“Planets on purpose” di Cristiana Zampolini

LCEnterprise — Numero 1

LCEnterprise è lo spazio narrativo firmato La Caduta. Questo volume, nato a stretto contatto con il #0, è stato presentato all’edizione 2018 del Ratatà

La Caduta
La Caduta 2016–18
18 min readJun 25, 2018

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A un anno dal lancio del #0 sembra che le interferenze siano aumentate. L’uomo, prima che astronauta, si muove lento per l’assenza di gravità che lo circonda. I segnali dall’ambiente sono mediati, dunque indeboliti, la comunicazione arriva lenta, tradita.

Se il mondo gira ora veloce, se noi uomini dello spazio, bramosi di rapidità, accelerassimo ancor di più, dove finiremo? C’è speranza per quel che sarà? Per quel che è, al momento, i segnali giungono disturbati e incomprensibili.

Ci aggrappiamo a un passato irrimediabilmente lontano, a qualcosa che ha a che fare con la terra. Ci aggrappiamo alle crepe della tecnocrazia nel timore di un fallimento, nell’auspicio di un lento addio. Respiriamo quel mix di elementi che compongono l’aria, pregando che mai si alterino.

Ma c’è qualcuno che prega per il contrario. E urla più di noi. Che si tratti solo del volume di una voce, del suo spazio.

“Endless doom” di Copertina di Cristiana Zampolini

EFFETTONEVE

Quelli nuovi li vedi sempre arrivare con atteggiamento guardingo, diffidente. Tesi, come pazienti in attesa di ricevere una particolarmente complessa operazione chirurgica. Tesi perché coscienti di aver attraversato una soglia dalla quale non potranno tornare indietro. Nessuno lo vuole. Sì, perché non è davvero possibile rinunciare a quello che noi offriamo, dopo che lo si è provato sulla propria pelle. O meglio, nella propria mente. Noi siamo qui, in questo sporco buco nascosto dagli occhi dell’Autorità, per vendervi la vera droga del terzo millennio. Siamo qui per difendere la libertà dell’individuo. Per opporci coi pugni chiusi e la voce alta al regime mediocratico che incastra il nostro io in deumanizzanti sovrastrutture. Fratello, non temere e fai un passo avanti: noi siamo i custodi della nuova voce, i protettori della libera espressione. Siamo la Chiesa dell’Interferenza, amico, e oggi qui inizia la tua nuova vita.

Iniziò tutto la notte della tempesta. Nessuno sa veramente spiegare cosa successe quella sera, quale forza sconosciuta impose la propria volontà alla violenza dei fulmini e al vento sferzante. L’anziano Primo Custode, fondatore di questa illuminata confraternita, è stato l’unico cosciente testimone di quel bizzarro evento, quando era ancora un ragazzo molti, molti anni fa. Ma poco ci importa, di quel che vide. Da quel giorno in poi, il nostro destino è cambiato. La nostra vita brilla di una luce nuova e respiriamo la fresca brezza della libertà.

Il mondo è cambiato, e noi siamo la reazione. I governi che si sono succeduti negli anni successivi all’Evento hanno gradualmente limitato e infine ucciso una delle cose alle quali tenevamo di più: hanno ucciso la libertà di intrattenimento. Televisione, cinema, teatri, letteratura, giornali. Volevano controllare tutto, incollarci come ebeti a schermi che proiettano immagini insignificanti, le ombre inutili di un teatrino ammazza-neuroni. Noi spettatori e lettori non avevamo più il diritto di essere un target, non eravamo un pubblico.

Eravamo il loro pubblico, marionette manipolate dal via cavo e dalla viscida lavanda mediatica dell’Autorità. Chi esce da questi confini, naturalmente la paga a caro prezzo. Ma noi resistiamo ancora. Combattiamo contro tutto questo con un’arma potente, replicando la tecnica trasmessa alle ultime generazioni dal Primo Custode, testimone del giorno della bizzarra folgore e narratore dell’Evento. Noi della Chiesa dell’Interferenza offriamo a voi la risposta al mentale e alla noia imposta dall’iniquo governo dell’Autorità. Non c’è droga più bella o potente, fratello, dell’EN, la nostra amata effettoneve. Noi regaliamo un presente e un futuro all’intrattenimento contro i canoni imposti dallo stato. Le nostre antenne sono le chiavi per entrare in un mondo nuovo che da tempo ci è stato precluso.

