L’Era post-metal dei The Ocean Collective

Antonio Del Basso
La Caduta 2016–18
13 min readMay 22, 2018

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Sono passati quasi 8 anni da quando mi capitò di imbattermi nei The Ocean. Era l’ottobre del 2010 e di lì a poco sarei andato a vedermi i The Dillinger Escape Plan per una data di un loro tour europeo. Ad aprire il loro concerto toccava ai The Ocean. Concessi loro qualche ascolto fugace e non attentissimo; l’impressione fu comunque buona e la curiosità di vederli dal vivo c’era. Era uno dei rari casi in cui la realtà superava le aspettative. Visti in carne e ossa il gruppo si presentava come una compatta macchina da metal vestita di nero, con una presenza scenica invidiabile e sopra le righe. Ai lati del palco LED inquietantemente a tempo sparavano fasci di luce che rendevano i contorni dei 5 figuri ancor più minacciosi.

Fu in quell’occasione, stordito da uno spettacolo non solo musicalmente entusiasmante, che iniziai a seguire le vicende di questo di certo particolarissimo gruppo. Che, scoprii poi, non era da sempre stato un gruppo, quanto un insano collettivo di Dio solo sa quanti elementi (parrebbero circa 60 i musicisti coinvolti: http://theoceancollective.com/pelagial/about-the-ocean/line-up/ ).

Non stiamo però parlando dei The Ocean solo per via della loro a dir poco bizzarra storia, o per via dei loro ricercati live. Parliamo di loro perché il tour europeo per il decennale di uno dei loro dischi chiave, Precambrian, conclusosi pochi giorni fa al Dunk!Festival di Berlino, ci offre lo spunto per inquadrare i motivi per cui la band tedesca costituisca una pietra miliare in quello che viene popolarmente definito post-metal. Con l’orecchio del 2018 proveremo perciò a individuare i momenti chiave della ricca discografia della band, cercando di carpire le influenze e gli orizzonti aperti dal gruppo tedesco.

C’è un archè dal quale partire, un punto fermo che ha diretto e orientato tutto ciò che una volta si chiamava appunto The Ocean Collective: è Robin Staps, berlinese, che nella capitale teutonica dà vita a questo progetto. Siamo nel 2001 e sottoterra, in una fabbrica d’alluminio dismessa risalente alla seconda guerra mondiale, il nascituro collettivo si ritrova per produrre musica adatta al contesto; metallurgica, potremmo dire. E dopo aver sentito i primi EP — Islands/Tides e Fogdiver — fidatevi che la battuta risulta fondata. Trattasi infatti di dischi che fanno venire alla mente imperiture tempeste d’acciaio che si rovesciano sulla testa dell’ascoltatore. Oltre al suono lamieroso e ancora acerbo ci sono però delle cose decisamente da notare. L’impetuosità delle chitarre, nella loro incisività hardcore, e la natura sperimentale innata nei The Ocean si rincorrono in continuazione. Lo stile dei Breach, leggendaria compagine post-hardcore svedese ricorre spesso, in particolare agli esordi, nell’estetica musicale approcciata dal collettivo. Lo stesso Staps li ha più volte indicati come “influenza madre” nello sviluppo del proprio sound. Nei passaggi più soft si nota subito la cura e la pervasività dell’arrangiamento degli archi; cosa, questa, non marginale e decisamente ricorsiva all’interno della loro discografia. Le componenti orchestrali contribuiscono a rendere ancor più personale il sound del collettivo, grazie alla cura che Robin Staps ha sempre dedicato a questo tipo di arrangiamenti “classici”.

Inizio di un’era: Fluxion — Aeolian

I primi full-lenght ufficiali — usciti tra il 2004 e il 2005 — vedono un estremizzarsi della complementarietà tra i due dischi in una prospettiva duale che il collettivo porterà con sé quasi ininterrottamente; un album rappresenta l’anima più morbida e l’altra la più violenta, pur rimanendo in questo caso sempre entro i confini del metal. Fluxion e Aeolian sono gli album, dunque, nei quali Robin Staps può incominciare a esprimersi appieno, anche grazie all’appoggio della statunitense Metal Blade, grazie alla quale i The Ocean Collective cominciano a farsi notare nell’ambiente europeo del metal underground con massivi tour in giro per la Germania e l’Europa. Di certo, la matrice complice del loro discreto successo si basava sulla natura della formazione allargata portata in sede live: percussionista, violoncellista e un membro dedito specificamente alle visuals e alla sincronizzazione dell’impianto luci con la musica rendevano la performance del collettivo unica e stravagante. Una sorta di equivalente sludge/post-metal degli Slipknot.

