L’alba dello zombie contemporaneo: ricordando Romero

Raccontiamo i sei film horror dedicati alla figura dello zombie firmati dal maestro del genere George Romero

Michele Bellantuono
La Caduta 2016–18

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Non-morti, morti viventi, zombie. Sono termini entrati ormai nell’immaginario collettivo di più generazioni, non più solo nella fantasia degli appassionati di cinema horror o di first-person-shooter, videogame nei quali spesso e volentieri fanno comparsa cadaveri ambulanti in cerca di umani da divorare. Sfruttata dunque fino all’osso (spezzato e putrefatto) dal cinema di genere e dai produttori videoludici, questa orrida icona pop della contemporaneità si è fatta largo spazio anche al di fuori del proprio ambito, per così dire, di consumo, entrando nella mentalità della gente comune come nuovo incubo, ma anche come immagine potenzialmente pregnante di significati socio-politici. Grande merito in questo senso, per quanto riguarda la rilettura sociale della figura del non-morto, va al regista statunitense (di origini cubane) George Andrew Romero, scomparso la settimana scorsa.

George Romero sul set

Romero è oggi ricordato come il “padre” dello zombie moderno, per aver trasformato questa figura mitica del folklore haitiano in una sorta di grottesca controparte dell’uomo (statunitense in particolare) del XX secolo. Come cioè ha ricordato il professor Leo Braudy della University of Southern California, autore del saggio Haunted: On Ghosts, Witches, Vampires, Zombies, and Other Monsters of the Natural and Supernatural Worlds, Romero «Ha preso la figura dello zombie, che fino a quel momento era legata al territorio caraibico e parte della cultura nera caraibica, e l’ha trasformata in una metafora per tutta una serie di elementi interni alla cultura americana».

Questa metafora è stata efficacemente affrontata sotto varie sfaccettature nel suo cinema, nel quale lo zombie è sicuramente stato principale protagonista, a partire dal lungometraggio d’esordio La notte dei morti viventi, pellicola del lontano 1968, fino all’ultimo lavoro uscito nel 2009, Survival of the dead.

Ma prima di affrontare i lavori del regista, accenniamo un po’ alle origini di questo fenomeno. Lo zombie romeriano ha origine nei miti della cultura dell’area caraibica, nello specifico di Haiti, nascendo nel ‘600 nel contesto della schiavitù africana sotto il duro dominio dei colonizzatori francesi. I sentimenti di oppressione, prigionia e cancellazione dell’identità dell’individuo portarono la popolazione schiavizzata a sviluppare una nuova, pessimistica concezione dell’aldilà. Da luogo paradisiaco nel quale vivere senza catene a terribile proseguimento dell’esistenza da schiavi, in una condizione di non-morte: una perfetta metafora esistenziale della condizione dell’uomo colonizzato e privato di ogni libertà.

Successivamente, in età post-coloniale, il mito dei morti-che-camminano è entrato a far parte del repertorio magico dei cultisti Voodoo: la superstizione vuole che gli sciamani di questa religione autoctona abbiano il potere di ridare la vita ai morti, destinati a diventare servitori dello stregone rianimatore, tornando ancora a camminare sulla terra in qualità di schiavi privi di anima. Una nuova rappresentazione folkoristica del morto vivente, ma ancora legata nella sua natura ai vincoli impressi indelebilmente dall’oppressione colonialista del XVII secolo.

Questa suggestiva commistione di folklore, magia nera e controllo della morte ha esercitato un importante influsso sulla cultura americana del XX secolo. In particolare sul cinema di consumo, quello che già negli anni ’30 iniziava a produrre film di genere con la presenza di zombie: è del 1932 L’isola degli zombies, pellicola horror con Bela Lugosi nel ruolo di uno sciamano voodoo, quello che oggi è considerato il primo film ad aver introdotto sul grande schermo la figura dello zombie, nella forma tradizionale legata strettamente alla cultura haitiana. Altra tappa cinematografica importante per lo sviluppo dello zombie film è Ho camminato con uno zombie, film del 1943 del regista francese Jacques Tourneur, uno dei pionieri del genere horror: il suo film è considerato uno dei più influenti per il filone di cui parliamo, ma ancora è legato ad una rappresentazione del non-morto come eredità del colonialismo.