Al diavolo l’Autorità, a morte i ludosbirri e i loro maledetti flash anti-sommossa. Galleggiamo tutti insieme nello spazio siderale della mente, aprendoci la strada con ampie bracciate. Immersi nell’effettoneve, nostro amato paradiso artificiale, apriamo gli occhi su mondi mai visti, superando confini, attraversando mari di dati vibranti di impulsi neuronali.

Si fotta l’Autorità! Noi siamo la Chiesa dell’Interferenza, coloro che galleggiano nello spazio. Lunga vita all’Interferenza!

di Michele Bellantuono

COSMO CAOS

Il cosmo — com’è riferito — è quasi del tutto donna

Cap. Howard Bell

Anno 21

Micro-eventi abitano questo cosmo. E nonostante non ci sia molto di cui e sui cui parlare, ci hanno detto di aspettare. Fra non molto, infatti, tutto inizierà: noi siamo pronti.

Anno 3960

Pianeta HJ234, galassia nana dell’Orsa Maggiore (UMa dSph), distanza stimata dalla Terra 330.000 anni luce.

La famiglia Bell è in trepidante attesa: sta per nascere il loro primogenito. Il nome deciso è Howard in onore di un antichissimo personaggio legato al Mondo-Di-Una-Volta. Un papero o qualcosa del genere. Quisquilie di famiglia a cui ancora oggi si dà valore.

Nel frattempo, nei laboratori Hawking, le sperimentazioni del processo Quantum (variante contemporanea delle Antiche Pratiche di mind-uploding) procedono a gonfie vele. La concorrenza agguerrita, infatti, minaccia realisticamente il primato di terraformazione di Marte — obiettivo primario del blocco imperiale della Lega d’Occidente. Anche gli esemplari P-one sembrano reagire bene all’innesto di informazioni bio-digitali prelevati e trasferiti dalle Cavie umane.

È vero alcuni problemi sembrano sorgere nei casi (statisticamente irrilevanti per operazioni real-life) di disallineamento corpo-mente, di errato mescolamento fra identità sessuale/memoria e natura biologica.

– Capitano Bell, si sente pronto?

– Sì, nessun problema… potet… potete iniziare…

Contromisure finora non sono state necessarie; si è ipotizzata l’applicazione di un chip neurale (nome in codice PTI — Processore Trasferimento Identità) sulla corteccia spinale per stimolare, attraverso un processo di inibizione auto-indotta, la corretta assimilazione di matrici di ID sui relativi corpi ospite.

Anno 4044

– Signora Bell si calmi, non può fare così ogni volta…

– Perché?! Perché non dovrei? Io me li ricordo gli anni dell’addestramento… ma tutto è annebbiato, filtrato… sembra come vedere un vecchio film… Cosa vuole?

– Cr-credo che lei non stia bene. La sua condizione sta peggiorando sempre di più. Ha già ucciso un P-one, non se lo ricorda?

– Le dico che non sono stata io… è stato lui! Quel signore con i baffi che vedo attraverso lo specchio… non sono io… io non riesco a ricordare.

– Vista la sua condizione non ne ho dubbi. Anche se da quando avevamo iniziato ad adeguarci lei sembrava essere migliorata signora Resk… emh Bell…

– COME MI HA CHIAMATO?

Anno 4045

Stazione K1zt, Circoscrizione Orfeo I. Questo è il verbale che segue l’ultimo incidente causato dal Capitano Howard Bell:

P-one deceduti: 12

P-one feriti: 36

Stato del Capitano Howard Bell: eccellente condizione fisica, completo collasso neuro-mentale: la discrasia fra i due componenti (il corpo e la mente) è divenuta ormai impossibile da gestire senza un Chip di Riprogrammazione Continua (una versione attualizzata dei vecchi impianti cerebrali optoelettrici). Anche un suo inserimento all’interno del programma sperimentale “Neo Soma” (una manipolazione identitaria controllabile e coltivabile fin dall’età post-natale) è impraticabile per via dell’età del soggetto. Dovremo eliminarlo: la sua natura ibrida ci spaventa. Quella “cosa” non può sopravvivere.

