Illustrazione a cura di Marika Banci

LCEnterprise — Numero 0

Prima antologia narrativa a cura de La Caduta presentata all’edizione 2017 del Ratatà — festival di illustrazione, fumetto, editoria indipendente

La Caduta
La Caduta 2016–18
19 min readApr 9, 2018

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L’edizione 2018 del Ratatà è alle porte. La Caduta, oltre ad essere media partner dell’evento, anche quest’anno sarà presente alla mostra mercato con un proprio spazio in cui esporrà la seconda raccolta antologica pubblicata sotto l’etichetta LCEnterprise. In attesa di poter mettere le mani sul nuovo numero (che si pone per tematiche, spirito ed estetica spaziale in perfetta continuità con la prima raccolta), riportiamo qui di seguito il materiale del Numero 0.

INTERFERENZA

Floating

Illustrazione a cura di Marika Banci

Dentro, la polvere e i rumori tipicamente prodotti da esseri umani annoiati. Fuori, la tempesta. L’atmosfera stantia della stanza è così forte da togliermi la forza. Stendo le gambe sul letto, il braccio sinistro poggiato sulla fronte, vano tentativo di dare sollievo all’emicrania, il destro lasciato a penzolare vicino al comodino. Con le dita colpisco il telecomando della tv: cade per terra e una batteria rotola sul pavimento. Dannazione. Mentre mi allungo per raccoglierlo, dalla sala arriva il rumore incrociato di due televisori.

Sento le grida scoordinate di un cronista sportivo. Assieme sento le voci acute e eccitate di alcune donne in un talk show. Non li vedo, ma posso immaginare i loro volti: vedo le vene ingrossate del cronista, paonazzo e baffuto. Cerco di cancellare subito l’immagine delle donne, che mi crea un certo disgusto. La solita merda televisiva domenicale. La batteria entra con un clic, rumore meccanico e insignificante che diventa l’inno di questo malato pomeriggio. Accendo la tv e scorro disinteressato i canali. All’improvviso, mentre il televisore si sta sintonizzando sul gruppo di grottesche comari, un tuono scuote la finestra. Un fulmine è caduto sopra la casa, penso.

Noto che il talk show è stato sostituito da un ben più stimolante effetto neve. Un guasto all’antenna?
Prendo torcia e ombrello ed esco indolenzito a controllare. Lascio i miei a gestire da soli i primi sintomi dell’astinenza da merda televisiva. Punto la luce verso il tetto e…una figura, una strana sagoma imbottita, si agita sul tetto, aggrappata all’antenna. Vuole raddrizzarla? “Oh che cazzo ci fai lassù?!” urlo. La figura si ferma e la luce della torcia si riflette contro una superficie piatta e lucida. Attimi di cecità, poi riconosco l’oggetto impugnato da quel tipo: è una lama. Una spada? Il tizio la alza e con un colpo secco, manco fosse un cazzo di samurai, trancia l’antenna. Impreco con una certa violenza. Al posto dell’antenna, questo pazzo individuo conficca la spada. Subito la colpisce un altro fulmine.

Sto allucinando? Perché ora scorgo nitida, grazie al bagliore, la sagoma: sono sicuro, quel tizio indossa una tuta spaziale e la sua arma era una di quelle spade giapponesi, quelle che tanti amano piazzare sugli scaffali. E lui che cazzo ci fa lì sopra? Ma è già svanito nel nulla. Confuso e un po’ incazzato, torno dentro casa e noto subito qualcosa di bizzarro: i televisori di sala e cucina funzionano perfettamente. Fisso gli schermi. I programmi…non sono gli stessi di prima. Che diavolo stanno trasmettendo? Qualcosa non quadra, per nulla. Il commento sportivo e le donne rifatte e concitate hanno lasciato posto a programmi mai visti prima.

