L’assassinio di Gianni Versace — e di una serie TV promettente

La seconda stagione di American Crime Story, tra gossip e verità, non giustifica la sua promozione massiccia

Tommaso Tecchi
La Caduta 2016–18

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Lo scorso venerdì si è conclusa una delle serie televisive più attese di quest’anno: L’assassinio di Gianni Versace, ovvero la seconda stagione di American Crime Story. L’opera antologica di Ryan Murphy, dopo aver raccontato l’ipocrisia del caso O. J. Simpson (ve ne abbiamo parlato qui) si concentra su un altro omicidio glamour, quello del leggendario stilista siciliano Gianni Versace, avvenuto nel 1997 per mano del serial killer Andrew Cunanan. Occorre subito una precisazione: se per la prima stagione gli autori avevano il facile compito di adattare alla fiction ore e ore di riprese dal tribunale e di dirette dei telegiornali, senza doversi di fatto inventare nulla, il caso Versace e l’uccisione delle altre vittime di Cunanan sono tuttora avvolte nel mistero. Per ricostruire le gesta dell’assassino, Murphy si è quindi affidato al libro d’inchiesta di Maureen Orth Vulgar Favors: Andrew Cunanan, Gianni Versace, and the Largest Failed Manhunt in U.S. History, che dai familiari dei diretti interessati è stato definito un collage di gossip e voci di corridoio mai confermate. La stessa famiglia Versace ai tempi della sua uscita prese le distanze dal testo e di conseguenza non poteva accogliere con gioia un suo adattamento televisivo. Principale motivo di discordia è il collegamento diretto tra il killer e le sue cinque vittime tracciato dalla Orth, che ufficialmente è sempre stato smentito. Per essere più chiari: Andrew Cunanan era un giovane gigolò omosessuale che lavorava principalmente per uomini molto ricchi e più anziani di lui; in ordine ha ucciso un suo amico uscito dalla marina per via del suo orientamento sessuale, un suo ex, l’anziano magnate delle costruzioni Lee Miglin, il custode di un cimitero che ha solo avuto la sfortuna di possedere un pickup ideale per la fuga del killer, Gianni Versace e poi sé stesso prima che la polizia potesse catturarlo. Ora, tolti gli unici due uomini di cui è certo il coinvolgimento con il loro assassino e il casuale malcapitato, restano le due vittime più celebri. Se lo stilista, nonostante Donatella e co. abbiano sempre negato conoscesse Cunanan, rientrerebbe nel target di clientela del gigolò, Lee Miglin era un uomo cattolico, sposato con figli. La Orth, e di conseguenza Ryan Murphy, lo dipingono invece come un gay represso che il giorno della sua morte ha personalmente invitato in casa sua il giovane assassino, approfittando dell’assenza di sua moglie. L’altro elemento ad aver suscitato polemiche e smentite è la rappresentazione di un Versace affetto da HIV nei suoi ultimi giorni di vita.