04:30: avete visto bene. È una sega circolare.

Un caratteristica fondamentale per inquadrare la band come innovatrice è la capacità di inglobare in maniera ottimale le sezioni orchestrali — piano, archi, fiati e vibrafoni principalmente — all’interno dei brani e degli album in maniera coerente e organica. Difficilmente tale operazione risulta avere un esito felice nell’ambito metal, dove troppo spesso tali arrangiamenti fungono da inutili, o peggio ancora, forzati orpelli.

Di Fluxion, ciò che anche a distanza di molti anni rimane e che si è in grado di toccare con mano è la bravura dei The Ocean nello spaziare e nel creare atmosfere atipiche, che trascendono la posizione metal di partenza. Si veda ad esempio The Human Stain, dove il cuore del brano è composto da un lungo crescendo che, partendo da percussioni minimali e da note di violoncello, culmina in un’intensa sfuriata sludge con uno stop urlato sul finale: “Tonight we celebrate the human stain!” Reggetevi forte e ascoltate cosa i The Ocean Collective sfornavano 14 anni fa.

Per quanto riguarda il successore Aeolian, si tratta sicuramente di un lavoro che segue in maniera ortodossa e radicale il compito di rappresentare la controparte heavy del predecessore Fluxion, ma qui probabilmente tale direttiva risulta troppo forzata e eccessivamente martellante. Le influenze sono disparate, trattandosi di un coacervo di aggrovigliate sonorità incastonate tra Converge, Meshuggah e Breach. Certo non mancano brani interessanti, riproposti dal vivo anche a distanza di tempo, come l’opener A City in the Sea, resa sonora di un poema di Edgar Allan Poe. Qualitativamente si tratta di un buon disco, ma sono altri i lavori che hanno reso imprescindibili i The Ocean Collective.

L’Era Precambriana

Correva l’anno 2007 e i The Ocean, reduci appunto dal loro album più hardcore e martellante, si riunivano nuovamente in studio per dar vita al disco che avrebbe segnato per sempre il passaggio verso uno stile completamente personale e tutt’altro che già sentito. Stiamo parlando di Precambrian, nel quale Robin e soci ci regalano quella che probabilmente è l’opera più lunga, per i suoi 83 minuti, ma anche la più affascinante. L’intento dichiarato per questo album è quello appunto di trasportare l’ascoltatore a 4 miliardi di anni fa, durante la genesi del nostro pianeta, e immergerlo nei due eoni primordiali. Eoni che danno anche il nome ai due cd da cui è composto Precambrian: Hadean/Archean e Proterozoic. trattasi infatti di un doppio album che include in sé le due anime della band.

Con questo disco il collettivo raggiunge la sua massima estensione contando oltre due dozzine di componenti, tra cui una serie di special guests di lusso quali Caleb Scofield (Cave In, Old Man Gloom), Nate Newton (Converge, Doomriders), Tomas Hallbom (Breach), Eric Kalsbeek (Textures) e una serie di musicisti dell’Orchestra Filarmonica Berlinese. Già in base a questi ospiti ci si può render conto delle due ispirazioni fondamentali per la musica del Collettivo: l’hardcore (o meglio: il crocevia tra hardcore-post-hardcore e sludge) e il profondo connubio della musica composta da Robin Staps con gli arrangiamenti orchestrali.

Precambrian apre le danze con Hadean/Archean trascinandosi dietro tutto il caos di questo primo eone, facendo tremare la terra sotto i nostri piedi. Per l’intera durata delle 5 tracce — ognuna delle quali riprende il nome di un’era — ricorre un sound massiccio tipico dalla band soprattutto nel precedente Aeolian, benchè qui più raffinato e maturo. A consolidare questo sound è sicuramente l’avvento di Mike Pilat alla voce; già membro del collettivo come bassista, decide ora di farci assaporare le sue doti canore tra growl e sfuriate, spesso in duetto con il già noto “Meta” (Mathias Buente) e Nico Webers. Retrospettivamente, possiamo notare come la prima parte di Precambrian testimoni un’ultima esibizione delle sonorità più violente sperimentate in passato. Venti minuti di puro hardcore-metal — tanto “in your face” quanto tecnicamente elaborato — che tramortiscono l’ascoltatore, ormai prossimo ad affrontare il vero capolavoro di Precambrian. Proprio qui, sotto le solitarie note di Siderian, ha inizio il secondo eone, la massima maturazione finora raggiunta dai The Ocean. Qui inizia Proterozoic.

