La vocazione moralistica di Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Spassoso e tragico, schietto e minuzioso, impegnato e profondo: così si è detto di un potenziale premio Oscar. Tuttavia non è tutto oro ciò che luccica.

Filippo Congionti
La Caduta 2016–18

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Per la terza volta Martin MacDonagh torna a frequentare il genere che già in passato (7 Psychopaths e In Bruges) aveva costituito un adeguato e congeniale involucro per le tematiche messe in scena: la commedia nera, basata sull’alternanza di momenti tragici e comici, arricchita da una sfumatura di noir ed ammiccante all’ibrido fra cinema d’autore e cinema di genere dei fratelli Coen. Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film apparentemente organico e impeccabilmente strutturato: dialoghi perfettamente calibrati, sceneggiatura sobria e scorrevole, ritmo sostenuto ed equilibrato, razzismo, malattia e abuso di potere mai sganciati da un intento didattico e moralista.

Ad un anno dalla violenta morte della figlia, una madre divorziata decide di affittare tre cartelloni pubblicitari in disuso facendovi affiggere tre frasi atte a denunciare l’inadempienza dello sceriffo locale. Il gesto, che non passa inosservato, coinvolge in diversa misura una serie di personaggi che costituiscono vera anima del film. In breve tempo MacDonagh rende chiare le sue priorità: poco interessa la ricerca dell’assassino stupratore — come in un canonico thriller poliziesco — rispetto al passare in rassegna una discutibile galleria di personaggi afflitti e straziati. Ad abitare il film di MacDonagh sono, per lo più, consumati individui borderline in difficoltà con sé stessi e con il contesto in cui si trovano inseriti: tenaci e ostinati, infuriati e irriducibili, odiano, lottano, sfidano, si struggono e, infine, crollano. Soffrono e fanno soffrire, si ascoltano nei loro deliri interiori ma non ascoltano, esercitano violenza e a loro volta sono violentati, lasciano che il vortice di sterile livore li schiacci inesorabilmente: detonano in esplosioni di non-energia.

Quello che, a questo punto, il regista gongola di mostrare è l’edificante, moraleggiante e grossolano cambiamento di costoro; lo palesa, sì, ma in maniera dozzinale, eclissando un concreto e graduale itinerario psicologico dei personaggi in questione. Da qui la sensazione che, a questo congegno cinematografico assemblato ad hoc con la pretesa di trascendere la quarta parete e parlare lapalissianamente alle coscienze, manchi un quid intermedio: se questa caratteristica risulta, se non apprezzabile, funzionale nel passaggio brusco e repentino da momenti di grande tragicità a momenti amaramente umoristici, denuncia d’altro canto un grave deficit nell’operazione di inquadratura dei personaggi principali. Mildred Hayes, interpretata dall’ineccepibile Francis McDormand, è un’Antigone moderna, irriducibile e poco incline al compromesso, ma dotata di una latente sensibilità che si fa strada fra i duri lineamenti del suo viso: Mildred si relaziona con gli altri personaggi oscillando fra questi due poli, ma lasciando intendere che, prima o poi, uno di questi prevarrà sull’altro. Soluzione comodamente democratica: ci viene promesso che rifletterà se le conviene essere un’implacabile giustiziera di assassini o una madre forte che tramuterà il dolore in forza senza sterili propositi di vendetta.

L’altro personaggio chiave è l’agente Jason Dixon, egregiamente interpretato da Sam Rockwell. Il regista si spende molto su questo personaggio aggressivo, spaccone il giusto e profondamente immaturo, a tal punto da approfondirne il background casalingo ed indagarne con cura la gestualità: è il più autentico esponente di quel ravvedimento, di quella redenzione tanto agognati. Dall’abuso di potere e dalla prepotenza al sacrificio altruistico: vissero tutti felici e contenti.
Degni di essere notati anche i co-protagonisti e personaggi secondari: se la figura dello sceriffo Bill Willoughby (Woody Harrelson), in fase terminale di cancro al pancreas, può essere parzialmente ammissibile, senz’altro non lo sono gli insopportabilmente macchiettistici e caricaturali soggetti in cui ci si imbatte mano a mano. Dal momento che l’elenco si appresta a essere lungo se ne scelgano due su tutti: James (Peter Dinklage), il quale sembra esser stato messo sulla scena solo per il vuoto pretesto di esporre la sua physique du role, e Pamela (Karry Condon), la compagna diciannovenne dell’ex marito di Mildred, rigorosamente sempre sorridente e poco acculturata.
Un altro punto da chiarire riguarda le interpretazioni: eccellenti, intense e vigorose tutte; mirano ad enfatizzare il gesto, qualcosa che, nell’ottica del regista — sceneggiatore, deve necessariamente trascendere il politicamente corretto, necessariamente scavallare dei paradigmi morali prestabiliti — di fronte ai quali in realtà il film si inchina — per ottenere qualche risultato. La cinepresa, prediligendo mezzi busti e campi lunghi, svolge una duplice funzione: indagare i volti e i corpi dei personaggi, per ricostruirne i laceranti drammi interiori, e mostrarli inseriti in quel gretto ambiente provinciale che rappresenta il correlativo oggettivo di una mentalità ristretta e limitata.

E’ doverosa, però, un’opportuna considerazione: se davvero si vuole cercare un concreto punto di forza del film, questo potrebbe essere il lavoro compiuto da MacDonagh sul linguaggio. Indiscutibile merito il quale, purtroppo, è ravvisabile solo nella versione in lingua originale: l’ultima violenza presente nel film è proprio quella che il doppiaggio italiano compie nell’accingersi a tradurre lo slang, vero elemento caratterizzante dei personaggi, della loro mentalità, della loro attitudine nei confronti della vita e dei rapporti umani. Crudezza, insofferenza, odio, idiosincrasia, fragilità: elementi che solo attraverso questo linguaggio che non conosce mezzi termini, tanto realistico quanto brutale, sfondano la quarta parete.

Quindi sì, notevoli le interpretazioni e le riprese, a tal punto cristalline da mostrare nitidamente l’intima aridità di un film che, strizzando continuamente l’occhio allo spettatore nel tentativo di ingraziarselo, ostenta benevolenza, tolleranza e buoni sentimenti, facendo goffamente il verso all’etica dostoevskiana, che, senza eccessivo giudizio, tutto e tutti assolve. Sul fondo di questo calderone moralistico di bassa lega giace un’intrinseca debolezza riflessiva, una mancanza di energia nel trattare temi certamente delicati: ci viene restituito, appunto, un quasi impeccabile congegno cinematografico che si pretende coraggioso e anticonvenzionale, ma che, nei fatti, è solo un involucro stanco e debilitato, seppur pulito e fruibile, in cui incasellare compulsivamente ineccepibili attori e tematiche mainstream.
In sostanza, sarebbe poco giusto estirpare qualsiasi merito a questo che, nei suoi limiti, risulta comunque essere un prodotto compiuto e godibile, se non altro per vivere l’esperienza di essere serviti e riveriti da un cameriere che si abnega per portare alle nostre poltrone appetitose pietanze su piatti d’argento, per poi tornarsene in fretta in cucina, dove c’è ancora molto lavoro da fare. Quasi a dire fiaccamente: “Ho assolto il mio dovere, ci vediamo alla prossima portata”.

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