Anno 4445

Oggi ricordiamo Susan Howard Reskin Bell, prima del suo nome, prima madre della sua specie, fondatrice del Regno dei Nuovi Soli Splendenti. Lunga via ai Neo-Postumi! Il futuro ci attende!

Anno 22

Non vedo l’ora di vederlo questo futuro…

di Andrea Bollini

STORIA DI UN’ASCENSIONE

– Piano, signore?

– Quarto, grazie.

– Al quarto c’è la bisca clandestina, signore.

– Facciamo il terzo allora, cosa c’è al terzo?

– Orgia, signore.

– Al settimo?

– Lettura di libri per bambini.

– Andata.

L’addetto all’ascensore, un giovane ragazzo sulla trentina, con una delicatezza innata premette il tasto indicato dall’uomo di mezz’età. Sorridente, in modo spavaldo, provò a non pensare al terzo piano. Fuori un sole accecante, i raggi di Frolix che ti scavano la pelle, quello alle tre di un pomeriggio infernale passato a scegliere l’obiettivo di una giornata che già parte male. Entrambi provano a non guardarsi in faccia, quasi timidi, quasi arrangiati a pensare alle turbe di un’infanzia passata sotto le gonne delle marziane da frontiera.

Guardarono l’orologio e pensarono alla vita come un grosso culo grasso.

– Siamo arrivati, signore. Sicuro di voler partecipare a questo supplizio?

– C’è alternativa?

Il ragazzo ripartì solo. Passò velocemente uno spettro trascinando i piedi, con l’atteggiamento di chi si è stancato della morte. “Dovevo già essere qui da più di mezz’ora, che io sia dannato” pensò il protagonista. I soliti ritardi, ritardi esistenziali e ancora turbe, turbe di un’infanzia passata a giocare a dadi. S’accostò una donna dai capelli color ruggine chiedendo una sigaretta. Con un “non fumo, non fumo da un anno” la interruppe bruscamente.

Se ne andò senza salutare.

“Forse sono al terzo piano, forse quello si è sbagliato; non voglio nemmeno pensarci”.

Eppure era lì, doveva esserci.

Uno strano energumeno, dalla forma sferica, centoventi chili di speranza e riservatezza, lo prese a tradimento sottobraccio, sbucando da un altro universo.

– La guido io, lei si è perso, non è così?

– Da qualche tempo, grazie per l’interessamento.

– Venga con me.

Lo sbatté con forza dentro una camera tappezzata di luci, qualche ombra e molti mobili, antipasti a buffet e libri. Una pila di libri si stagliava al centro di quelle quattro mura.

– Ben arrivato mio caro!

Urlò un uomo in completo elegante, papillon slacciato, rosso in volto come le rose disinfettate nei centri commerciali.

– La conosco?

– No, certo che no, ma per me è già un fratello, basta guardarla in volto per capire l’anima di una persona. Non perda tempo! Mangi, s’ingozzi, faccia presto!

Imbarazzato, fino al punto di sentirsi male, tentò di uscire dalla camera aggrappandosi furiosamente alla maniglia.

Chiusa, nessuna via di fuga.

– Che succede?!

– Non dipende da noi, è la sua coscienza a bloccarla. Segua l’istinto e si lasci andare, o potrebbe durare per sempre.

Sguardo perso si adagiò lentamente sulla prima sedia che trovò. Prese un bicchiere e lo riempì di sputi.

Le luci divennero arcobaleni, e gli arcobaleni falchi lanciati all’orizzonte. Intonò una vecchia canzone, sentita alla radio da chissà quale epoca, e tutti presero ad ascoltarlo.

Applausi a testa alta e strette di mano, per un uomo che nemmeno conoscevano.

Persi dietro ai libri, ognuno a recitare il ricordo, la propria favola per bambini inesistenti.

– E tu, quale fiaba hai scelto?

– Questa.

di Giacomo Alessandrini

F4 SIGNOR BASITO

Quando il signor F4 riprende conoscenza è già troppo tardi. Le luci sono ancora accese ma non è cambiato niente: c’è silenzio nella stanza. Guarda la televisione muta, con le immagini che scorrono senza senso, senza soluzione di continuità, è un bombardamento continuo a cui si assoggetta spesso. Poi ecco una lenta e inesorabile sensazione di decadenza, che prima era solo in testa e ora lo circonda, la sente crescere, la sente salire come un’illusione. Lo schermo non parla ma comunque comunica.