Procede senza intoppi lo scorrimento tra Siderian e Rhyacian (Untimely Meditations), tramite il quale si viene catapultati interamente nel disco. Forse proprio quest’ultima è la traccia più memorabile dell’album, tanto da venir ri-registrata con la line-up corrente e inclusa nell’edizione del vinile che ne celebra il decennale.

Come suggerito dal titolo completo del pezzo, il testo di Rhyacian contiene estratti da “Le considerazioni inattuali” di F. Nietzsche.

Poche, essenziali e azzeccatissime note di chitarra sostengono la struttura di un brano che parte soffuso, ma che allo stesso tempo conserva groove e un’atmosfera melodica enfatizzata da memorabili linee vocali. Tra un pezzo e l’altro si evidenzia all’ascolto un’influenza ulteriore e non irrilevante. Quella degli svedesi Cult of Luna, altra formazione post-metal che condivide con i The Ocean la stessa passione per i Breach, in particolare, oltre che per la scena hardcore fine anni ’90. La stessa conclusione di Rhyacian, affidata ai synth come anche il riff principale di Orosirian (For The Great Blue Cold Now Reigns) sono indizi del fatto che Salvation (Cult of Luna, 2004) ha fatto scuola, come d'altronde ha sottolineato lo stesso Robin in alcune occasioni. Ma non ci fermiamo qui. La componente barocca dello stile compositivo di Robin acquisisce qui ancora più eleganza, a contrastare con la prima, infuocata sezione, andando avanti coi brani e il disco guadagna corposità e profondità. La musica si apre a momenti quasi progressive, pur senza risultare dispersivo. Cosa non facile vista la durata e la complessità del progetto, che racconta più di ciò che sembri. Liricamente, infatti, Precambrian utilizza la metafora geologica per parlare del nostro tempo. Dietro gli accenni agli sconvolgimenti geologici dell’eone primordiale è intuitivo leggerci allusioni al riscaldamento globale, evidenziando anche un certo pessimismo per le vicende umane, con ampio spazio dedicato alla solitudine individuale.

L’intero brano riprende “De Profundis” di George Trakl.

Da un punto di vista complessivo, Precambrian è un notevole e riuscito tentativo di comporre un’opera in controtendenza rispetto alla musica “usa e getta”, volatile e priva di un’idea forte che la sostenga. Nella citazione che segue, posta tra i crediti dell’album, Robin si ricorda della dottrina aristotelica del tutto e dell’intero:

“Precambrian è la nostra istanza contro la volatilità e la transitorietà indotta da MySpace… È un album per persone che ancora credono nell’idea che un album possa e debba essere più della somma delle sue tracce.”

Nei mesi successivi a Precambrian, entra a far parte del progetto direttamente dalla Svizzera il talentuoso chitarrista Jonathan Nido dimostrando la sua eccezionale presenza scenica nei vari tour a venire. Proprio qui ha inizio quella che lo stesso Robin ha definito come “invasione svizzera”, sarà infatti il basso di Louis Jucker il nuovo acquisto del collettivo insieme alla vasta varietà ritmica del batterista Luc Hess. Il collettivo trova con questa line-up una sintonia mai avuta prima e sarà proprio l’arrivo del cantante Loic Rossetti — anche lui svizzero — a consolidare il passaggio da un ormai ex collettivo ad una vera e propria band con formazione fissa.

L’Era eliocentrico-antropocentrica

Con l’accoppiata Heliocentric–Anthropocentric, l’obiettivo dichiarato di Robin è di presentare un concept album sulla critica al cristianesimo, tra desiderio di emancipazione dell’uomo dalla religione e critica dei dogmi e dei suoi precetti. Per quanto riguarda la prima metà, Heliocentric, si tratta del disco che certifica la maturità compositiva di Staps. Inoltre, il contributo dei musicisti diviene ora più libero e personale.

La forma-collettivo non ha mai avuto una natura stabile e per la sua propria costituzione consisteva nel ruotare incessante della line-up, in base a disponibilità dei singoli di membri di imparare le parti scritte per qualsiasi strumento da Robin, registrarle e suonarle dal vivo. Nessuno aveva fino a questo momento voce in capitolo riguardo qualsiasi cosa (“despota creativo”, così si definisce lo stesso Robin tra i crediti di Precambrian). Il passaggio a una line-up fissa, di cinque elementi, avvenuta tra il 2009 e il 2010 non ha regalato alla band solamente maggiore stabilità, ma anche una rinnovata freschezza e originalità per quanto riguarda gli arrangiamenti dei singoli strumenti. I nuovi membri — Jonathan Nido, Luc Hess, Louis Jucker e Loic Rossetti hanno giocato un ruolo chiave in questi due nuovi lavori contribuendo in prima persona nella stesura di alcuni pezzi.