Se le premesse contengono già diverse criticità, a complicare ulteriormente il quadro ci hanno pensato gli sceneggiatori di American Crime Story, decidendo di raccontare la vicenda in un ordine alquanto atipico: la serie inizia dalla fine, con la morte di Versace (e fino a qui nulla di strano), per poi procedere con la terza vittima (Lee Miglin), la prima (l’ex militare Jeff Trail), la seconda (l’amico/compagno David Madson), la quarta (il custode William Reese), e si chiude infine con il suicidio di Cunanan. Questa decisione ha fatto sì che gli showrunner concentrassero tutti gli omicidi nelle prime quattro puntate, che sono in assoluto le migliori della serie. Lo stile cruento e la fotografia destabilizzante, marchi di fabbrica di ogni lavoro firmato da Murphy (vedi American Horror Story) rendono giustizia all’orrore scatenato da Cunanan e anche i momenti di maggiore intensità emotiva sono resi alla perfezione. I problemi sorgono dal quinto episodio in poi, dove assistiamo ad alcune scene sconnesse della vita sfarzosa di Gianni Versace — tra lavoro, problemi di coppia con il partner Antonio D’Amico (Ricky Martin) e litigi con Donatella — e a lunghi flashback dell’infanzia e dell’adolescenza del killer. L’intento era quello di costruire delle relazioni causa-effetto tra la formazione di Cunanan e la sua trasformazione in uno spietato assassino, ma di fatto la maggior parte delle soluzioni narrative appaiono fin troppo scontate. Il padre è un broker filippino arricchitosi truffando e fuggito a Manila dopo il primo mandato d’arresto, la madre una donna italiana debole e sottomessa; entrambi i genitori stravedono per il giovane Andrew, che nonostante la società non accetti la sua omosessualità è molto popolare. Non appena le illusioni di successo della sua vita iniziano a crollare il ragazzo costruisce uno scudo di menzogne e diventa così bravo da avvicinare gli uomini facoltosi che diventeranno poi i suoi clienti e le sue vittime. Lo stesso Versace rimane ammaliato dal fascino di Andrew, ma poi lo rifiuta imbarazzato dal suo continuo vantarsi di cose non vere. Gli stessi moventi degli omicidi ci vengono mostrati quasi come una giustificazione: Lee Miglin e Jeff Trail volevano nascondere la loro omosessualità a causa delle loro posizioni professionali, David Madson e Versace avevano smascherato e respinto Cunanan.

Lo stile narrativo non è però il primo dei difetti di quest’ultima stagione di American Crime Story: è l’intera raffigurazione della quotidianità dei Versace nella lussuosa villa di Miami a fare più acqua. Stando ai contenuti promozionali le vicende di Gianni, Antonio e Donatella sembravano dover essere il cuore della serie; ma di fatto (e col senno di poi fortunatamente) non sono altro che il principale subplot. Come temevo prima di cominciare la visione, lo stile a tratti pacchiano di Ryan Murphy dilaga tra le pareti di Casa Casuarina. La recitazione melodrammatica di Ricky Martin e di un’appannata Penelope Cruz (Donatella) fanno sembrare le sequenze dedicate alla maison di moda una telenovela sudamericana, Edgar Ramirez interpreta Versace come un semplice artista un po’ nevrotico e continuamente concentrato sul suo futuro lascito dopo la morte. Donatella passa nel giro di pochi minuti dall’essere un’incompetente all’ombra del fratello all’essere il futuro dell’azienda solo grazie ad una breve litigata e a qualche incoraggiamento; mentre il fratello maggiore Santo sembra più un accompagnatore che un membro integrante della famiglia. L’unico protagonista della serie che dà un senso a queste scelte discutibili è un monumentale Darren Criss, perfetto nei panni di un Cunanan progressivamente sempre più distaccato dalla realtà. Merita una menzione anche Max Greenfield (Schmidt di New Girl), che interpreta in maniera paradossalmente molto divertente (ma senza risultare fuori luogo) un omosessuale sieropositivo che si aggira nell’hotel dove risiede il killer mentre pianifica il suo ultimo colpo.

La domanda che mi sono posto dopo aver finito di guardare L’assassinio di Gianni Versace è: era necessario scomodare i morti, infastidire le loro famiglie con un racconto che non sarà mai dimostrato come vero, solamente per rimarcare che l’FBI a causa dell’omosessualità di un ricercato e delle sue vittime ha preso sottogamba una caccia all’uomo di tale portata? Oltretutto, a differenza de Il caso O.J. Simpson, le scene relative alle operazione di polizia sono confinate a pochi saltuari minuti, soffocate da uno sfarzo immotivato che dimostra poca sensibilità e che riesce ad estinugersi solo nel momento in cui l’assassino si chiude in casa costretto a nutrirsi con cibo per cani, si rasa i capelli e si spara in bocca prima che gli agenti buttino giù la sua porta. Ci sono sicuramente altri modi per descrivere la tossicità del sogno americano e nemmeno la scritta finale secondo cui “la serie si ispira a fatti realmente accaduti e ai rapporti investigativi” può giustificare una scelta stilistica maldestra.

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