Massimo Zamboni e Luca Pakarov

Massimo Zamboni: il racconto di un’anima galleggiante

Un viaggio alla riscoperta di tutto ciò che è lontano, nel tempo e nello spazio, dalla rumorosità asfissiante del quotidiano.

La Caduta
La Caduta 2016–18
13 min readJan 29, 2018

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Poco più di una settimana fa, al Terminal di Macerata, si è tenuto l’ultimo appuntamento con il “Piccolo Festival di Suonata Poesia” di cui è stato protagonista Massimo Zamboni, chitarrista e compositore storico dei CCCP prima e dei CSI poi. Una serata molto diversa rispetto alle precedenti in cui Clementi e Capovilla, con le loro letture rispettivamente di T. S. Eliot e Antonin Artaud, ci avevano catapultato, quasi brutalmente, nel lirismo agghiacciante, claustrofobico a tratti, dei due poeti novecenteschi. Massimo ha preferito mettersi in gioco in prima persona portando sul palco una sua particolare e recente esperienza di vita che, condivisa con l’amico Vasco Brondi, ha dato forma ad Anime Galleggianti, uscito per “La nave di Teseo” (2016). L’idea — ci racconta Massimo — nasce da un viaggio a bordo di una zattera di alluminio, intrapreso quasi per caso, o per un’intuizione particolare, sulle acque del fiume Tartaro. Ci parla ancora dell’amore per la sua terra, l’Emilia, e per tutto quello che, nonostante le apparenze, continua ad impreziosire il nostro paese; di qui l’importanza di continuare a narrare — o comunque comunicare in altre forme — per tessere la trama di quel tessuto storico che ci lega al nostro passato e dunque alle nostre radici.

Ciao Massimo, anzitutto siamo molto felici che sei venuto qua a Macerata e, a proposito, sei già stato qui altre volte?

Sì, tante volte, ho cominciato con i CCCP nell’87, allo Sferisterio, e poi altrettante volte. Ad Appignano, San Ginesio ed altri posti…

Si vede che ti piace anche la zona allora…

Beh la zona è bella, si sta bene… Se dovessi scegliere tra qua e le periferie di Roma o Milano direi che non abbiamo dubbi…

Bene bene, e questa sera invece ci porti la lettura di un libro, Anime Galleggianti, scritto da te. Volevamo chiederti come era nata l’idea di questo tuo lavoro, ma più che altro di questo viaggio ̶ che è alla fine un po’ il tema principale del libro ̶ e poi sapere anche come è nata la collaborazione con Vasco Brondi.

Cioè volete già sapere il colpevole prima di guardare il film (ride)… Beh scrivere è la cosa che faccio di più, scrivo più che suonare in questo periodo, quindi il libro fa parte di una serie di altri libri che sono usciti in questi anni. Poi, visto che mi piace molto guardarmi attorno e guardare vicino a casa che cosa succede, andando lungo l’autostrada tra Mantova nord e Mantova sud, mi è cascato l’occhio sul canale Tartaro — che è uno dei tanti canali della pianura — quel tanto che mi è bastato per iniziare a farmi una serie di domande che poi ho traslato a Vasco per caso, chiacchierando del più e del meno, e lui si è infiammato e mi ha detto: “Se tu fai questo viaggio lo faccio anche io” e così in pochissimo tempo lo abbiamo organizzato.

E cosa ti aspettavi di trovare in fondo a questo viaggio?

Niente, perché in realtà, come sempre, è il viaggio ad essere il momento culminante, e non il punto d’arrivo, tant’è vero che quando siamo arrivati al mare abbiamo girato la zattera e siamo tornati indietro. Anche se è molto bello il punto d’arrivo, il Porto Levante è un posto molto bello. Però sì, l’idea di montare su una zattera, stare su un canale, stare in compagnia di Vasco e Piergiorgio, questo è il Viaggio.

E l’idea della scrittura nasce con il viaggio o è successiva ad esso? Qual è per te il ruolo della scrittura adesso rispetto alla musica?

Mah, per deviazione personale tutte le cose che faccio poi diventano o canzoni o libri e quindi, anche per questo viaggio, in un certo senso non ci ho pensato molto prima, ma era molto prevedibile che finisse scritto da qualche parte perché lì poi sei come in un tempo sospeso in cui pensi tanto e questi pensieri poi senti proprio di doverli mettere su un foglio. Questo è un grande potere della scrittura che non ha bisogno di niente. Hai bisogno di una penna e di un foglio, già la musica è molto più complessa come armamentario… E quindi poter prendere gli appunti, poi lavorarli, poi ogni cosa richiama altre associazioni, quindi è un processo che è infinito, se qualcuno non ti prendesse il libro di mano continueresti a scrivere continuamente. E quindi così è nato il nostro libro sul viaggio.