“Ho camminato con uno zombie” (1943)

Dobbiamo attendere però la fine degli anni ’60 e l’intuizione di un regista brillante come Romero per vedere una nuova formulazione dello zombie: con l’esordio alla regia del regista — quel La notte dei morti viventi diventata presto pellicola di culto destinata ad influenzare definitivamente l’immaginario del non-morto — il Novecento, coi suoi vizi e difetti, entra in contatto col mito dello zombie, assimilandolo nella propria cultura per farne uno dei suoi più grotteschi rappresentanti. Romero, politicamente legato all’ideologia socialista, vuole infatti creare un nuovo simbolo per la società sua contemporanea, un’allegoria mostruosa per un’America ipnotizzata dal benessere e dalle illusioni del capitalismo, schiava del suo vizio e, soprattutto, vorace.

Il cinema horror di Romero non può essere letto al di fuori di questo pensiero progressista, anti-repubblicano e nello specifico anti-reaganiano, come dimostra una filmografia in buona parte dedicata a criticare il consumismo sfrenato della società del benessere, della quale gli Stati Uniti sono da sempre stati massimi rappresentati. Questa riflessione è inserita lucidamente nelle pellicole romeriane dedicate agli zombie, mostrati barcollanti nell’atto di assalire comunità umane di vario tipo, tutte collocate nelle vicinanze della città natale del regista, Pittsburgh. Far riflettere il pubblico sugli eccessi della società attuale attraverso un procedimento metaforico facilitato dai ritmi ben gestiti del miglior cinema di genere: questo è il primo obiettivo di Romero, assieme all’intrattenimento che resta un elemento imprescindibile. Vediamo ora quale percorso evolutivo ha subito la figura dello zombie, in rapporto a quella umana, all’interno del suo cinema.

La notte dei morti viventi

L’esordio del regista resta uno dei suoi film più conosciuti e sicuramente il più seminale ai fini dell’influenza sull’immaginario contemporaneo legato al morto-vivente; che La notte dei morti viventi presenta proprio nella forma che tuttora ci è più familiare. Per la prima volta nella storia di questo mito, nato come dicevamo nel folklore dell’area caraibica, si arriva a immaginare un mostro aggressivo e affamato di carne umana, bramata come unico obiettivo da perseguire nella non-morte. Romero ha confessato di essersi ispirato al fenomeno di vampirismo raccontato nel romanzo post-apocalittico Io sono leggenda di Richard Matheson, trasformando gli zombi da semplici schiavi ad esseri autonomi, famelici e sanguinari ma lenti nel movimento, capaci di passare la condizione alle proprie vittime. Requisito per (ri)ucciderli è il colpirli alla testa, come scoprono presto i protagonisti del film, barricati in una casa isolata assalita da un’orda questi esseri.

Una scelta importante del cast fu quella che portò ad avere nel ruolo principale un attore afroamericano, Duane Jones. E proprio il tema della diversità razziale, seppure non centrale per l’autore, aleggia su questo primo film: le tensioni tra Ben (interpretato da Jones) e un altro degli uomini intrappolati nella casa, deciso a prendere il comando, non provocano allusioni al colore della pelle, ma c’è un’eloquenza significativa anche in questo silenzio. Il finale costituisce una sorta di esasperazione drammatica di questa tensione: Ben sopravvive alla terribile notte ma, affacciandosi ad una finestra, viene ucciso con una fucilata da un gruppo di stereotipici redneck, entusiastici cacciatori di zombie. Un’immagine conclusiva che sembra comunque lanciare un messaggio, specie se ricordiamo che il ’68, oltre ad essere l’anno di uscita del flm, segna la morte di Martin Luther King, che Romero apprese dopo aver già girato questa particolare scena.