Corro in camera mia. L’effetto neve è sparito anche qui: così inizio a fare zapping. Non posso credere ai miei occhi! Scenografie che manco al cinema…serie tv inedite…canali di musica ignota…canali di letteratura…approfondimenti culturali…Stringo con forza il telecomando…ma il mal di testa si è ora trasformato in una strana sensazione di leggerezza. Sorrido, affascinato dallo schermo che ha catturato la mia mente…non sento più il peso del corpo…galleggio…la tv si solleva dal tavolo e inizia a fluttuare liberamente…il telecomando nuota nell’atmosfera della stanza…lo seguono tutti gli altri oggetti, che ora galleggiano nell’aria…il tubo catodico incide nella mia mente colori, sensazioni, dettagli, informazioni, suggestioni nuove… Fuori dalla finestra, lo spazio. E nel buio illuminato dallo schermo scorgo la sagoma di un astronauta. Una mano stringe un’antenna spezzata. L’altra mi rivolge un pollice alzato. E allora lascio che il peso abbandoni il mio corpo…
…Floating into space.

(A cura di Michele Bellantuono)

Nunc mechanica dimittis | interfero

Illustrazione a cura di Beatrice Schena

Sta uscendo di casa, è già in ascensore. Arriva al piano terra, fa per uscire. Si
chiude la porta alle spalle e già non si ricorda se ha inchiavato bene casa, non
si ricorda se precisamente ha preso le due chiavi che chiudono la porta e
girato tre volte sopra e quattro volte sotto, non se lo ricorda. Fuori è ancora
buio, sta andando a lavorare. Un lavoro da cui è così assorbito che non trova
più spazio nella mente per pensieri residui. (Tantomeno pianificare uscite con
gli amici routinari, pressoché abbandonati e puntualmente rimbalzati con
qualche frase arche-tipica della messaggistica istantanea). Andare a dormire
presto, svegliarsi presto, perpetuare la quotidianità senza sbalzi — lui non si dà
più modo di notare, o quantomeno registrare, i suoi stati d’animo, cosa pensa
e come sta, quando sta da solo, quando sta insieme agli altri, quando lo vuole
lui e quando si sente forzato. (La meccanica non gli interessa). Si vede come un
costrutto di derivati, si vede passivo e non protagonista, nonostante creda di
essere l’artefice di questa situazione, di questo suo pezzo di vita. Ricerca
assiduamente la solitudine e al tempo stesso la compagnia; procede per
contraddizioni, un coacervo di frasi e pensieri che non concludono, che
s’affastellano bruciando i fili che lo collegano agli altri. Rifugge nella
tecnologia: il device come unico amico. Gli amici veri sono sempre da
un’altra parte, le occasioni di reale compresenza si sono diradate a tal punto
che quando accadono lui va in cortocircuito e si trova a credere che non
siano poi così reali. È convinto del maggior grado di realtà che hanno i
simulacri piuttosto delle stesse persone. È una relazione d’amicizia alterata
perché distante e distaccata, sempre mediata: la realtà dei fatti è che lui passa
sette ore al computer e non riesce più a guardare fuori dalla finestra, non
riesce ad uscire in terrazzo per fumarsi una sigaretta senza avere la sensazione
d’essere guardato, osservato — che farebbe anche piacere, pensa, se gli occhi
non fossero solo estranei, e i volti smorfie di anni di spaventi e illusioni. Ha
come la percezione che i fili, che lo tenevano saldo a certe idee e a certe
persone, ora si slaccino da soli, si sfaldino con una facilità impressionante,
non appena lui fa un passo indietro. Non appena tira su il muro. L’attività
celebrale interferisce col piano di realtà: è indeciso sulla strada migliore da
percorrere per raggiungere la libreria, il posto di lavoro. La domenica non
pranza quasi mai e vorrebbe stare fuori tutto il giorno, passeggiare con
qualcuno, anche sotto la pioggia, anche in silenzio; ma la comunicazione
mediata lo riporta nel territorio del dubbio. In realtà la domenica si sfonda di
cibo e non esce, non guarda neanche fuori dalla finestra. A volte l’istinto è
non aprirle mai più: barricarsi in casa e vedere se e quanto ci si impiega a far