E quindi la scrittura la senti più come arte, come manifestazione, produzione…? Più efficace, più come un processo di sintesi rispetto alla musica?

Diciamo che la musica in teoria è più fruibile perché la ascolti anche per strada, basta che uno ha la radio accesa… Nella realtà invece questo non è vero perché la musica ha delle categorie molto rigide e molto severe, anzitutto delle categorie anagrafiche, per cui in un locale come questo so perfettamente che gente viene e so a quante categorie non è invece concesso venire qua.

Un target…

Sì, molto preciso. È molto frustante anche questo. Io scrivo canzoni o libri per persone che non hanno un’età così specifica e la scrittura arriva più lontano, inaspettatamente, perché arriva ad esempio anche a delle persone anche molto anziane. Mi trovo davanti persone autenticamente anziane e anche dei bambini delle volte e questo mi piace molto perché vuol dire che sono riuscito a trovare le parole che comprendono un po’ tutte le età. Per questo mi sembra molto più privilegiato il mondo della scrittura.

E nel momento in cui scrivi quali finalità dai a questa scrittura? È una scrittura più per te, è una scrittura che ha un progetto di liberazione di qualche concetto (magari anche più politico) o invece è una scrittura più intimista?

Diciamo che è un processo di alleggerimento. Si iniziano ad accumulare i pensieri in testa e questi pensieri di solito si coagulano intorno ad un titolo che di solito non mi so spiegare, ormai ho iniziato ad avere fiducia nel mio istinto quindi quando si formano le parole di un titolo capisco che lì c’è materia da scavare e quindi inizio ad organizzare delle parole attorno al titolo e alla fine salta fuori un libro ed è un processo di alleggerimento perché non posso pensare che queste parole mi rimangano in testa per sempre. L’eco di uno sparo ci ho messo otto/nove anni per scriverlo ed è stato faticosissimo perché appunto ho dovuto tenere delle frasi in testa, con tutti i loro collegamenti, per tutto quel tempo.

Quindi è una scrittura più per te che per chi legge? Non è, diversamente dal tuo passato artistico, una militanza più o meno efficace?

Non direi, in realtà ho anche letto una recensione del libro che ho scritto su Berlino in cui si diceva che sembra che io faccia continuamente servizio civile e mi è piaciuta molto questa cosa perché mi rendo conto che se dovessi scrivere per me non scriverei affatto, così come non farei canzoni, non mi metterei a casa solo per il piacere di scrivere, come quando uno fa il diario o questo genere di cose. Per cui mi rendo conto che se non c’è un altro io non ho nessun motivo per scrivere o per cantare. E il fatto che scriva partendo sempre, o quasi, dalla prima persona singolare a me sembra una specie di offerta. Io quello che posso fare è mettermi in gioco, per questo non mi piacciono le storie in cui tu inventi dei personaggi, così tu sei sempre coperto in un certo senso, ti sottrai alle dinamiche dei personaggi perché esponendo loro tu comunque resti qua e li giudichi, li manovri come ti pare, vuoi lasciar dire a loro quello che tu magari non hai la voglia o il coraggio o la possibilità di dire, e questo a me non piace.

Come genere letterario quindi è più una sorta di autofiction?

Mah, è una specie di lunga autobiografia mescolata alla storia e ai pensieri. C’è molta ricerca sui testi e sui documenti e poi per forza di cose si mescola con il vissuto.

Certo, e qual è allora l’obiettivo che tu ti prefiggi nella società? Tu scrivi per…?

Mah, io vorrei… È difficile questo da dire perché ci sono tanti strati. Diciamo che il primo è che sono molto legato alla terra in cui vivo e mi piace l’idea di raccontarla, quindi di inserirmi in quella catena di narrazione che è lunghissima e che riguarda l’Emilia, ad esempio, come uno dei narratori di quella terra, diciamo come gesto di riconoscenza. Io sono nato lì, spero di terminare lì, e quindi voglio conoscerla bene, voglio sapere dove sono, sono molto riconoscente a questa terra, tanto da farmi venir voglia di cantarla e di presentarla agli altri, anche nelle sue stonature che sono tantissime. E poi allo stesso tempo è quello che dicevamo, è proprio l’idea di un servizio civile: cosa possiamo fare noi per non essere semplicemente “individui”? Cosa è che ci lega alla collettività? Anche la narrazione ci aiuta a sentirci parte di uno stesso percorso anche culturale, intellettuale, e questo mi dà l’idea dell’uguaglianza, della similitudine e questo io cercherei di coltivarlo e di farlo coltivare.