Zombi

Questo secondo film (il cui titolo originale si tradurrebbe come “L’alba dei morti viventi”) è generalmente considerato il miglior lavoro del regista. Si tratta in effetti dell’esempio più lampante di quel suo peculiare modo di fare ottimo cinema dell’orrore infondendolo grottescamente con un significato sociale. Il tono è come sempre critico e qui Romero si scaglia in particolare contro la tendenza, all’epoca tipica dell’americano medio ma ormai estesa su scala globale, del consumismo di massa. Gli zombie prendono d’assedio un vasto centro commerciale, all’interno del quale si sono rifugiati un gruppo di uomini atterrati sul tetto in elicottero: una donna incinta, il pilota suo compagno e due agenti armati della SWAT. Dopo essersi assicurati un proprio rifugio sicuro all’interno di un’area di servizio, i nostri protagonisti decidono di esplorare il centro commerciale infestato, eliminando di tanto in tanto qualche zombie. È così che, perdendosi tra gli svariati negozi, finiranno per darsi all’acquisto compulsivo, razziando non solo il necessario per sopravvivere settimane all’invasione (armi incluse), ma anche accessori superflui, beni di consumo di ogni tipo.

Anche in questo film abbiamo un attore di colore (Ken Foree) in un ruolo da leader, colui che coordina la strategia di sopravvivenza. Ed è lui a trasmetterci esplicitamente il messaggio di Romero, nel rispondere alla perplessità di uno dei personaggi di fronte all’avanzata dei non-morti nel supermercato: «Dev’essere l’istinto. Il ricordo di quello che erano abituati a fare. Era un posto importante quando erano vivi». La distanza tra i vivi della società capitalistica indirizzata al consumo di massa e i morti viventi barcollanti tra le vetrine dei negozi sembra essere, nella metafora horror del consumismo costruita da Romero, molto sottile.

Il giorno degli zombi

Nel 1985 esce il terzo capitolo di quella ideale trilogia costituita dalle tre fasi dell’avanzata dei morti: dopo la notte e l’alba, l’invasione non si è fermata ed anzi è arrivata al giorno, ovvero al suo culmine. Mentre nei film precedenti gli scienziati brancolavano nel buio nel tentativo di risolvere il fenomeno del ritorno dei morti, in questo caso tutta l’attenzione è focalizzata sugli esperimenti di uno scienziato, il dottor “Frankenstein” Logan, operativo in una base sotterranea difesa da un gruppo di militari dal grilletto decisamente facile. In questo contesto circoscritto, nel quale gli zombie vengono catturati “vivi” per subire gli esperimenti di Logan, i conflitti tra il team di suoi assistenti e gli uomini armati fino ai denti sono presto provocati: questi ultimi non comprendendo gli sforzi sperimentali di Logan, che tenta sostanzialmente di “educare” gli zombie a non attaccare gli umani. Così decidono di abusare del loro potere militare e assumere con la forza il controllo della base, con conseguenze tragiche.

Romero ha dichiarato che l’obiettivo de Il giorno degli zombi era quello di raccontare la nascita irrazionale di un conflitto tra esseri umani (perfettamente viventi) in una situazione critica come quella dell’invasione dei non-morti (che qui passano decisamente come il male minore). Uno di questi zombie, Bub, subisce di fatto gli effetti della controversa terapia dello scienziato, arrivando a ri-umanizzarsi parzialmente: ucciso il suo educatore, inibisce la fame di carne umana per cercare vendetta. Un ulteriore passo in direzione di una sovrapposizione tra uomini viventi e zombie.

La terra dei morti viventi

Sono passati non pochi anni dall’ultimo film sul tema, ma Romero torna nel 2005 a raccontare l’evoluzione dei suoi zombie, sviluppando ulteriormente il concetto di umanizzazione dei mostri e tornando a puntare il dito contro quello che lui, da buon americano di sinistra, considera un altro importante nemico, ovvero il capitalismo. I due concetti trovano efficace rappresentazione ne La terra dei morti viventi, pellicola che racconta la resistenza di un conglomerato urbano all’invasione. La città, una Pittsburgh post-apocalittica, è difesa da una cinta elettrificata, ma i beni disponibili non sono divisi equamente: le zone periferiche sono costituite da gruppi di favelas, più esposte alla minaccia e povere di risorse.