fuori l’ossigeno, quando si arriva all’anidride carbonica, al soffocare. Ogni
sera spera che l’enterprise per cui lavora lo spedisca su qualche base,
sperimentare il piacere di uno sguardo regalato all’infinito, lo sfondo nero
dietro i vetri di una navicella: paesaggio aerospaziale, nessun segno di vita. Si
sentirebbe più leggero. Peccato sia ancora fermo fuori dal portone: nella
divagazione però il corpo non s’è mosso. È mattina presto. Il bar davanti è
praticamente vuoto, un anziano è seduto. Incrociano lo sguardo. Finalmente
si riprende: apre il portone, richiama l’ascensore, infila le chiavi: scopre che
aveva chiuso per bene — un’ira profonda sale dallo stomaco rapida al cervello: si dà qualche pugno forte sulla pancia per sfogarsi. Ora è in bagno, è appena uscito dalla doccia. La finestra chiusa. Alza lo sguardo allo specchio e non si vede. Strisce di vapore hanno reso lo specchio opaco, interferiscono con l’immagine di sé, compromessa dai costrutti e dalle intermittenze del
pensiero, dal tempo che passa, da un corpo eternamente in divenire. La
destinazione è la deflagrazione.
(A cura di Pietro Giorgetti)

Novembre 2167

Illustrazione a cura di Giacomo Bergantini

Non è mai facile interagire con i bambini, specie se Perfetti. Il loro indottrinamento è semplice quanto feroce: fin da neonati vengono bombardati da pensieri discriminatori, elitari e anti-natura. Noi Puri siamo come alieni ai loro occhi innocenti ma giudiziosi.

Nella loro filosofia di vita, questa rigidità è necessaria al mantenimento dello status quo. Da protagonisti della terza rivoluzione industriale, nel 2088, hanno rimpiazzato gli elementi naturali con cemento e metallo. Hanno distrutto gli ecosistemi. Siamo rimasti solo noi Puri in difesa delle lande verdi.

Ricordo ancora l’arrivo delle prime piogge nere, qualche decennio fa: i Perfetti decisero di sviare il problema costruendo strutture multi planari.

Noialtri fummo subito condannati: con l’intossicazione di quel poco terreno coltivabile rimasto, la nostra precaria situazione sarebbe solo che peggiorata. Cristallina come fosse ieri, l’immagine di mio padre alla visione delle nuvole nere: la disperazione e la sconfitta erano scolpite sul suo viso monolitico. Il manifesto della fine.

Le nostre misere vite erano controllate dall’alto, dai dirigenti della SOAR, la compagnia metallurgica nazionale in cui lavoravamo. Una routine logorante. Una vita d’inerzia.

Quella mattina, però, proprio un bambino riuscii a spezzare questo circolo vizioso. Una famiglia di Perfetti si trovava sul treno degli operai dopo che la loro cellula di trasporto si era guastata. La situazione era pericolosa, incerta. La donna era quasi terrorizzata; occhi sbarrati e vigili. Il bambino invece aveva qualcosa di diverso: non era il comune Perfetto, disciplinato e diffidente fino al midollo. Si guardava attorno con stupore, ammaliato dall’antica tecnologia e dalle nostre divise. Io ero di fronte a loro, quando iniziò a fissarmi. Mi studiava con attenzione. La luce nei suoi occhi iniziò a brillare alla vista del mio albero, del mio marchio. Ai Perfetti veniva insegnato sin da piccoli come riconoscere un estraneo, un Puro: dal tatuaggio di un albero sulla mano sinistra. Quel bambino però non era impaurito, anzi, l’opposto: era attratto dalla bellezza del simbolo.

Fece per muoversi e la madre prontamente iniziò a richiamarlo, addirittura a strattonarlo. Nessun altro fiatava, v’era un silenzio assoluto. Conoscevamo le conseguenze alle quali saremmo andati incontro se avessimo interferito.