Gli dice / guardami guardami non distogliere mai l’attenzione dalle cose futili gli dice / stai con me non mi abbandonare non mi spegnere mai gli dice / cosa esci a fare cosa ti sbatti per gli altri cosa lo fai a fare da quando la Macumbia è arrivata in città gli dice / ora che la danza è iniziata e non si può uscire più senza sapere se si potrà mai ritornare gli dice smettila di pensare e zitto gli dice / stai qui con me non te ne andare non mi spegnere mai lascia perdere gli altri e poi ancora con la storia degli altri ancora che pensi ancora che ti sbatti ma cosa ti sbatti a fa… / Il signor F4 finalmente toglie il muto allo schermo. È l’ora del notiziario, si mette in ascolto. Il borot-conduttore ha gli occhi gialli e lo guarda fisso mentre aggiorna la cittadinanza silenziosa sui fatti del giorno. Una donna è entrata nello scauntdi di Talete dove il venerdì servono avocado del Burundi: ne ha mangiati ottantasei ed è diventata verde. (Ne avesse mangiato uno di più sarebbe morta). Un uomo è finalmente uscito dal praiogine di Jenkins e ha acquistato il menù della ragione, poi ha scattato una foto per tutti i giornalai. (Come ha fatto ad uscire il borot non ce lo dice mica, i fatti vengono solo riportati e mai commentati poiché non è compito del notiziario. Il notiziario notizia, il conduttore conduce, il mattatore ammattisce).

L’ultima notizia: una famiglia di altissimi neri è stata presa a mazzate in una via del centro mercialcom di San Settimino da un gruppo della sicurezza d’attacco appartenente alla famiglia dei nani bianchi. (Il borot-conduttore fa una piccola pausa su ‘mazzate’ e proprio così gli scappa un sorriso artificiale, i suoi occhi gialli sembrano strizzarsi). Il nostro amico ci dà un saluto e la buonanotte dallo schermo, ringrazia la calata della Macumbia, le cui celebrazioni per il trentennale sono previste su questa rete la prossima settimana, esattamente giovedì all’ora X.

Per fortuna che a quell’ora lavoro pensa il signor F4; poi lo dice ad alta voce, mentre ammutolisce di nuovo la televisione. Ma quella ricomincia a comunicargli AH ma cosa fai non festeggi? gli dice / non devi neanche uscire puoi restare qui ce la guardiamo insieme e te la commento io gli dice / ti ricordo che da quando è arrivata lei noi stiamo tutti meglio e anche tu anche se non te ne rendi conto gli dice / anche se ancora vuoi stare ad uscire a incontrare altri signori F come te gli dice / peccato che stanno tutti a casa e se escono con te non ci parlano gli dice / perché vuoi lavorare per lo spazio e non per il tempo e perché io lo so che mi vuoi spaccare e sfasciare gli dice / io lo so che c’hai sta violenza gli dice / perché non sai più comunicare e quindi abbiamo vinto gli dice / e tu sei inerme sei un verme gli dice / statti zitto che va bene così / F4 astronauta / F4 che mi guardi basito con l’occhio spento / signor F4, vada a dormire, ci faccia il favore gli dice / domani sveglia alle 6 si parte per la stazione spaziale signor F4 gli dice / non mi faccia scherzi e a domani gli dice / a domani.

di Pietro Giorgetti

“L’Étranger” di Guido Brualdi

VACCHE SACRE

Alexander Farnhouse è un uomo per bene. Vive la vita in maniera tranquilla, autenticamente. Ad Alexander Farnhouse interessa solo una cosa: le sue vacche. Lui ci vive con le vacche.

Gestisce una fattoria in Wyoming, il che non rappresenta una vera e propria passeggiata. Quando il suo bestiame viene lasciato al pascolo, in altura, Alexander passa le sue giornate sulla riva di un torrente, proprio dove si formano quei gorghi e quelle piccole insenature in cui si riproducono i salmoni. Alexander Farnhouse va pazzo per i salmoni. Anche in quella giornata afosa, verso i primi di agosto, Alexander non vuole scocciature. Si alza di buona leva, prepara l’attrezzatura da pesca e si fionda sul suo pickup. Decide di fare un salto in paese per acquistare delle sigarette e una cassa di birra in lattina.