Vogliamo parlare un po’ de “I soviet + l’elettricità”, parlare un po’ del teatro… Hai detto spesso della scrittura contrapposta alla musica. Il teatro invece in quest’ottica come si pone, come lo concepisci?

Beh il teatro è un po’ più elitario, anche per una questione di costi, però in realtà è molto popolare, perché in Italia il teatro c’è sempre stato, non c’è solo la Scala, il popolo va al teatro, è sempre andato a teatro. Quindi a me piace l’idea di potermi rivolgere, da questo punto di vista, a persone che hanno voglia di stare sedute, in un posto al buio e guardare uno spettacolo (magari muovendo il piedino, con la voglia di ballare, però stavolta usiamo solo gli occhi e la testa e va bene così). È anche bello che rimanga dentro l’eccitazione, senza poterla sfogare. Mi piace come comunicazione, perché in realtà vorrei che chi guardasse lo spettacolo de “I soviet” andasse a casa con tante domande in testa, con molta tristezza per tutto quello che è stato perduto, e anche con la voglia di sfogare questa energia. Quindi lunga vita ai Soviet!

E invece come ti poni all’interno del panorama politico più strettamente attuale, anche in confronto a quello dei decenni passati?

Nel panorama politico entriamo nei guai, perché c’è da chiedersi innanzitutto cosa significa “politico”: io ho sempre pensato che la politica fosse uno strumento di emancipazione di chi non aveva altri mezzi. Diciamo che o ti affidi a un’insurrezione e a tutti i limiti che con quella ti ritrovi, oppure la politica è un metodo… Con l’ultima guerra poteva essere un metodo democratico, partecipativo e collettivo, per emancipare la propria condizione, ma vediamo che non è così, che in realtà si è “caravoltata” in emiliano, come si dice in italiano? Si è ribaltata tanto che la politica non è più strumento per l’emancipazione delle masse ma mi sembra che le masse siano uno strumento per l’emancipazione della politica. Noi siamo uno strumento nelle mani della politica e questo non va bene, e quindi io credo che sia un mondo da non frequentare la politica. È una grandissima sconfitta sotto certi punti di vista ma credo anche che bisogna essere un po’ svegli e attenti a quello che succede, quindi continuare a vivere delle stesse parole, anche delle stesse parole d’ordine o anche degli stessi ricordi; la politica era appunto uno strumento di emancipazione. Bisogna avere anche la franchezza di riconoscere che non è più così e che qualcosa ci è stato sottratto, e che il nostro ruolo sta passando da quello di cittadini a quello di estranei. Noi siamo sempre più estranei al corpo sociale, allo Stato, questo è pericolosissimo, è un processo involutivo molto accelerato, la politica fa di tutto per accelerare questo processo. Nessuno di noi sa com’è, quale sarà il termine di questo, se non che tutto quello che è stato conquistato dopo l’ultima guerra è stato rapidamente rosicchiato e quindi dovremmo farcele spesso queste domande.

Quindi è anche per questo che di recente hai detto che è difficile, attualmente, parlare di una sinistra in Italia?

Diciamo che della sinistra sono rimasti i problemi di sinistra: la disoccupazione, la povertà, la mancanza di lavoro, la difficoltà a poter parlare ecc. C’è solo questa parvenza di democrazia in cui tutti sembrano poter parlare, ma tanto la tua voce casca lì, e quindi non serve a nulla naturalmente. Diciamo che le istanze della sinistra ci sono tutte, le istanze di opposizione ci sono, è il fatto che i partiti non le considerino abbastanza che dovrebbe preoccuparci parecchio. Anche l’idea che non si possa più avere un sogno, una prospettiva, un punto di vista che guardi lontano, ma si pensi soltanto a gestire l’esistente con delle misure tampone, con qualcosa che richiama il tuo voto, ad esempio gli ottanta euro, niente tasse all’università… Questi non sono programmi politici, un vero programma politico inserisce questo in un orizzonte molto più ampio, non segue la logica del gratta e vinci.

E di strettamente attuale, rispetto alle prossime elezioni, come ti poni? Con uno sguardo da lontano?