In qualche modo, il bambino vinse la morsa della madre, liberandosi per un momento. Io rimasi immobile, ero pietrificato: davanti a me avevo un nemico o un piccolo umano? Mangiato dal dubbio, il pargolo si avvicinò, iniziò a toccarmi. La sua pelle era vellutata e si scontrava con le mie mani ruvide. Voleva capire la fisiologia dell’arto, i solchi del tatuaggio. “Che cos’è? Non ho mai visto questa cosa, è molto bella”, mi disse. Rimasi esterrefatto dalla semplicità della domanda. Nel mentre la donna mi fulminò con lo sguardo: era chiaro, non potevo parlare. Ancora incredulo lo guardai, accennai un sorriso. Dopo l’ennesimo richiamo, il bambino tornò dalla madre.

Mio padre mi aveva insegnato a cercare il bene anche nel buio, a non far morire mai la speranza. Per lui, era l’unico modo per continuare a vivere. In quel semplice gesto riuscii ad individuare una forma di innata resistenza, capii che la natura affascinava anche se era distrutta. La Terra è morta ma c’è un’altra possibilità altrove.
(A cura di Lorenzo Mondaini)

SPAZIO

88889x pianeta agrario

(Illustrazione a cura di Lucia Biancalana

Questo contadino ogni giorno attivava le macchine per piantare l’exarvit5.
L’exarvit5 diventa una grande pianta che dà dei grandi frutti giallastri che sanno un po’ di mela e un po’ d’arancia. Dice Klohnestein che un frutto equivale ad un pasto, però questo contadino non riusciva a farselo bastare, perché comunque lo cucinasse, quel sapore non riusciva mai a soddisfarlo. I suoi vicini piantavano quell’anno la Niketron2, che dava invece frutti molto più aspri, ma allo stesso modo molto saporosi. Questo contadino non era troppo contento di come erano andate le cose al momento dell’assegnazione, perché la promessa di terreno non era stata accompagnata da quel senso di gioia che invece la pubblicità prometteva: «Per una vita nuova e libera »; pensava che su 88889x avrebbe trovato qualcosa di diverso, ma alla fine si era convinto che se gli avessero assegnato delle terre in Nuova Zelanda sarebbe stata la stessa cosa; vero che erano gratis e che potevi prendere tutti i frutti del raccolto, ma vero era anche che quel contadino non poteva scegliere cosa coltivare e come coltivarlo.
Il console Whitend era stato molto chiaro nell’esporre che le ragioni politiche: 1) 88889x andava preservato
2) come umani ci impegnavamo a non ridurlo come la Terra
3) sarà la scienza a dirci come meglio salvaguardare queste terre.
Un anno di permanenza non gli aveva dato modo di conoscere qualcuno che gli fosse con cui si trovasse bene. Di tanto in tanto condivideva le sue exarvitine con la famiglia dei Powdler­Parril, che invece sembravano trovarsi molto bene sul nuovo pianeta. Quando lo invitavano a cena, la signora Parril esponeva sempre le varie ricerche che stava portando avanti mentre il marito si occupava della terra. Diceva la Parril che tutto era così meraviglioso, perché tutto era incredibilmente vergine. Diceva anche che studiare qualcosa di così insondato e oscuro le permetteva di conoscere qualcosa in più di sé in relazione all’esistenza umana; anche suo marito diceva che lavorare una terra così incontaminata era un po’ come comprendere il ruolo dell’uomo in relazione alla fecondità di una terra così pura. Tutto ai loro occhi era perfetto. Ma a questo contadino no, lui stava sempre più odiando 88889x, sempre di più i Powdler­Parril e sempre di più quei robot che gli giravano per casa per tenergli tutto in ordine. Col tempo si rese conto che però non era l’unico uomo solitario del pianeta. Così iniziò a spingersi un po’ più a Ovest, iniziando a bazzicare Starmars, in cui iniziò a frequentare il giro di Nuret, che era solito ritrovarsi loscamente nei circoli per giocare d’azzardo. Si sedevano intorno ad un tavolino e si scommettevano i vari frutti. Questo piccolo fenomeno non interessò solo il nostro contadino, ma mano a mano in molti iniziarono ad avvicinarsi e ad organizzare bische qua e là, finché naturalmente qualcuno non perse più di quello che poteva permettersi, giocandosi il suo intero campo. La storia si venne a sapere. Sulla Terra si parlava di scandalo, perché questo infrangeva un po’ i sogni utopici del console Whitend e della sua politica utopica di recupero. Ma la politica non doveva interessarsi troppo a questi incidenti, e la stampa anche, diceva sempre la signora Parril, che
il contadino aveva ricominciato a frequentare.« Gli uomini saranno sempre così, pensiamo alla natura e ai campi ». La famiglia Powdler­Parril aveva nel frattempo avuto anche un figlioletto, che il contadino ogni tanto accudiva, perché il tempo era inesorabilmente pesante per lui, e quel piccoletto riusciva almeno un po’ a rallegrarlo. Un giorno, dopo aver acceso le sue macchine per l’ennesima volta, si avviò verso il giardino del vicinato dove il bimbo andava gattonando curiosamente; chiuse il cancelletto, ma appena si voltò vide una mano pelosa sbucare dal terreno che lo tirò giù nella terra rapidamente. La signora Parril chiese e chiese cosa fosse successo, Powdler invece lo minacciò più e più volte ed iniziò immediatamente a spintonarlo. Tutti sapevano che lui aveva già ucciso prima, che si trovava lì per quello.
Quando arrivarono le forze dell’ordine il contadino raccontò tutto, ma gli agenti non rimaserostupiti ed anzi dissero a tutti che questi incidenti possono accadere, che era tutto scritto nelle avvertenze del documento in cui si mettevano le preferenze per la destinazione. « I pianeti vanno scoperti, siamo dispiaciuti». I Parril­Powdler smisero di invitare il contadino ai loro pranzi, perché continuarono comunque a pensare che non ci si può fidare di un assassino.
(A cura di Andrea Capodimonte)