In strada non c’è nessuno e l’asfalto comincia a fumare. Il paese, stranamente, non emette il minimo suono: nessun brusio, nessun rumore di motore a scoppio. Alexander, noncurante, apre di colpo la porta del bar.

Desolazione.

Alexander Farnhouse, proprio nel momento in cui qualsiasi essere umano sarebbe stato in grado di percepire il Vuoto Cosmico, ha in testa un solo pensiero: le sue vacche.

Il suo pickup romba, si mangia la strada. Ci siamo quasi, un’altra curva e poi il pascolo.

Alexander Farnhouse avverte un’inspiegabile sensazione: le mani formicolano, i lunghi peli neri dei suoi avanbracci sembrano spiccare il volo, attratti da una strana forza magnetica. Un fischio tremendo, una luce abbagliante. Il pickup va fuori strada e ferma la sua corsa schiantandosi su un albero.

Alexander apre gli occhi, si sveglia dal sogno.

Le sue vacche sono lì, davanti a lui. Brulicano beate un’erba violastra. Il cielo è irradiato da una luce verde acqua e le nuvole sono gialle.

C18.ω9 è un pianeta della galassia Centaurus A, ed è bellissimo.

– Dove diavolo sono finito? Sussurra stupito il nostro Alexander.

Una delle vacche si gira e, fissando lo sbigottito, si avvicina a lui dicendogli:

– Questa è casa tua Alexander, bentornato.

di Federico Fronzi

L’OSSERVATORE ABITUALE

La sua testa si muove press’a poco

laddove si confondono gli estremi

delle levate e quelle dei tramonti

Arato di Soli, Fenomeni

Comincio a credere che tutte queste chiacchiere sui viaggi

siano un bell’imroglio e che un uomo che abita in un guscio di noce viva

un piccolo universo in miniatura, e abbia ben poco da vedere al di là.

Herman Melville, Moby dick

Il mio nome è Archtophylax. Sin dai primi passi in questo grande luminario intermittente, detto Cielo da alcune lontane entità a me giunte in visita, io fui un Sorvegliante.

Sembra che nella numerosa famiglia da cui provengo, di coloro che guardano come Custodi la Grande Fauna Stellare, il tempo per attività che non siano il mero scrutare eventuali pericoli non sia mai dato. Dunque, a che pro domandarsi altro da quel che si è? Meglio prestarsi al proprio ruolo dato, non guardarsi dall’altro lato dell’abitudine!

Dacché io ricordi, Ursa mi è stata sempre accanto.

Un enorme ammasso di pelame nero e scintillanti ciuffi che quasi accecano, tre code molto sinuose che continuamente, da tempi immemorabili invogliano gli indiscreti e i Cacciatori Planetari, che sono avidi mangiatori di luce. Ogni tanto Ursa sospira, è una docile maestosa belva, mentre interloquisce coi suoi fratelli Carri. Fin dalle lontane generazioni mi è stato detto dai suoi fratelli che Ursa è una “abituata allo sguardo del resto dello spazio”, continuamente preda degli occhi, dai quattordici miliardi di piccoli bulbi degli Zercon ai miseri due di quelle lontane entità che si definiscono come “umani”.

Da alcuni di loro mi è stato narrato, oltre quella loro strana parola che mi designa come Bifolco, che per loro Ursa è “una chellerina il cui balletto non termina mai, in cui gli occhi del suo pretendente sono fissi all’ora in cui il suo passo giunge, quando il manto nero della quinta ha un colore di inchiostro profondissimo. Ogni notte per lei è una anteprima, senza epilogo possibile, all’occhio dello scrutatore della platea”.

Curioso il loro parlare, curioso il loro struggersi per Ursa! Gli uomini di certo non mancano di stupire! Le dimostrazioni non vengono certo mai a mancare.

