Lazzaro felice: popolo di santi, contadini e lupi

Alice Rohrwacher, premiata al festival di Cannes, racconta una fiaba sulla virtù in un mondo di aprofittatori

Michele Bellantuono
La Caduta 2016–18

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A molti piace decantare la fine del grande cinema italiano. Altri preferiscono invece porre fede nei cosiddetti nuovi capolavori. La verità è che registi di talento non mancano al nostro Paese. Ma in quale direzione sta davvero andando il nostro cinema? Non ce la sentiamo di rispondere con certezza, se non compiendo una fondamentale osservazione: l’industria cinematografica italiana, specialmente quella indipendente, sempre presente e ben accolta nei festival internazionali, continua a produrre interessanti pellicole rivolte soprattutto all’indagine realistica della contemporaneità, ai disagi delle fasce più povere ed emarginate della società. Questa ricerca di “storie del margine”, talvolta esasperata ma che spesso ama concedersi toni lirici, gode di grande fortuna all’interno della produzione italiana, tanto da spingere le giurie di alcuni tra i principali festival cinematografici a premiare questa sorta di “nuova onda” formata da giovani cineasti, che evidentemente sentono di far parte di una generazione di autori destinata a denunciare e a raccontare con criteri stilistici non distanti da quelli del nostro stimato neorealismo.

Naturalmente, con le dovute variazioni di stile a seconda della personale poetica dell’autore: Jonas Carpignano ad esempio sceglie la via del racconto spassionato delle giornate di un giovanissimo rom che si destreggia nella degradata periferia di Gioia Tauro, mentre Garrone torna (dopo la deriva fantasy de Il racconto dei racconti) a rivolgere lo sguardo verso atti di violenza in una sporca cornice urbana che ricorda Gomorra, nel suo Dogman. Il film di Garrone ha ricevuto una calorosa accoglienza a Cannes, assieme all’altro importante titolo italiano in concorso, quel Lazzaro felice di Alice Rohrwacher che si è guadagnato oltre dieci minuti di applausi.

Alice Rohrwacher

Se nel caso di A Ciambra si può compiere un paragone con quel neorealismo che già abbiamo ricordato, per Lazzaro felice non è altrettanto possibile questo accostamento. Si è parlato piuttosto di un’atmosfera che ricorda molto quella del cinema di Olmi, L’albero degli zoccoli in particolare è stato chiamato in causa più volte. La pellicola di Alice Rohrwacher, la cui sceneggiatura è stata premiata allo scorsa edizione del Festival di Cannes, parte in effetti da uno scenario contadino che facilmente rievoca il cinema del regista bergamasco, recentemente scomparso. Non sono date specifiche indicazioni geografiche: ci troviamo nella tenuta dell’Inviolata, tipica casa padronale italiana gestita dalla marchesa Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi), anche detta “serpe” da chi si sporca le mani lavorando nei campi di sua proprietà. In questo anonimo angolo d’Italia resiste dunque ancora nell’illegalità la mezzadria: del resto ogni uomo per sua natura è portato a sfruttare il prossimo, secondo la marchesa. In effetti, nel remoto podere dell’Inviolata la De Luna non è la sola a concretizzare questa filosofia di vita, in quanto sono gli stessi contadini a mettere in pratica una propria forma di sfruttamento: vittima inconsapevole è Lazzaro (interpretato dall’attore neofita Adriano Tardiolo), ragazzo stachanovista di poche parole, dal sorriso ingenuo e dalla mente semplice, condannato a subire gli ordini di tutti, nobili o agricoltori che siano. In una cornice apparentemente realistica si instaurano grazie a questo curioso personaggio situazioni ai limiti dell’assurdo, incluso il presunto rapimento del figlio della marchesa Tancredi (concordato con un ignaro Lazzaro). L’arrivo dei carabinieri nella tenuta ricondurrà tutto alla normalità; o quasi: i contadini realizzano che per legge devono essere pagati e vengono così sottratti alla tirannia della marchesa, mentre Lazzaro ha un incidente apparentemente fatale, cadendo da una rupe.

La Marchesa De Luna col figlio Tancredi

Eppure il Lazzaro della Rohrwacher è un personaggio che per sua natura è destinato ad andare oltre le barriere del racconto realistico. Non muore perché destinato alla rinascita, come già il suo nome forse troppo didascalicamente suggerisce. La presenza di questa buon’anima sorridente e miracolata ci allontana da quella prospettiva realistica, quasi al limite della denuncia sociale, che pure sembrava caratterizzare la storia nel suo principio. La sensazione è allora quella di trovarsi immersi nella visione di una sorta di fiaba contemporanea, nella quale il passaggio dalla ruralità all’urbanità più misera è imposto da una forza superiore, da uno Stato che in fondo per questa gente è solo un diverso (e in effetti non più generoso) padrone. Adottando questa chiave di lettura del racconto, possiamo individuare diversi personaggi dai tratti fiabeschi: il protagonista buono dal talento divino, la marchesa malvagia, i contadini che evocano il vento; infine non manca all’appello uno degli animali topici di questo genere, il lupo.

Lazzaro

Alla luce di questa evidente deriva nel mondo del fantastico, sia pure riscoperto in una cornice prima rurale quindi urbana fin troppo concreta (un gruppo di ex-contadini si dedica ora a furti e truffe), il film della Rohrwacher si allontana con una certa determinazione da un discorso attorno alla rappresentazione di problematiche realtà sociali (come quelle raccontate da vicino da Jonas Carpignano). Alcune critiche si sono comunque spinte a inquadrare il film in questo discorso, riconoscendo in Lazzaro felice l’ennesimo prodotto cinematografico dedicato alla rappresentazione di quell’Italia debole, misera e afflitta che alcuni critici evidentemente non vorrebbero più vedere proiettata sul grande schermo. Una critica questa che, in un discorso attorno al circolo vizioso nel quale sembra essersi adagiato il nostro cinema indipendente (quella maniera di fare cinema “neo-neorealista” della quale parlavamo a inizio articolo), potrebbe anche essere condivisa, ma che alla luce di quanto evidenziato circa la natura fiabesca di personaggi e situazioni risulta alla stregua di un giudizio affrettato e impreciso. Questo Lazzaro sorridente non è infatti solo simbolo della scoperta nella povertà di una ricchezza interiore, la bontà, eccezionale virtù umana; Lazzaro, come poi è stato confermato dalla stessa regista, è soprattutto incarnazione dell’immutabilità: è l’elemento che resta costante in un mondo in continuo mutamento. Sappiamo che la velocità è uno dei tratti caratteristici della società contemporanea e chi non regge il passo viene travolto dalla storia: è quel che avviene ai nostri ex-mezzadri (tra i quali spicca il pittoresco personaggio della ladra Antonia, interpretata da Alba Rohrwacher), che non escono affatto vincitori dalla passiva conquista della libertà. La povertà non è dunque affatto esaltata, così come nemmeno la ricchezza può elevare. Il film sembra affermare attraverso la presenza del suo sereno protagonista, immolato infine sull’altare della storia, che per essere santi, oggi più di ieri, è necessario non lasciarsi condizionare dal mondo esterno e da una società egoistica, fatta di individui che probabilmente faticano a conquistare la sincerità del sorriso di questo Lazzaro felice.

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