Satelliti e morte

Illustrazione a cura di Lorenzo Bracalente

La Luna non è mai stata così bella.
Un uomo calpesta deciso quel suolo, così familiare e così estraneo.
Mostri di ogni sorta popolano quelle campagne esotiche, un bianco toccante acceca la vista, suoni dolci e misteriosi riempiono l’assenza d’aria.
Una strana creatura della notte s’avvicina, salendo delicatamente la collina,
scrutando lo straniero da poco apparso: autorità ed eleganza.
Dice: -Sono il signore di queste lande che non conoscono confini, sono celebrato con molti nomi, un’ombra in questo breve viaggio concessoti dalle stelle. Stai attento, non danneggiare cosa alcuna, qui tutto è prezioso e inutile al medesimo, oggetti dimenticati dalla tua razza e da Dio sono qui a raccontare la storia come fedeli compagni. Trattali con il dovuto rispetto.-
I due si stringono vicendevolmente la mano e attraversano senza timore la distesa in rotta per un dolce oblio.
Ti porterò ai confini della conoscenza, rivela Sogno ad Astolfo, ai limiti del possibile, nell’epoca in cui trova riposo il supremo sentimento.
Il virtuoso paladino capisce e fa per aprir bocca, quand’ecco Morfeo ammonirlo: -Il suo nome è sacro agli Eterni-.
Viene spinto ad addentrarsi in uno strano tempio dalle ciclopiche mura, ricoperto da piante d’edera e muschio selvatico; internamente segnato da pittogrammi e illeggibili scritte. Astolfo ha paura, il gelo in petto. Ecco un vortice magico illuminare i volti. -Da qui in poi non potrò più seguirti.-
Il vortice inizia ad ingrossarsi, inglobando materia e dimensioni. Si sente un urlo. Il tempio ormai un ricordo: un’enorme distesa di alberi e fitte siepi occupava l’orizzonte. La luce aveva perso il diritto di entrare, il vento generava suoni lugubri tra i rami.
Solamente uno spicchio di Luna era possibile notare in lontananza, circondato da strani esseri spettrali, simili ad enormi condottieri saraceni. Dopo alcuni metri Astolfo si rassegna: incolmabile la distanza dal luogo. Lucciole, a migliaia, si depositarono in direzione della zona nascosta, formando inquietanti parole: -In queste terre or senza luce giace la spoglia esanime della
Speranza, madre dal dolce pianto, primo e unico Dio. Sia il tempo dell’eterno
dolore, sommo giudice.-

