Atari Kobayashi mostra una foto del suo cane Spots

L’Isola dei Cani è il film più serio di Wes Anderson

In un Giappone distopico con cani parlanti che si muovono in stop-motion, il regista affronta per la prima volta dei temi politici

Tommaso Tecchi
La Caduta 2016–18
6 min readMay 10, 2018

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In una metropoli giapponese — chiamata genialmente Megasaki — il sindaco corrotto della città identifica nei cani affetti da diversi virus il nemico numero uno della comunità e decide di deportarli tutti su un’isola-discarica. Un suo lontano nipote, nonché figlio adottivo e giovanissimo erede, parte in un viaggio disperato per ritrovare il suo cane da guardia altamente addestrato. Raccontata così, la trama de L’Isola dei Cani sembrerebbe quella di un film Disney o comunque di qualche film animato e animalista per bambini; se non fosse che dietro a questa semplice storia c’è la mente allucinata di uno dei registi più inconfondibili della nostra epoca: Wes Anderson.

Negli anni il cineasta texano è diventato una sorta di idolo indie (in Italia gran parte della colpa è de I Cani), al punto che chi ama i suoi film quasi si vergogna di ammetterlo per non passare per un banale hipster. In realtà le sue opere sono talmente personali che difficilmente possono rientrare in una categorizzazione del genere, figuriamoci venire rivendicate da un’intera sottocultura morente. I film di Wes Anderson sono fatti per piacere ad un’unica persona: Wes Anderson. O perlomeno, questa è l’impressione che danno. È per questa ragione che quando il regista tira fuori una pellicola facilmente consumabile dalle masse — e non solo dai suoi fan sfegatati — si grida così velocemente al capolavoro. Così è stato per Grand Budapest Hotel, che nonostante le tinte rosa e viola e i dialoghi improbabili riusciva a risucchiare lo spettatore dentro la spirale dei suoi diversi livelli narrativi. Così è stato per quello che ad oggi rimane la sua opera massima: I Tenenbaum, che probabilmente è il suo film più “normale” e l’unico (a parte forse il comunque meno riuscito Rushmore) in cui la scenografia pacchiana, la fotografia simmetrica e tutti i cliché del nostro non riescono a prendere il sopravvento sulle vicende dei personaggi. Tenendo fuori dal discorso l’acerbo esordio Bottle Rocket e Fantastic Mr. Fox, è difficile che una persona a cui non fa impazzire lo stile di Wes Anderson riesca ad arrivare alla fine di pellicole come Le Avventure Acquatiche di Steve Zissou, Moonrise Kingdom o Il Treno per il Darjeeling senza sbadigliare o passare ad altro.

Chief (Bryan Cranston) e Atari Kobayashi

Nonostante abbia apprezzato molto Grand Budapest Hotel, dopo averlo visto — e dopo averlo confrontato con gli altri due big movies usciti lo stesso anno, ovvero Birdman e Vizio di Forma — ho iniziato a chiedermi quando Wes Anderson si sarebbe stancato di raccontare favole per dedicarsi a qualcosa di più serio. Ho messo per la prima volta in discussione il mio parere sul regista, reo ai miei occhi di fare un cinema fin troppo elitario (intendendo, come dicevo prima, che lui stesso è l’unico membro di questa élite) e distaccato dal mondo in cui viene distribuito. Insomma, ne avevo abbastanza di tutta questa idealizzazione dei personaggi e di ciò che li circonda. Di conseguenza la mia reazione alla notizia che il prossimo film sarebbe stato uno stop-motion su cani parlanti la mia reazione è stata più o meno questa: “ah…ok…vabbè…niente”. Poi le prime immagini sono arrivate e se le mie aspettative sono rimaste a grandi linee invariate, almeno la mia curiosità è cresciuta.

