Legion: il dramma dell’antieroe per scherzo

Da Fargo a Legion, Noah Hawley rischia tutto e riscrive le regole del supereroe

Giacomo Alessandrini
La Caduta 2016–18

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Il primo episodio di Legion viaggia sicuro come un treno in galleria. Il colpo arriva e le immagini assaltano lo schermo, a scapito forse dell’intrigo. Percepiamo il potenziale — e a fatica riusciamo ad identificarlo. Mentre ero seduto a guardare il pilota non riuscivo a smettere di pensare a Utopia, a quel genere d’impatto. Ben sappiamo del destino della serie di Channel 4, cancellata dopo una seconda stagione pretenziosa e auto-celebrativa, proprio quello che non vorremmo aspettarci dall’emittente FX. Eppure Legion scommette in grande, con un intraprendente Noah Hawley in veste di showrunner (già creatore dell’antologica Fargo). Il ritmo è incalzante, convulso, come ci si aspetterebbe da una professionista. La regia, volutamente dispersiva, esalta l’innocenza, la malattia, il lato umano e disperato del protagonista. Il montaggio frenetico scandisce i momenti di tensione, accompagnandosi ai migliori pezzi dei Rolling Stones. Le battute tra protagonista e compagni d’avventura, spesso ammorbidite da un marcato accento ironico, sottolineano la fragile coralità del testo. Lo spettatore, testimone di un caotico universo che non lascia indizi interpretativi, si affida all’inquadratura. Non riusciamo ad abituarci al setting, in costante mutamento. I minuti iniziali informano, in maniera approssimativa, sul passato del protagonista, mostrandoci scene di ribellione e violenza, tra un’infanzia disincantata e un’adolescenza turbolenta. La sequenza in slow-motion sembra un girato di Guy Ritchie in acido. Il totale d’apertura scopre le carte: assistiamo ad una faccia a faccia tra due individui, l’uomo libero e il condannato, in una stanza simile a quella degli interrogatori nei polizieschi americani — con delle allarmanti scritte sul muro a fare da sfondo. A questo punto hanno catturato la nostra attenzione e l’occhio cade sull’espressione di lui. Tic nervosi, insicurezza e sguardi persi: questo sappiamo — finché non veniamo a conoscenza della schizofrenia. Il protagonista di Legion, David Haller, va sottolineato, è uno schizoide, sociopatico e irresponsabile, una mina vagante pronta ad esplodere, internato — per sua scelta — in un ospedale psichiatrico. Il fascino di una narrazione avvolta dal mistero, in cui spesso e volentieri lo spettatore si sente raggirato, facilita l’organizzazione dei punti di svolta, che compongono, con il progredire del plot, l’immenso mosaico delle linee narrative. Non è magia, è arte della manipolazione, di cui i grandi sono maestri. A questo punto sorge spontanea la domanda: è buono o cattivo il nostro uomo? Il confine tra hero e villain non è mai stato tanto sottile in televisione: l’elemento di rottura, quello che doveva essere determinante in Constantine e non lo è stato (parlando da fan di Hellblazer). Legion s’avvicina a quelle serie d’azione da caccia alla spia, lontana anni luce, nel bene, dalle produzioni super-eroistiche. L’attore Dan Stevens (chi ha detto Downton Abbey?), interprete del carismatico David, ha un atteggiamento straniante, e con evidente difficoltà l’osserviamo recitare nei panni dello sciagurato — riuscendo a simpatizzare solo se costretti. Dan vive l’antieroe dal di fuori, scoprendosi insieme al fruitore dello show. Ancora un trucco, c’è lungimiranza nella scelta del cast: sono unici e inadatti, disorientati come i relativi personaggi.

Finora il rigido codice degli uomini in calzamaglia prevedeva: uno spiccato senso del dovere, la salvaguardia del cittadino, il rispetto della legge, la lotta al crimine, la netta distinzione tra bene e male. Andando oltre serie pregevoli quanto snob (Daredevil, Jessica Jones e Luke Cage), il trend impone la necessità di un cambiamento rapido, e sì, doloroso; una radicale presa di posizione dell’opera (tant’è che risulta scollegata sia dai film di Bryan Singer che dagli albi illustrati, autonoma dal Marvel Cinematic Universe). Questo processo di restyling, che fonde tv d’autore — finalmente lo possiamo dire — e cinecomic made in Disney, plasma un nuovo paladino della luce, più pericoloso e subdolo dei predecessori: il supereroe disinteressato, antieroe per scherzo. Cambiano le regole del gioco e non la posta. Hanno preso la terza tappa del Viaggio dell’eroe — Il rifiuto del richiamo — e su quella hanno costruito un semidio indifferente, che fa dell’amoralità un vessillo, un simbolo, un brand. Semplicemente, il buono non vende più — e in tempi bui, l’oscurità crea domanda. Così siamo arrivati ad affrontare un male che male non è — ed i “cattivi” qui sono solo dei tipi armati di pessime intenzioni: il vero diabolico vive in David, come un Giano bifronte, è la sua neutralità ad essere croce e delizia della serie. In questo immenso campo di battaglia, tra il desiderio di accettarsi e la frustrazione di un ruolo incompreso, troviamo i personaggi secondari: un’altra paziente dell’istituto, tale Lenny Busker, e la mutante Sidney Barrett. Come riferito, le personalità che gravitano intorno all’ego di David sono ingranaggi della trama, catalizzatori di eventi e nulla più. Non c’è dubbio sulla riuscita dell’operazione, confermata dai dati di ascolto della premiere (triplicati nelle due giornate seguenti). Il secondo episodio, andato in onda il 15 febbraio, percorre il medesimo selciato. Tra incubi ricorrenti e fiabe macabre riviviamo i ricordi di Legione, vittima di circostanze drammatiche. Sfortunatamente una parentesi poco esaltante, che non aggiunge niente di nuovo al bagaglio d’informazioni: disorientati da una regia eccezionale che tutto ingloba e che inciampa a causa di un esasperato estetismo (la rovina di Mr. Robot). Ma in fondo va bene così: comunque un ottimo risultato, per chi come lui non ha mai lavorato nel settore. Hawley è più romanziere che sceneggiatore, perciò ha preferito impostare una suddivisione in capitoli delle singole puntate. Una trasposizione acerba, agra, e stranamente esaltante. Non ci resta quindi che aspettare una maturazione: la sua ambiguità sarà la sua fortuna.

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