Nessuna pietà agli eroi.
Si sveglierà in lacrime.
(A cura di Giacomo Alessandrini)

Spazio Zona

Illustrazione di Alessandro Lanfrancotti

Lo spazio — com’è noto — è infinitamente grande
(Cap. Howard Bell)

Anno 4043
Guardarmi allo specchio.
Dacché io ricordi, un’azione che mi è sempre piaciuta fare; a seguire: osservare ogni minima piega del mio
viso, pettinarmi lentamente i capelli, desiderare di fermare il tempo… soprattutto quello.
Anno 4001
K1zt è un minuscolo pianeta della galassia nana Ursa Major II, distanza stimata dalla Terra 97.800 di anni luce.
La missione Orfeo prevede, in prima istanza, il trasferimento in loco di numero uno esemplari P-one con scopo di studiare e valutare una possibile terraformazione; esemplari P-zero già risiedono nel centro di comando posizionato nella parte sud-est del pianeta: attendono istruzioni.
«Capitano Bell, si sente pronto?»
«Sì, nessun problema… potet… potete iniziare…»

Il nuovissimo processo Quantum si compone di tre fasi: nella prima, i dati (exabyte di informazioni disparate, dai ricordi a breve/lungo termine, alla mappatura genetica) vengono estrapolati dal corpo del soggetto A; per poi essere depositati all’interno di nuclei a sospensione antigravitazionale; e successivamente inviati (ma sarebbe meglio dire trasferiti) direttamente nel corpo del soggetto B. Il donatore A, quindi, trasferirà se stesso nel ricevente B, divenendo così la medesima cosa — come era destino che fosse in ogni caso, come erano già.
L’operazione non dovrebbe durare, rispetto ai normali rapporti di spazio-tempo cui siamo abituati, che pochi istanti: nulla cambierà nel soggetto uscente e nulla sarà diverso in quello entrante. Non ci aspettiamo, dunque, ricadute o altro, ma l’immediato inizio dei lavori da parte del Capitano Bell all’interno del centro di comando. Suo compito sarà quello di formattare gli antiquati modelli P-zero — semplici involucri cyberpolimeroplastici controllati da remoto e quindi non autosufficienti — e iniziare il percorso di adattamento forzato all’interno di un ambiente e di un bioma alieno. Se l’individuo riuscirà a superare i disagi, gli impedimenti e qualsivoglia tipologia di problema alla sua portata, la missione potrà passare alla fase successiva: la creazione di un quantitativo maggiore di esemplari P-one (anche di sesso ed età differenti)
all’interno della struttura esistente e gettare le fondamenta per una colonizzazione su scala planetaria.
Anno 4042
«Signor Bell cos… cosa sta facendo?»
«Non so chi sia questo Bell di cui mi parlate sempre… Mi sono stancata… alla mia età non posso sopportare questo genere di scherzi!»
«Cr-credo che lei abbia ragione.»

«Lo credo anch’io … ma, mi ascolti cara: ha per caso visto il mio specchietto?»
«No signora Reskin, non l’ho visto… mi spiace.»
«Ah, peccato…»

A quarant’anni (circa) dal suo avvio, la missione Orfeo può considerarsi un successo: la terraformazione di K1zt non solo è possibile, ma è realtà già da qualche anno! Purtroppo il primo esemplare di P-one, il Capitano Howard Bell, verrà presto disattivato: durante uno dei processi Quantum successivi al suo arrivo, infatti, qualcosa dev’essere andato storto: i nostri scienziati hanno ipotizzato una sovrapposizione involontaria fra matrici ID differenti (legate solo alla mente e non al corpo), forse dovuta ad una sensibilizzazione eccessiva e fuori controllo dei ricettori presenti sul suo PTI (Processore Trasferimento Identità).
Ci dispiace.
(A cura di Andrea Bollini)