Premetto che l’ultimo film che ho visto prima di guardare L’Isola dei Cani è stato Loro 1 e quindi il confronto potrebbe aver in parte influenzato la mia reazione, ma di questo ne parleremo (forse) in un’altra sede. Sta di fatto che sono uscito dalla sala con un solo pensiero: non solo si tratta di una delle pellicole più interessanti di Wes Anderson, ma anche — paradossalmente — della più seria della sua filmografia. L’universo rappresentato sarà pure fittizio, popolato da pupazzi snodabili e da quadrupedi parlanti, ma è anche distopico e affetto per la prima volta da problemi reali di cui abbiamo recentemente rimparato a preoccuparci. L’Isola dei Cani, oltre al rapporto tra l’uomo e il suo migliore amico, parla infatti di totalitarismo, di corruzione, del boicottaggio utilitaristico di teorie e pratiche scientifiche, di controllo della stampa e di cyberguerra. Argomenti che nell’era di Trump, Putin, Erdogan, Assad e Kim Jong Un, non possono e non devono passare come una scelta casuale e smaliziata. Se i cattivi del film — il sindaco Kobayashi e l’inquietante Maggior-Domo — sono stereotipati e adattati ad un film d’animazione, le loro azioni fanno tutt'altro che sorridere. Il piano, basato su una storica tradizione di pregiudizi, di far passare l’intera razza canina per colpevole, di deportarla su un’isola disabitata per poi eliminarla completamente non può non accendere qualche lampadina nello spettatore. La crudele oppressione del Partito della Scienza e del suo leader Professor Watanabe, intento a sperimentare l’antidoto per le malattie dei cani, è una delle cose più drammatiche accadute in un’opera di Wes Anderson. L’unica debole speranza risiede nel giovane eroe Atari e nell’unica forza di resistenza rimasta a Megasaki: un gruppo studentesco capitanato da una ragazza in scambio da una scuola dell’Ohio. In contrapposizione all’uomo, di cui per gran parte della durata del film non comprendiamo la lingua, ci sono le vittime, i cani. Questi ultimi, che comunicano tra loro come degli individui perfettamente istruiti, sono ironicamente più simili ai soliti personaggi creati dal regista. Sia randagi che domestici, i protagonisti de L’Isola dei Cani ricordano spaventosamente i borghesi annoiati ed eccentrici tanto amati da Anderson: la maniera educata con cui discutono delle decisioni da prendere, il continuo parlare di pettegolezzi (che ritorna per tutta la pellicola un po’ come lo scambio di medicinali ne Il Treno per il Darjeeling) e il modo goffo con cui si battono tra loro, sono tutti comportamenti già visti e perfettamente applicati a questo insolito scenario.

Al di là della trama e delle tematiche trattate, L’Isola dei Cani è anche — e soprattutto — cinema puro, una gioia per gli occhi. L’uso delle inquadrature simmetriche e delle panoramiche secche non è una novità (e non poteva mancare), ma le luci e i colori selezionati per ogni singola sequenza raggiungono in questo caso, grazie anche alle possibilità offerte dall’animazione, effetti ancora più suggestivi rispetto a ciò che Anderson ci aveva fin qui abituati a vedere. La colonna sonora, firmata nuovamente dal sempre ottimo Alexandre Desplat scandisce i ritmi incalzanti di una pellicola che non lascia spazio ad alcun momento di distrazione: ogni secondo in cui gli occhi dello spettatore si staccano dallo schermo equivale alla perdita di qualcosa di importante. Se allo stop-motion e alla conformazione dei personaggi ci si abitua subito dopo le prime scene, come se ci trovassimo davanti al movimento di persone (e cani) in carne ed ossa, il merito è tutto dell’immenso team che ha lavorato per creare con le proprie mani l’universo di questo film. La scena della preparazione del sushi lascia a bocca aperta e obbliga a chiedersi quanta cura ci sia dietro ogni singolo dettaglio. Banalmente, anche la resa del fumo generato dalle esplosioni e dalle cartoonesche azzuffate (di gran lunga l’effetto visivo meno realistico) dopo averla vista la prima volta diventa sensata. Tutto ciò fa quasi passare in secondo piano un’altra tecnica stilistica molto presente all’interno del film, ovvero le bellissime illustrazioni utilizzate per rappresentare fotografie, stampe, poster e le immagini sugli schermi televisivi.

Leggendo alcune opinioni riguardo a L’Isola dei Cani, l’unica critica ad emergere in modo piuttosto frequente è quella di appropriazione culturale (il musicista statunitense Will Toledo dei Car Seat Headrest si è addirittura spinto a definirlo razzismo) e di banalizzazione dell’immaginario nipponico. L’unico commento che mi viene da fare a riguardo è che un film d’animazione non è un documentario e che trovo abbastanza fuori luogo concentrarsi in questa occasione su un aspetto del genere, ignorando tutte le pellicole americane su ninja e samurai e gli adattamenti “sbiancati” di anime giapponesi. Ma anche To Rome with Love di Woody Allen, per dire.

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