Nel mezzo di questa struttura feudale si erge Fiddler’s Green, un grattacielo riservato alla popolazione benestante, rifornito di beni di ogni tipo da gruppi di razziatori specializzati, inviati con mezzi corazzati nelle terre invase dagli zombie. Il film, pur non essendo parte della più celebrata trilogia cult romeriana, percorre lucidamente gli stessi passi, di fatto rappresentando con uno scenario dell’orrore una sorta di rivolta di classe: un gruppo di zombie, capitanati da un non-morto afroamericano vestito da operaio, riesce con intelligenza a fare breccia a Pittsburgh, invadendo infine lo stesso grattacielo. L’invasione questa volta assume i toni di una lotta sociale, ma non sono gli zombie ad essere elevati a grado di esseri umani: sono questi ultimi, nell’ottica di Romero, a sembrare sempre meno “umani” e sempre più privi di anima, come le loro controparti mostruose.

Le cronache dei morti viventi

Girato nello stile del mockumentary, un finto documentario fatto passare per reale nell’illusione cinematografica (un genere nato sul modello di The Blair Witch Project), questo film è uno dei più interessanti della filmografia di Romero, una sorta di nuovo punto di partenza per il franchise iniziato nel ’68. In parte riflessione metacinematografica sul ruolo del documentarista e la necessità del racconto, in parte pellicola che sembra strizzare l’occhio al mondo dell’horror di serie B, il film torna su tematiche familiari ma con una rappresentazione completamente nuova ed una focalizzazione speciale sul fenomeno del giornalismo partecipativo. Le cronache dei morti viventi (Diary of the dead in originale) si presenta allo spettatore come un filmato girato e montato dai giovani protagonisti, studenti del college impegnati col proprio professore a girare un film horror a basso budget. Durante le riprese, viene annunciato il fenomeno del risveglio dei morti e il gruppo si ritrova a fuggire in furgone per tornare dai propri cari.

Il film racconta questa fuga disperata attraverso l’occhio della cinepresa, tenuta ossessivamente accesa da Jason, che intende documentare ogni singolo evento, non senza un certo fastidio dei terrorizzati compagni. La prospettiva della camera a mano rende il ritmo del film frenetico ed il terrore provocato dalla presenza dei non-morti, ancora più vicini all’obiettivo della camera, forse non è mai stato così efficacemente ritratto come in questo capitolo, accompagnato da un pizzico di macabra ironia. Romero firma così uno dei mockumentary migliori degli ultimi anni, integrandolo perfettamente all’interno della sua filmografia, come dimostra questo scambio di battute tra la coppia protagonista: «It used to be us against us. Now it’s us against them» commenta Jason girando il suo film; nel montaggio finale, la fidanzata Debra aggiunge la propria cruciale considerazione: «He was right, us against them. Except they’re us».

Survival of the Dead — L’isola dei sopravvissuti

E alla frase appena citata si ricollega l’ultimo film di Romero, che in effetti funge da sequel de Le cronache dei morti viventi. Il film racconta le vicende di un gruppo di militari alla ricerca di un luogo remoto dove potersi isolare dall’ondata di zombie; questi personaggi compaiono nel precedente film, ripresi per pochi attimi da Jason nell’atto di razziare il furgoncino dei suoi compagni. Optano infine per trovare rifugio in un’isola, nella quale vivono due famiglie irlandesi in lotta tra loro, i Muldoon e gli O’Flynn. I primi sperano di poter riabilitare in futuro i propri cari già mutati in zombie, tenendoli quindi imprigionati in attesa di una cura; gli O’Flynn, capitanati da Patrick (Kenneth Welsh), optano invece per la vecchia soluzione: un colpo in testa per ogni corpo tornato in vita.

Quest’ultima pellicola è veramente il testamento cinematografico di Romero e della lunga trafila di suoi film dedicati ai morti viventi. Survival of the Dead è il chiaro punto di arrivo di un percorso coerente con l’ideologia del regista: dall’umanità vivente in lotta contro la disumanità non-morta si passa definitivamente (o meglio si torna) al familiare homo homini lupus, ovvero al conflitto semplicemente irrazionale tra esseri viventi, qui rappresentato con il ritratto caricaturale, ironico ma profondamente drammatico, di due fazioni in guerra tra loro. Lo zombie costituisce a questo punto una minaccia quasi secondaria. Dopo ben sei film dedicati alla minaccia tornata dalla morte, siamo messi di fronte ad una realtà ancora più dura: il nostro vero nemico siamo noi.

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