessa. La quale può assumere le forme politiche ed economiche più divergenti, capitalistiche o socialistiche, democratiche o dittatoriali, protezioniste o liberiste, militari o settarie. Tutte da considerare, in ogni caso, quali mere varianti di un’unica entità: la società in s锹.

Roberto Calasso

Protagonista di questo capitolo della storia è homo saecularis che, imbrigliato nelle vorticose dinamiche della società, si ritrova a celebrare una libertà nuova, inedita quanto fittizia, da ogni forma di vincolo religioso precedentemente imperante. Laddove tuttavia l’«agire per il bene di una Chiesa o <l’>agire per il bene di una società; <l’>agire in vista del bene divino o del bene dell’umanità sono atti radicalmente distinti, ma accomunati dalla sussistenza di una fede. E, se tanto basta a renderli atti religiosi, tali andranno considerati tutti allo stesso modo»².

Ed è sul suolo friabile di questo mondo secolarizzato, nell’epoca dell’inconsistenza assassina (inconsistente perché assassina/assassina perché inconsistente), che muove i suoi incerti passi homo saecularis, vestendo i panni ora del turista, ora del terrorista. Di questo terrore contemporaneo, osserva Calasso, «è <fondamento> l’idea che soltanto l’uccisione offra la garanzia del significato. Tutto il resto appare labile, incerto, inadeguato»³. E questo dove l’obiettivo fondamentale coincide, per quanto riguarda il terrorismo islamico, con il completo annientamento del mondo occidentale secolarizzato. L’uccisione in quanto simultaneamente suicidio svilisce la consistenza e insieme il valore dell’esistenza attuale. Predilezione del futuro in luogo del presente, nella cieca convinzione che solo oltre il qui-ed-ora terreno il senso potrà svelarsi, e che giustizia sarà fatta di là dal mondano. La pervasività dell’atto terroristico è anch’essa innominabile in quanto casuale, dal momento che «la potenza che <lo> muove e lo rende assillante non è religiosa, né politica, né economica, né rivendicativa. È il caso. Il terrorismo è ciò che rende visibile il potere ancora inscalfito che regge il funzionamento del tutto e ne svela il fondamento»⁴.

L’uccisione casuale è quanto impedisce di essere immediatamente compreso dal pubblico, in quanto adattabile ad un ventaglio molto più ampio di interpretazioni rispetto ad un’azione il cui intento sia immediatamente esplicito. È la potenza del caso, più che l’atto terroristico in sé, a creare la paura nel suo immediato raggio d’azione. E a disseminarla poi, di là da quello, intervengono i media, arma fondamentale, per quanto astratta, di sconvolgimento sociale nelle mani dell’attentatore, veicoli di martellanti serie di informazioni/disinformazioni, oltre che protagonisti indiscussi di quel sopra citato temibilissimo processo di disintermediazione, di cui l’uccisore-suicida va a rappresentare la più alta concretizzazione. Da sempre è l’ignoto a generare la paura nell’uomo e chi consapevolmente gioca su questo fa esercizio di terrore. Per tale motivo non saranno più la motivazione o l’ideologia a fare di un uomo un terrorista, bensì il gesto rapsodico, casuale, che ognuno potrebbe compiere appellandosi alla pura potenza del nulla. È così allora che tutti ̶ chi tra false ed obsolete credenze, chi in preda a crisi da nichilismo attivo ̶ diventiamo, o già irrimediabilmente siamo, potenziali terroristi.

Rimane, a lasciar trapelare uno spiraglio di luce o di salvezza fra le rovine e i drammi dell’Attuale, una sola, piccola porta. La ristrettezza delle sue dimensioni non pare concedere un accesso collettivo, al contrario solo individualmente sembra possibile riuscire a varcarne la soglia, unica oltre la quale possa aprirsi la via della consapevolezza. Si può di certo tentare l’ingresso, pur continuando ad ignorare se, alla fine del percorso ̶ ammesso che ne esista una ̶ , quanto si è acquisito di là da quella possa poi effettivamente servire come strumento di riscatto comune più che meramente personale. Sarà come dire che «se l’essenziale non è il credere ma il conoscere, come presuppone ogni gnosi, si tratterà di aprirsi una via nell’oscurità, usando ogni mezzo, in una sorta di incessante bricolage della conoscenza, senza avere certezza su un punto d’inizio e senza neppure figurarsi un punto d’arrivo. È questa la condizione, insieme misera e esaltante, in cui si trova a vivere chi oggi non appartiene ad alcuna confessione ma al tempo stesso si rifiuta di accettare la religione ̶ o, più precisamente, superstizione ̶ della società. È una via difficile, senza nome, senza punti di riferimento che non siano cifrati e strettamente personali. Ma è anche una via dove si incontra il soccorso imprevisto di voci affini, come in una costellazione clandestina. Non credo che di più ci si possa attendere, al momento. Eppure, se guardiamo bene, è moltissimo»⁵.

Presentazione de L’innominabile attuale presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna lo scorso 4 novembre

Note:

¹ Roberto Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano, 2017, p. 24.

² Ivi, p. 53.

³ Ivi, p. 14.

Ivi, p. 16.

Ivi, p. 32.

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