Maschere satiriche e vaghi sogni d’autore

Francesca Orestini
La Caduta 2016–18
8 min readMay 11, 2017

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“L’arte di ben pensare. Stili del Seicento italiano” è un saggio di Pasquale Guaragnella, pubblicato per Donzelli.

Pasquale Guaragnella ci ripropone le visioni frustrate di alcuni intellettuali seicenteschi che, con il loro impegno letterario e per amore della libertà hanno proposto una testimonianza di questo secolo così produttivo ed insieme represso, fervente di nuovi impulsi nati nel periodo sbagliato, e sotto un regime politico e religioso troppo oscurantista per permettere al luce del loro sguardo illuminato di lasciar progredire la società.

Controverso e decadente, il Seicento fu un secolo cui mai è stato facile apportare un giudizio. Nato dalle ceneri del Rinascimento, di esso non accolse l’eredità di una cultura unica, delle sue regole definite su un “unicum” di base, ed il pensiero subì una trasformazione radicale. In campo artistico si affermò la superiorità dei moderni sugli antichi, si ripudiarono le regole estetiche della forma, e ci fu una più attenta partecipazione degli artisti ai problemi sociali e ai progressi scientifici. Eppure, in campo letterario non si ebbe nessuna figura di spicco, e le varie opere che si crearono avevano troppo spesso una leggerezza e vacuità che tendeva semplicemente a stupire e meravigliare il pubblico, sfociando nel mero intento di “evasione”. Profonde contraddizioni che segnarono questo secolo ambiguo generando un clima di forte malinconia e depressione, sia sociale, politica che artistica, dando vita ad una forma di oscura superstizione che imperava nelle menti del popolo.

Fra i vari intellettuali che resero dolorosa testimonianza di questi tempi così ambigui, uno dei più agguerriti fu Paolo Sarpi. Moralista accanito e critico aggressivo si scagliò contro la decadente condizione italiana, e la sconsolata frustrazione degli intellettuali vessati dall’impossibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero, rinchiusi nella gabbia ferra della censura e del sospetto. La Chiesa fu l’organo più accanito nelle restrizioni, e volle espellere qualsiasi teoria che potesse dubitare della legittimità del suo potere. Proprio in questo periodo, infatti, la lotta con i movimenti protestanti fece traballare il potere assoluto del clero cattolico, che rispose intensificando l’opera sanguinaria della caccia alle eresie e determinando un uso massiccio del tribunale dell’Inquisizione. Si risvegliò il senso di una religiosità oppressiva e dispotica, in cui il peccato era il nemico insito nella fragilità dell’uomo da purificare. La figura del “confessore” acquistò un rilievo decisivo nella vita del popolo italiano. Con quale disprezzo e tristezza Paolo Sarpi dovette osservare il potere del paese nella mani di un organo che sfruttava terrore e superstizione per assoggettare e gli italiani supini alla fede nella Chiesa. Molti dei migliori intellettuali frequentavano le dimore ecclesiastiche, dove la vita culturale era molto fervente, sempre a patto di tacere qualsiasi tipo di critica diretta. Da tutto questo Sarpi ricava una visione profondamente pessimistica sia politica, che religiosa e culturale, e sosteneva che chiunque, come lui, avesse voluto difendere la propria libertà di pensiero era costretto a portare una maschera. Per sviare le censure ed evitare le condanne dell’Inquisizione, per i letterati era necessario “mascherare” se stessi e le proprie opere, dissimulandone il reale senso con allegorie e metafore.

Lo stesso Galileo Galilei fu vittima di questo sistema. Dopo essersi trasferito a Padova per una cattedra all’università nel 1592, egli aveva sentito parlare di un’invenzione fiamminga, la quale consentiva di avvicinare lo sguardo alle cose lontane. Ebbe l’idea di costruirsene uno, che chiamò “ cannocchiale”, e grazie ad esso nel 1609, egli poté osservare il cielo con precisione e fece le quattro scoperte trascritte nel Sidereus Nuncius. Rivelazioni di tale portata bastavano a mettere in crisi il sistema tolemaico: non esiste il quinto elemento celeste, l’etere, che renderebbe i cieli di consistenza diversa rispetto alla nostra materia, i confini dell’universo sono molto più vasti e misteriosi di quanto si era pensato fino a quel momento, e che non è il Sole a ruotare intorno alla Terra, ma il contrario. Nonostante si possa intuire con quale entusiasmo lo scienziato avesse potuto osservare la portata delle sue scoperte, nel Sidereus Nuncius egli non indulge a descrivere la propria meraviglia, ed il trattato ha uno stile particolarmente scevro da qualsiasi abbellimento. Infondo, le sue scoperte avevano una tale portata da non aver bisogno di descrizioni complesse ed astruse. Ma le sue teorie non coincidevano con quello che è scritto nelle sacre scritture e dunque la Chiesa impose allo scienziato di smettere di insegnarle all’università e di rinnegare quanto scritto nel Sidereus. Galilei si vide costretto a ritrattare le sue scoperte, e coprì le sue teorie con la maschera della rinuncia, ma il Sidelius Nuncius aveva avuto il tempo di circolare e, seppur non apertamente, aveva incontrato il sostegno di molti dotti e scienziati. Tra questi, uno dei più importati fu Benedetto Castelli, allievo di Galilei che da sempre fu ispirato dalla figura del maestro e gli portò sincero affetto. Pur ricoprendo una carica ecclesiastica, egli fu tra i sostenitori della teoria eliocentrica, ed aiutò Galilei nel processo contro l’Inquisizione cercando di giustificarne la causa. Egli, pur conservando la fede che il suo abito di monaco gli imponeva, aveva fiducia nella scienza, vedendola come un meccanismo da poter sfruttare per migliorare ciò che Dio in natura già ha messo a disposizione. Quando Galilei, ormai vecchio, perse la vista Castelli gli scrisse una lettera in cui lo esortava a non abbattersi, poiché se anche non possedeva più il sostegno “degli occhi corporali” di certo possedeva ancora quelli della mente, con i quali riusciva a vedere molto più lontano di qualsiasi altro. Lo sguardo di Galileo è dunque una preziosissima eredità da conservare, poiché specchio di un meraviglioso intelletto.