Confini Spaziali

Illustrazione a cura di Guido Brualdi

Capitolo 1
Quando dallo stereo era partita l’ultima traccia dei Pitoni, nella stanza c’era stata tipo un’implosione di felicità in tutti i presenti. Se prima stavano tutti ammucchiati sui sedili senza forze, perché la missione era ormai completa e quindi anche il loro destino era compiuto, adesso che era partita Quel poco di felicità, tutto era cambiato. Era una canzone stupida, parlava della bellezza dell’umanità; i Pitoni ti insegnavano che alla fine si vive una volta sola e che quindi non c’è bisogno di sprecare le felicità per inezie che ti abbattono la morale. Loro avevano scelto liberamente di andare su Trompen II, sapevano bene sarebbe stata una missione suicida, ma il fatto di portare benefici al resto dell’umanità gli dava quella soddisfazione che gli dava la forza di portare avanti la missione. Il Polzoni si scuoteva talmente tanto che ad un certo punto clicca su pannello di controllo e alza ancora di più il volume, finché il suono sembra occupare tutti gli spazi. Tutti ballavano e cantavano e facevano i cori. Nessuno si aspettava quel che sarebbe successo da lì a poco. Sul radar era già comparsa una nave sconosciuta, ma tutti stavano pensando a cantare su microfoni immaginari. Quando ormai la nave fu troppo vicina, ormai era troppo tardi. La nave iniziò a gridare dalle sirene: SIAMO STATI AGGANCIATI! Scoppiò il panico, perché si pensava fossero mercenari umani che ormai in orbita da anni si erano dati alla pirateria. Era un problema del congresso intergalattico, ma che veniva sempre tralasciato e che veniva sempre considerato secondario. Nella stiva comunque i fucili laser sarebbero stati pronti a far fuoco. Polzoni era avanti a tutti gli altri della flotta che si erano schierati a triangolo: Polzoni avanti; dietro di lui Rubeschi e Paolini; a chiudere, nelle retrovie, Giovannini, Dinamoni e Rossi. Il portello stava per aprirsi e tutti si immaginavano sarebbero entrati e li avrebbero travolti. La musica dei Pitoni continua a far suonare quel synth-pop che in quel momento era assolutamente inopportuno. Il portello si apriva ed il ritornello della canzone cantava “questa nostra felicità / tante volte ci fa dannar”. Dal portellone uscivano i fumi. Il portellone si abbassava. La gravità ricreata artificialmente dalla macchina sembrava che ad un momento sarebbe crollatà, facendo galleggiare tutti i presenti. La tensione era troppo pesante, troppo. Il portone si stava per aprire completamente, ma dove ci si aspettava una carica sanguinaria, c’era solo un c’era solo uomo, con capelli sparati all’indietro, una divisa blu e una lunga cintura che conteneva una pistola.
«Sono la polizia musicale, portare musica di merda nell’universo è vietato»

Capitolo 2
Davanti a loro c’era questo ragazzo che a dirla tutta non sembrava proprio un poliziotto. Il gruppo abbassò le armi e Polzoni, il capitano della nave, si accostò al poliziotto per chiedergli spiegazioni. Polzoni disse: «mi scusi, io non conosco normative che parlino di un divieto sonoro da queste parti. Ci sono popolazioni che non sopportano i suoni terrestri in questa circoscrizione?» . Ci fu un millesimo di secondo di stasi, la frase era appena stata pronunciata; il poliziotto era solo apparentemente innocuo, perché con una maestria da film western cacciò la pistola dal fodero e la puntò sulla fronte di Polzoni, che iniziò a buttare acqua salata dal terrore, dalla pelle tutta intorno alla zona circostante al luogo in cui la bocca dell’arma faceva pressione.
«A me non serve nessuna delegazione, non serve un bel niente.», disse il poliziotto. « Qui c’è la mia autorità, perché io ho fatto un giuramento. ». Gli altri sullo sfondo urlavano e gli gridavano di non fare pazzie.
« Mettiti avanti a me, di spalle, mani tese in avanti », gridò a Polzoni, che subito obbedì. E si mise a gridare agli altri: « Silenzio! State zitti per dio! »