Ogni tanto, da lontananza indicibile, ma mai troppo estrema al mio guardare, scorgo sempre questi “umani”. Strane figurine a dirsi, fare altrettanto strani segni su delle altrettanto strambe superfici, di cui ho chiesto loro il nome. Nel loro linguaggio le designano come “Carta”. Dicono che ne faccia parte anche io in una qualche maniera… Curioso a dirsi! Tracciano quel che essi chiamano “Carta Celeste”. Qui io mi trovo con Ursa non ci si complica così il passaggio. Siamo ben più accomodanti e veloci qui nel Cielo, questo è certo! Affidarsi a qualcos’altro a sostituzione dello sguardo… Ora credo quasi di capire la loro ossessione visiva, l’interfacciare queste superfici, avere questa sorta di malia di Ursa, questo continuo loro stare con i loro occhi verso l’alto del cielo, confondendo il loro guardare col loro desiderare…

Desiderano queste carte, nel terrore di perdersi, nel profondo dei loro mari oscuri, o pensando che forse uno spazio senza un confine certo per loro sia come dire morte e niente più.

Dove sta un confine, per queste curiose creature sta quella che loro sono soliti chiamare “salvezza”?

Questo mi capita di osservare. Qui con Ursa la quiete si spande in qualche fioco avviso di passaggio, ogni tanto qualche rumore, qualche pioggia di Meteoriti ci toglie il piacere del solito. Di questi pericoli di cui dicevo, nemmeno l’ombra più lontana o la luce più feroce sembra dire. Qui noi stiamo, vedendo spesso come tutto sembri indaffarato. A noi sembra chiesto solo di stare, senza troppo curarci. Chissà, in fin dei conti, perché?

di Edoardo Manuel Salvioni

MONDOLADRO

– Un assassino dovrebbe stare in un posto sorvegliato, dove almeno è sicuro che nessuno possa finire ammazzato o trucidato da un pazzo omicida.

C’era chi la metteva sul piano della sicurezza, chi invece sul piano della giustizia, — Ti pare giusto che un assassino paga la stessa pena di me che sono solo un ladro?, fatto sta che nessuno era felice di sapere che Georgio Ramò fosse nello stesso progetto, così leggermente. — Alla fine cosa t’importa se lui ha compiuto un reato più grave? Questa mica è una prigione! Hai il rimpianto di non aver ammazzato nessuno, l’altro ragazzo rispondeva che non era quello, che però Georgio è stato fortunato, così si domandava e domandava quale fosse stato il trucchetto. Nessuno naturalmente aveva l’ardire di andarglielo a chiedere, lo lasciavano ormai solo nella sua casetta.

A Ramò però importava poco degli altri, ormai da parecchio aveva capito di essere completamente solo a questo mondo.

La coltivazione lo rendeva inoltre impegnato, lo stancava ma lo lasciava anche piacevolmente soddisfatto a fine giornata. Tra le altre abitudini che stava prendendo c’era quella di farsi una cultura musicale, così la sera si ascoltava sempre un disco, leggeva i testi e approfondiva su internet la storia del genere e del gruppo.

Le sue giornate passavano così, non troppo male, ma tutto intorno il villaggio si muoveva e già diverse erano state le interrogazioni cittadin alle assemblee pubbliche, finché un giorno un gruppo di tre giovincelli, tra cui l’ex ladro, non fece irruzione nella sua casa; lo legarono, gli misero una pallina antistress in bocca e gli tapparono la bocca con una benda.

L’ex ladro era dritto di fronte a lui e lo apostrofava dicendogli assassino assassino, ma non lo toccava.

Gli altri dietro erano tesi, sapevano che ciò che stavano facendo avrebbe avuto delle conseguenze, però si erano fatti trasportare da questo ragazzo che non poteva tollerare una giustizia così ingiusta, che chiedeva di continuò a Ramò:

– Come avrai fatto? ci sarà un modo, no? come sei finito in questo progetto? Poi gli liberarono la bocca, avvertendolo di non urlare altrimenti l’avrebbero immediatamente eliminato. Cercò di aspirare più aria possibile, poi lentamente iniziò a rispondere mentre i tre lo guardavano fisso dicendo che era lì per la sua buona condotta, ma loro non ci credevano e lo deridevano e sfottevano, finché inevitabilmente Ramò perse il sennò ed iniziò ad urlare che li avrebbe ammazzati tutti, dal primo all’ultimo. Gli aggressori indicavano i suoi occhi e ad alta voce urlavano:

– Guardatelo! guardatelo! ci vorrebbe davvero uccidere! non può rimanere qua! I rumori e le grida insospettirono il vicinato, che immediatamente chiamò le guardie. Queste in poco tempo arrivarono caricando tutti e quattro sulla propria camionetta.

