L’occhio pigro di una scelta facile

Quando l’Orso d’Oro non basta: la scelta di Fuocoammare come rappresentante italiano agli Oscar 2017 porta con sè alcuni dubbi su chi davvero meriti attenzione alll’interno del panorama cinematografico italiano degli ultimi anni

Martina Zerpelloni
La Caduta 2016–18
4 min readSep 28, 2016

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Fumata bianca all’ANICA. Lunedì 26 Settembre difatti, la commissione che si occupa di scegliere il candidato italiano in corsa per gli Oscar ha dato il suo verdetto. Sarà infatti Fuocoammare, il documentario di Gianfranco Rosi, a rappresentare il Bel Paese per l’Oscar come miglior film straniero. Una scelta scontata?

Già vincitore dell’Orso d’Oro al Festival del cinema di Berlino, il film di Rosi cerca di portare ad Hollywood un po’ di riflessione su quelli che sono temi senza dubbio attuali.

Parlando di un’isola — Lampedusa — e dei suoi abitanti, Rosi racconta il problema dell’immigrazione ma senza retorica. Questo è senz’altro un aspetto che ha reso Fuocoammare degno di nota. Non cerca di commuovere, ma di smuovere. È senza dubbio un grande lavoro di reportage. Senza fronzoli, tagliente. Questo perché, va detto, il regista ha passato più di un anno sull’Isola per conoscerla e farsi riconoscere, come un vero reporter sa fare e come, purtroppo, le sempre più numerose inchieste “mordi e fuggi” ad impatto non sanno fare.

Paradossalmente è proprio questo aspetto del film, che è poi ciò che lo rende tanto potente, a non convincere del tutto rispetto alla scelta fatta dalla commissione. Perché scegliere un film sull’immigrazione come rappresentante italiano, quando l’Italia sta appunto affrontando un problema di immigrazione è essenzialmente una scelta retorica. Mondo, dacci l’attenzione che ci spetta.

Sembra quasi un tentativo di giocarsela facile. Si sa che l’Academy è essenzialmente buonista, che potrebbe premiare un film di questo tipo (che, sia chiaro, al momento non è ancora selezionato nella cinquina dei finalisti) e che portare il documentario di Rosi a Hollywood farebbe senz’altro aumentare le attenzioni su un tema delicato e tanto dibattuto. Sarà che colei che ha il potere di intercessione in quel di Beverly Hills come neanche la Vergine Maria nella Divina Commedia si è schierata. Meryl Streep (sempre sia lodata) infatti alla premiazione dell’Orso d’Oro a Berlino aveva già dato una strizzatina d’occhi a Rosi. Ma per l’appunto se si parla di documentario, perché non candidarlo nella sezione apposita?

Che lo si ami o lo si odi (o che semplicemente lo si sopporti), anche il regista Paolo Sorrentino è di questa idea. Da membro interno alla commissione ANICA, che ha promosso la scelta di Fuocoammare, il regista partenopeo è d’accordo sul fatto che, sebbene la scelta sia buona, si sarebbe potuto azzardare di più.

Quest’anno erano diversi i candidati che avrebbero potuto giocarsela bene per l’italia. Tra i 7 film in lizza, Suburra di Stefano Sollima e Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti; entrambi titoli che avrebbero potuto dar nuovo slancio all’immagine del cinema italiano all’estero. Concentriamoci per un attimo sul film che ha fatto razzia di premi agli ultimi David di Donatello: Lo chiamavano Jeeg Robot. È vero, è vero, ormai il film di Mainetti è osannato dai giovani cinefili italioti, ma a ragione. Basti pensare anche solo al budget irrisorio (meno di 2 milioni) con cui Gabriele Mainetti ha realizzato questa piccola perla. Un film di supereroi con pochi effetti speciali ma gestiti bene, grazie anche ad un sapiente uso del montaggio che lascia a dire a tutte le ultime sbavature prodotte in casa Warner, restando in tema di supereroi. Si racconta un supereroe atipico che ci racconta Roma, che a sua volta ci racconta l’italia. Portare Jeeg Robot ad Hollywood, dove è difficile che possa arrivare per altre vie (cosa invece probabile per il lavoro di Rosi) sarebbe stato un buon modo per dimostrare che in Italia la capacità di fare buoni film non è soffocata a furia di ingoiare cinepanettoni. Mainetti è appunto un esempio di come ci si stia risvegliando dal torpore, così come il collega Sollima, che con Suburra ha creato qualcosa di esteticamente rigenerante per il cinema italiano degli ultimi anni. Una pioggia incessante e una colonna sonora quasi interamente targata M83 accompagnano un altro ritratto della Città Eterna, bella nella sua decadenza, assieme ad una grande prova attoriale di Alessandro Borghi e Greta Scarano, che reggono decisamente testa ai nomi più importanti che li affiancano. Un film potente nella sua imprecisione e che, come già il sopracitato lavoro di Mainetti, ha uno sguardo decisamente internazionale.

Nel frattempo incrociamo comunque le dita per il grande lavoro di Rosi, sperando vada meglio dell’anno scorso (quando quel film stupendo che è Non essere cattivo di Claudio Caligari fu addirittura escluso alle eliminatorie). Sarà un segno del destino che sia nel film di Caligari che di Mainetti c’è un fantastico Luca Marinelli? Forse complotto dello Star System. Noi te se ama comunque.

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