Illustrazione a cura di Guido Brualdi

Gli altri terrorizzati tacquero. Poi sussurrò qualcosa a Polzoni, ordinandogli di inginocchiarsi. Ora il poliziotto puntava la pistola dietro il capo di Polzoni e tutti potevano vederlo, perché accovacciandosi, il capitano della nave, era diventato più basso dello sbirro.

Capitolo 3
Probabilmente avrebbe sparato. Avrebbe spaccato in due la testa del capitan Polzoni, avrebbe premuto il tasto nel suo polsino sinistro che generava uno scudo contro i colpi laser che provenivano dall’esterno, e avrebbe poi proceduto a fare una vera a propria strage. Ma il computer iniziò a suonare nuovamente e ad avvertire alla scialuppa che una nave li aveva agganciati. Il poliziotto era ancora con la pistola carica a fare fuoco, quando la voce del computer cambiò e prese il suo posto una voce possente che diceva: « Sergente Whitevoglein, c’è un’emergenza sul settore 8, interrompa immediatamente tutte le sue attività e rientri!. Ripeto: interrompa immediatamente tutte le sue attività. Rientri! ». Tutti nella nave erano immobili: la situazione era surreale, perché nessuno della truppa aveva idea di cosa stesse succedendo. Dinamoni preso dal terrore si mise allora ad urlare alla voce che rimbombava dalle casse sparse nella navicella: << MA VOI CHI SIETE? CHE DIAVOLO è LA POLIZIA MUSICALE? CHE COSA ABBIAMO FATTO, ASCOLTAVAMO SOLTANTO I PITONI>> Il sergente Whitevoglein guardava negli occhi, ruotando leggermente la testa, tutti quelli che stavano dentro la nave spaziale. La voce aspettò a parlare, poi disse: «La polizia musicale è un organo creato dalla federazione U. S. U. F. per evitare che una cultura che riteniamo di basso livello influenzi i nostri usi e costumi. Appena avete oltrepassato i nostri confini galattici abbiamo intercettato le vostre onde sonore ed evidentemente il Sergente ha riscontrato qualche irregolarità, Whitevoglein, dico a lei: i Pitoni a me piacciono, non c’era modo di intervenire in questo modo, non sono vietati. Rientri immediatamente. A tutti i presenti: vi chiedo scusa, ma vi invito a fare più attenzione alle regole intergalattiche, onde evitare tali problemi. Whitevoglein, ripeto, lei rientri. >> Ma il sergente non era convinto e si mise a rispondere al suo capo: «Questo è inaudito. Io qua dentro mi faccio il culo, io non capisco a che cazzo vi serva un poliziotto se poi questo non può fare il suo SACROSANTO LAVORO… Mettete nelle linee guida: ognuno ascolta quel cazzo che gli pare, tanto alla fine non ce ne importa. » ed il suo indice tremolava, lì lì per fare la pressione necessaria per far partire il colpo. Continuò: « I Pitoni sono un gruppo di merda, è proprio questa la cultura che la nostra confederazione odia. Non puoi essere così arbitrario, le linee guida vanno rispettate, soprattutto tu che sei il direttore. Se fai così ci credo che qui non funziona più niente >> ; poi però con un colpo secco rinfilò la pistola nel fodero, si scrollò la sua giacchetta d’ordinanza e si diresse nella sua navicella, che rapidamente fece partire appena montato all’interno.

Polzoni piangeva, gli altri gli corsero tutti appresso per sincerarsi della sua condizione, ma uno di loro no. Dinamoni era rimasto con gli occhi spalancati e pensava, mentre la navicella si alzava in aria: come si fa ad entrare in questo corpo di polizia?
(A cura di Andrea Capodimonte)

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