La cittadinanza del villaggio era stanca, era su quel pianeta per potersi riabilitare, e non era ammissibile che la violenza destabilizzasse quella nuova società che si stava creando. Vennero fatte molte manifestazione e alla fine la prefettura decise di ritrasferirli tutti e quattro nelle carceri sulla terra. Sul pianeta durante quell’annata non successe nient’altro di eccezionale; in poco tempo tutti si dimenticarono di Georgio Ramò e gli altri tre ragazzi.

Solo quattro anni dopo Anne, la figlia di Martin De Robbe, in un’assemblea cittadina informò tutti gli altri di aver scoperto che quel giovane che aveva guidato la spedizione punitiva contro Ramò, era stato anch’egli un assassino, e che solo da poco gli era stata attribuita una vittima che uccise a colpi di pistola, una testimone oculare. Nessuno proferì parola, tutti tacquero, perché era sicuramente vero che ognuno su quel pianeta aveva qualcosa da nascondere, ma che era meglio tacere per evitare pregiudizi e le strane reazioni degli esseri umani.

di Andrea Capodimonte

NOVEMBRE 2108

– Karen.

– Dimmi Kris.

– Non credi che forse dovremmo dirglielo?

– Sei per caso impazzito?

– No, credo solo che non possiamo andare avanti così. Kory avrà 12 anni il prossimo mese, è abbastanza grande per capire.

– E per capire cosa? Che potrebbe non avere nessun futuro? Che il mondo che ha conosciuto finora è unico nel suo genere?

– Beh, sì. Non trovi egoista tenerlo all’oscuro di tutto, come se vivesse in una bolla? Il mondo è dei Perfetti oramai, Karen. È così e basta. Prima lo saprà, meglio sarà.

– Bene, ora è chiarissimo, hai perso nuovamente la ragione. Non solo, questa volta mi stai anche dando dell’egoista. Io, Karen Krinealis, madre, moglie, lavoratrice devota. Sei tale e quale a quello stronzo di tuo zio, Kris.

– Adesso non esagerare Karen, non fare come al solito, suvvia… Stavo solo dicendo che, insomma…

Le discussioni tra i miei genitori andavano avanti così, all’infinito. Era sempre la stessa storia: dire al piccolo Kory che il mondo, là fuori, era pieno di ingiustizie e bruttezze, prepararlo alla cruda realtà, o lasciarlo lontano da ogni pericolo, da ogni paura, protetto nel nido natale. Quale grande dilemma… Credo che nessuno dei due si rese mai conto che li sentivo praticamente sempre, tramite una piccola fessura nella parete interna della cucina. Era molto curioso vederli litigare, perché sembravano un disco rotto.

Su questa faccenda, come per altre, non arrivavano mai a una conclusione realmente condivisa, mai che trovassero un compromesso davvero funzionale. Eppure, tra tutte le differenze, sembravano completarsi l’uno con l’altro. Perché alla fine, in un mondo che crollava, socialmente e fisicamente, su se stesso — tra l’ascesa dei Perfetti, la segregazione dei Puri, la lenta e dolorosa morte della natura — questo non era nient’altro che un modo per creare una dimensione di quotidianità. E ci riuscivano, eccome.

Ogni volta, comunque, le danze venivano aperte da un timido accenno di mio padre, volenteroso di sbloccare la situazione, ma consapevole della sua inferiorità caratteriale in confronto alla mamma. Ma lui persisteva, scontro dopo scontro, mai intimorito dall’ennesimo, totale, fallimento in arrivo. Mio padre era così: nel suo essere fragile e introverso, non permetteva mai a se stesso di abbattersi, non perdeva mai la volontà di continuare. Nemmeno quando il nemico era impossibile da vincere. E lo era per tutto. Lo vedevi, giorno dopo giorno, con la sua solita pacatezza, affrontare demoni interiori ed esteriori senza la minima smorfia di dolore o stanchezza. Mai una parola fuori posto o una di troppo. Se fuori era inespressivo, dentro era un tumulto.

A quattro anni dalla sua morte, ciò che mi manca di più di lui è proprio questa sua passiva e genuina forza, che sprigionava anche nelle cose più piccole.

Mio padre insegnava, con il corpo, ad essere indistruttibili.

Paradossalmente, la stessa qualità del feroce metallo dei Perfetti.

di Lorenzo Mondaini

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