La fine della ragione: l’Apocalisse secondo Recchioni

Un’Italia socialmente distopica, dove una collettiva insania antiscentista trasforma il Belpaese in una landa sterile e medievale

Stefano Cappuccelli
La Caduta 2016–18

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Per formulare una valida distopia possono essere impiegati numerosi metodi: partendo dalla realizzazione di uno scenario catastrofico, ad un passo da un estremo apocalittico, a qualcosa di socialmente duro, anche in questo caso estremo e ovviamente anti-democratico. Spesso le varie iterazioni necessarie per la realizzazione di una funzionale distopia, si combinano con la necessità di denunciare, allarmare e in altre parole: di fare satira.

In questa opera, la prima del RRobe nazionale per Feltrinelli Comics, egli riesce a combinare i vari canoni standard del genere, proponendo uno script che a mio avviso, funziona. Partiamo con ordine.

La sua formula per quanto funzionale, è semplice: un singolo evento sociale (espediente chiave in molte opere catastrofiche) porta alla deriva una nazione — la nostra — riesumando l’atmosfera di un medioevo corroborante e oscurantista: la superstizione occlude la scienza, una nuova caccia alle streghe si insidia laddove un tempo ci riparavamo dall’ignoranza. L’ascesa di questa rinnovata ignoranza genera degrado, un degrado talmente evidente da far trasformare la nostra beneamata nazione in un paesaggio non molto dissimile da quello uscito dalla penna di Cormac McCarthy. Gli eventi che hanno preceduto La Fine della Ragione vengono narrati con un sistema che al sottoscritto ha ricordato molto l’introduzione di Mad Max: The Road Warrior, con un collage di eventi progressivamente sempre più disfattisti.

Quanto può essere forte e marmoreo l’istinto materno di una donna? A tratti incerto, se ci atteniamo a ciò che la cronaca nera, a volte, ci propone, ma non nel caso di questa madre. Recchioni non ritiene che abbiamo bisogno di nomi, e ha ragione, “la madre” basta e avanza, perché non è di un nome che dobbiamo curarci ma delle sue gesta, decisamente coraggiose e pericolose, in una società fatta di preghiere e sermoni. Sono queste le gesta: pensare di voler curare la propria figlia malata mediante l’uso della medicina, una parola fortemente bandita in una realtà dove la lotta a questa è diventata un manifesto.

L’intero libro viene introdotto con un’avvertenza, o più semplicemente un’istruzione: <<Per venire incontro ai tempi in cui viviamo, fatti di comunicazione semplificata e titoli di giornali che sono gli articoli stessi, questo libro utilizzerà un linguaggio facilitato fatto di molte immagini e di un numero estremamente limitato di parole>>. Un manuale atipico, ma che funziona come una vera e propria testa di ponte. Infatti il richiamo alla stupidità tipica dei social attuali e sulla loro demagogia spiccia è uno dei cardini di questa distopia Recchioniana: dagli avventori di tesi che contrastano ogni fondamento scientifico fino ad ora postulato, ai beceri sostenitori del No-Vax. L’ausilio del medium fumetto non è casuale, ed è sicuramente propedeutico per dar forma alla base polemica che essa vuole rappresentare.

Nella sua impostazione tecnica il tratto illustrativo è da ritenersi gradevole, ben costruito e a tratti divertente, con evidenti caricature. Ma nel La Fine della Ragione non è il disegno il vero protagonista, lo sono i suoi testi, con un importante se non fondamentale merito ad un lettering evocativo. Non è difficile, infatti, imbattersi in continue sottolineature, atte ad evidenziare parole chiave fondamentali per il senso che questa enorme protesta vuole proporre. L’opera non è esente da gag, perché al di là di quello che si potrebbe pensare, in questo fumetto si ride anche, seppur il sapore di queste risate è piuttosto amaro.

Il finale è sicuramente l’aspetto più singolare e diciamocelo: drammatico. Infatti, la ricerca della ragione da parte della madre, porterà questa nell’ultimo baluardo della conoscenza, il Forte Alamo per coloro che si sono sottratti alle dure leggi del rifiuto: un gigantesco complesso situato nelle viscere del Gran Sasso. Non serve aggiungere altro, sappiamo cosa si annida lì sotto, ed è logico pensare che proprio lì dentro, essi, si siano voluti rifugiare. Per giocare a canasta.

Ma in tutto ciò, chi è che parla? Ovviamente l’autore stesso; non solo narratore, ma anche, seppur limitatamente, protagonista. La sua voce, costante, crea quel nodo che tiene assieme l’opera, non limitandosi a narrarla fra un passo e l’altro, ma ricongiungendosi fisicamente nel finale, prendendo una radicale decisione: <<mandare affanculo il mondo>>.

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