Si tocca infatti con mano l’impegno e la maggiore partecipazione degli strumentisti, tra cui spiccano il lavoro superbo di Louis Jucker al basso e di Luc Hess alla batteria, soprattutto perché dimostrano anch’essi di non essere solamente abili nel metal, quanto piuttosto nello scoprire come tale musica sia in realtà una musica essenzialmente più duttile del previsto. Nelle sue così riesplorate forme trovano posto un diverso modo di suonare e sostenere il groove equidistanti sia dalla piattezza e dalla monotonia fin troppo comuni nel metal — sia dal virtuosismo di certo progressive.

Heliocentric presenta anche brani insoliti anche per la stessa band; si veda Ptolemy Was Wrong, Catharsis of a Heretic, Epiphany. Siamo davanti a vere e proprie composizioni che esulano del tutto dalla sfera metal, cosa prima mai accaduta nella storia del gruppo e che contribuisce a far risultare Heliocentric come uno dei dischi più avanguardistici nel metal odierno, proprio per la sua capacità di assorbire e riproporre in maniera matura e credibile — in un contesto originale — influenze aliene proprio alla musica heavy. Heliocentric è il disco dei The Ocean da far ascoltare al vostro amico che non sopporta il metal.

E, cosa ancora più importante, per chi scrive potrebbe benissimo essere uscito ieri e suonare ancora urgente e geniale. Risiede con ogni probabilità in questo, il significato di un’etichetta così “informe” come quella di post-metal, nella quale si può ascrivere appunto la band tedesca. Non si tratta certo di una definizione che detti a priori gli stilemi sonori da adottare, quanto invece d’un “attitudine” a oltrepassare le cortine di ferro che oramai non possono più separare in maniera stagna i generi e le correnti musicali come in passato. Questa è la strada — una delle tante possibili e non certo quella “giusta” di fronte a tante altre “sbagliate” — che una serie di band tra cui i suddetti The Ocean hanno intrapreso a partire dalla fine degli anni ’90, prendendo le mosse da quei primi solchi tracciati da gente come Neurosis e Isis.

Anthropocentric è — come da tradizione — il “fratello cattivo” di Heliocentric; ne riprende infatti i temi ma questa volta è protagonista l’individuo, l’uomo. Staps prende di mira la concezione della sua presunta posizione al centro dell’universo. La maggior parte dei testi sono basati su trattati filosofici (si veda come Nietzsche ricorre spesso nei dischi della band); in particolare le tracce The Grand Inquisitor I, II e III sono completamente ispirate ai “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij.

Il disco si apre sulle urla della monolitica title-track, dove Loic Rossetti conferma il suo spaventoso talento da cantante alternando i suoi tipici ruggiti a ritornelli completamente melodici. Pur essendo il disco “hardcore” della coppia, la vera novità è che qui la melodia riesce qui a convivere perfettamente con la furia dei frenetici riff, superando un po’ la radicale dicotomia vista in passato. Anthropocentric e Heliocentric rimangono memorabili per la loro capacità d’essere meglio miscelati l’uno con l’altro, benché riconoscibili a vista d’occhio l’uno come lato più heavy e l’altro più soft.

Non mancano anche episodi Heaven TV che a tratti raggiunge composizioni ritmiche che sfiorano il mathcore. L’ascolto prosegue divinamente mantenendo un perfetto equilibrio tra pezzi frenetici e intermezzi onirici; massimi esempi sono Wille Zum Untergang e la conclusiva The Almightiness Contradiction, pezzi che non sfigurerebbero nel catalogo di gruppi post-rock come This Will Destroy You, Mogwai, o Maybeshewill. Brani che conducono uno spirito tutto sommato riappacificato (di certo non col cristianesimo, ma con l’idea di un universo senza Dio, perfetto in sé) alla fine di un concept emotivamente teso e coinvolgente.