Sidereus Nuncius ( Galileo Galilei, 1610)

Incentrato sull’ importanza dello sguardo sono anche le opere del veneto Guido Casoni, poeta e letterato. Casoni lascia indugiare i suoi personaggi nella contemplazione attenta delle cose, fissando le descrizioni delle immagini in una valenza onirica, e i loro occhi diventano come finestre aperte sulla bellezza del mondo. Una ricerca di sé stessi nel groviglio delle facoltà conoscitive fu argomento centrale nella cultura filosofica e letteraria seicentesca, svelando la fragilità d’animo e le insicurezze che attraversano ambigue questo secolo d’animo instabile. Casoni, maggiormente nella sua opera più famosa, si sofferma poi molto a riflettere sul concetto di “amore”. Ne “La magia d’amore”, infatti, troviamo dei personaggi che dialogano sulla forza del sentimento, tentando di penetrare il mistero della sua essenza. Sebbene la vera “magia” dell’amore risiede proprio nel fascino delle sua ineffabilità, e la volontà di possederlo è parte del gioco illusorio della materia infinita di cui è costituito. Non a caso, il bel giardino nel quale i protagonisti sono radunati assume le sembianze di un labirinto, e più essi tentano di uscirne più non riescono.

Questa ambientazione della cornice narrativa in bellissimi giardini, di chiara ripresa boccaccesca, è particolarmente usata nella letteratura seicentesca, sia come “locus amoenus” per un “dolce discorrere”, sia come metafora di un’esistenza vacua la cui bellezza è solo apparente. Questa valenza assurge nel capolavoro di Giovanbattista Basile, “ Lo cunto de lo cunti”, dove una brigata di dieci persone raccontano cinquanta fiabe nell’arco di cinque giornate. La bellezza stupefacente del giardino luogo del raduno è resa ambigua dai personaggi che vi si muovono: un principe ricco quanto stolto, una principessa che in realtà è una schiava nera, e una grottesca accozzaglia di vecchie plebee. Basile fece di questa particolare cornice metafora della disprezzata vita di corte, e delle miserabili figure che la componevano. Narrato completamente in dialetto napoletano, “Lo cunto de li cunti” mette in scena un mondo di ruffiani, girovaghi e imbroglioni e ladri, e le vicende delle fiabe sono costruite sugli intrighi di inganni e menzogne, in cui spesso la conquista più grande è la scoperta della verità. Un grande teatro dell’umanità attraverso cui l’autore esorta a guardare le cose “dal di dentro” e non per come appaiono. Basile racconta la Napoli del Seicento, centro di importanti apparati burocratici e forensi, le cui piazze erano traboccanti di gente e di immigrati, che si portavano dietro costumi, abitudini e credenze, spesso molto contrasti con quelle tradizionali della cultura campana. In questo variopinto turbinio, descritto abilmente nell’opera nelle scene di folla, è evidente come il costume spagnolo, ed in particolare “castigliano”, ha permeò in profondità la cultura napoletana.

Il racconto dei racconti (Matteo Garrone, 2015)

Dopo il trattato di Cateau-Cambresis del 1559, la Spagna aveva, infatti, imposto il suo dominio su tutti gli stati italiani. Lo sdegno provocato dalla dominazione di una potenza straniera dava adito ad un profondo mal contento, soprattutto fra gli intellettuali. Si intuiva che l’unico modo per ribaltare la situazione era un conflitto. Ma la fin troppo evidente paura dei principi italiani e il loro ottuso desiderio di pace lasciava intendere che essi non avrebbero danneggiato la pace stabilitasi. Molte opere nate in quel periodo furono satire allegoriche ai danni di queste ben poco splendenti figure aristocratiche. Esemplare in tal senso fu l’opera di Traiano Boccalini “Ragguagli sul Parnaso”, dove al cospetto del dio Apollo sono riuniti una schiera di intellettuali e politici dell’epoca. L’invenzione allegorica del monte Parnaso, e delle dispute che vi si svolgono, consentirono a Boccalini di operare una satira ferocissima contro la Chiesa cattolica, di cui disprezzò il dogmatismo ferreo imposto, e l’ottusità repressiva dei principi italiani. Amico di Paolo Sarpi, anche Boccalini usò delle “maschere” metaforiche per occultare la critica spudorata antispagnola e le invettive alla debolezza del popolo italiano. Nessuna utopia fantastica trapela dall’opera, che invece è profondamente negativa.

Visioni fortemente pessimistiche quelle che Pasquale Guaragnella indaga in questo saggio “L’arte di ben pensare”. Esperto di cultura seicentesca e stile barocco, Guaragnella è professore ordinario alla facoltà di Letteratura di Bari, ed in questo particolare saggio, pubblicato nel 2015, dedica la sua ricerca alla visione malinconica di Sarpi, Galilei, Castelli, Basile,Casoni e Boccalini, mostrandoci rendendo così il testo testimone della loro profonda rassegnazione e sfiducia.

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