La maggior parte dei pezzi è stata scritta da Robin, benché questa volta tutti i membri abbiano contribuito alla stesura delle tracce. soprattutto il chitarrista Jonathan Nido, compositore in questa sede di quattro brani, tra cui uno dei più proposti dal vivo, The Grand Inquisitor II: Roots and Locusts.

in generale, per quanto riguarda gli equilibri della band, si nota la tendenza da parte di Robin Staps, a condividere con altri il fardello della creazione musicale. Cosa prima d’ora mai successa; la creatività del tentacolare mastermind Robin Staps ha sempre pervaso i The Ocean in tutti i suoi gangli; dagli arrangiamenti di ogni singolo strumento alle live performance, è sempre stato chiaro che nel Collettivo ogni cosa veniva strutturata e programmata nei minimi particolari da Robin Staps. Per il breve periodo di Heliocentric e Anthropocentric le intenzioni e l’estetica complessiva del progetto si è allineata ed è stata condivisa con i musicisti di cui sopra, complice anche il livello tecnico e creativo degli ultimi arrivati in pianta stabile in casa The Ocean.

Da Pelagial a Phanerozoic: nuova Era all’orizzonte

Ciò non si è replicato, però, per il seguente Pelagial, ultimo full-lenght dei Nostri, datato 2013. La composizione dei brani è da accreditare interamente a Robin e a quanto pare ciò ha portato a disaccordi e malumori interni sfociati poi nella fuoriuscita di Luc Hess e Jona Nido dal gruppo, costringendo così gli Ocean a mutare ancora una volta la propria forma, riappellandosi alla capacità di Staps di tenere ancora vivo e vegeto il progetto, re-innestando nuovi componenti (Mattias Hägerstrand al basso, Paul Seidel alla batteria) e dedicando questi ultimi anni a corroborare di nuovo l’integrità della band.

Per quest’album l’ispirazione viene tantomeno che dal capolavoro del cinema di Adnrej Tarkovskij, Stalker. Dal film la band trae l’idea di un viaggio verso una misteriosa “zona” al centro della quale i più profondi e inconfessabili desideri dei visitatori divengono reali. Tematicamente si tratta perciò di un ulteriore approfondimento sulle tematiche del desiderio, degli impulsi e non ultimo sulla moralità stessa. In qualche modo, perciò, proseguendo sul solco tracciato nei precedenti Heliocentric — Anthropocentric. Anche questa volta si tratta di un concept composto per essere ascoltato dall’inizio alla fine, dove all’inizio arioso e melodico del disco corrisponde un finale apocalittico, volutamente essenziale e dai toni quasi doom.

“…And most important, let them believe in themselves. Let them be helpless like children, because weakness is a great thing, and strength is nothing. When a man is just born, he is weak and flexible. When he dies, he is hard and insensitive. When a tree is growing, it’s tender and pliant. But when it’s dry and hard, it dies.” (Stalker, A. Tarkovskij)

Non è necessario in questa sede dilungarsi troppo anche su Pelagial, poichè si tratta di un disco che non aggiunge molto altro rispetto alle novità messe in campo finora dai The Ocean; in quest’ultimo album vengono piuttosto ribadite quelle qualità compositive già emerse a sufficienza nei dischi immediatamente precedenti.

Negli ultimi anni la band è stata meno prolifica del solito, rilasciando solo due brani in due diverse occasioni — lo split coi Mono (The Quiet Observer) e un altro brano singolo(Turritopsis Dohrnii) incluso in una recente playlist dell’etichetta discografica fondata da Robin Staps, la Pelagic Records. Lo scorso gennaio però, ecco spuntare l’annuncio (più volte sussurato) via Facebook,che il successore di Pelagial uscirà quest’anno e si intitolerà Phanerozoic. Si tratta ancora una volta di un doppio album, il primo dei quali vedrà la luce questo settembre. Ecco le prime parole di Robin Staps al riguardo:

C’è un gap tra “Precambrian” e “Heliocentric”, sia concettualmente che musicalmente…ed è un’idea che ci tenta, quella di riempire questo gap con un nuovo album, che connetta i due.

Ecco, proprio i due dischi che abbiamo definito come fondamentalmente i migliori e più innovativi mai composti dai The Ocean vengono richiamati in causa al fine di ricostruirne un ponte tra i due. Retrospettivamente tali album sono considerati da Staps abbastanza distanti, ma anche — evidentemente — come i lavori più affascinanti e ricchi di idee, tanto che c’è ancora dell’altro, un ancora oscuro frammezzo, da portare alla luce. Almeno secondo Staps. Per inciso, il Fanerozoico è il nome dell’eone successivo al Precambriano, dunque esso è l’eone corrente, nel quale si situa anche l’era dell’uomo. Ascolteremo.

Articolo a cura di Antonio Casagrande e Diego Leporoni

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