Per la prima volta in vita mia vorrei non andare a votare, poi se dovessi andare a guardare alle persone sono sicuro che Bersani sia una persona onesta, Grasso anche… Per quanto riguarda le liste di sinistra, ne abbiamo già viste veramente tante. Ma non è con due slogan facili che si governa. Io poi, tra l’altro, preferisco l’opposizione al governo, non mi sembra obbligatorio governare a meno che tu non abbia un’idea luminosa, meglio che governino gli altri che siano però fronteggiati da un’opposizione che sappia chi deve difendere. Oggi chi difende gli italiani? Nessuno lo fa. La cosa che mi stupisce degli italiani è la pazienza infinita che hanno, perché siamo un popolo che inaspettatamente ha una pazienza enorme, chiunque altro avrebbe fatto a pezzi i suoi governanti. Allo stesso tempo siamo obbligati a vivere di continui sotterfugi e questo è un po’ umiliante, noi siamo persone adulte, e invece per poter sopravvivere a questo Stato si deve continuamente ricorrere a piccole truffe per potersela cavare, ed è umiliante; noi siamo usciti da una seconda guerra, dalla Resistenza, siamo cittadini, abbiamo una costituzione avanzata e siamo costretti a fare come i bambini che devono rubacchiare la marmellata nell’armadio della nonna o cose di questo tipo, non siamo cittadini.

E l’astensione dal voto è sempre un sotterfugio?

È una fregatura anche quella! È una fregatura, non c’è soluzione. Sto scrivendo un libro sulle storie politiche, ho guardato i dati delle elezioni in provincia di Reggio-Emilia nel ’75, l’anno in cui io ho votato per la prima volta. Sono partito dal comune dove hanno votato in meno, ovvero dove ha votato “solo” il 94,5% , fino ad arrivare ad un altro dove incredibilmente ha votato il 101%. Dunque in trent’anni il 60% della popolazione è stato esautorato dal voto, è stato espulso dal voto. E non lo fa non perché sia cattivo, ma perché non serve a niente, perché manca l’effettiva capacità di partecipare, e a quel punto ci si dice: “Perché devo partecipare? E perché devo votare qualcuno legittimando il fatto che lui l’anno dopo mi sposterà ancora un po’ più in là ̶ sapendo tra l’altro le persone poco rassicuranti che ci sono sulla piazza?”.

Allargando un po’ il discorso, o stringendolo, una serata come questa ha lo scopo di parlare al pubblico per archetipi personali e intimistici o anche, magari, spronarlo ad un ritorno all’impegno, ad una terra comune?

Direi di no, anche perché il libro parla di un viaggio molto rilassato su una zattera, però diciamo che c’è una cosa che mi preme molto di questo viaggio, che vorrei lasciare come consiglio, ed è “Apriamo gli occhi!”. Vediamo in che mondo viviamo, perché ci sono degli scorci bellissimi nel nostro mondo che non consideriamo. E allora cominciamo a considerarli, cominciamo a vedere che cosa abbiamo sotto i piedi, perché se noi ci innamoriamo di quello che abbiamo sotto i piedi sarà più difficile che ce lo portino via. Se noi invece consideriamo la nostra terra un posto su cui buttare le bottiglie fuori dal finestrino, non governarla, fregarcene assolutamente, tollerare il fatto che si costruiscano tangenziali vuote, o palazzoni terribili, se cominciamo a non amare questa terra, allora diamo il potere agli altri di togliercela davvero sotto i piedi, e questo io cercherei di evitarlo, cercherei di evitarlo perché noi non abbiamo molto di più di quello che abbiamo sotto le scarpe, e serate come queste ti possono aiutare a guardare il tuo cortile di casa e dire: “Però, forse val la pena di considerarlo, perché è specchio di un mondo grande, non è solo un piccolo punto”.

Quindi anche la piccola provincia in questo modo viene riconsiderata.

Mah, se tu guardi l’Italia passando in aereo ti rendi conto che l’Italia è fatta di piccole province, c’è moltissima terra allo stato naturale, è una truffa quella che si deve vivere in città. I telegiornali parlano solo di persone che vivono in città, i film si fanno solamente in città, specialmente in Italia, il punto di vista è sempre quello cittadino da automobilista, ma questa è una truffa. Chiunque viva a Macerata, o è cieco più di me, oppure deve sapere che il mondo è questo qua, non è quell’altro, come chiunque viva sull’Appennino. È proprio un problema di statistica, di grandezza; c’è l’Italia delle coste che è quasi irrimediabilmente perduta, ma tutto il resto dell’Italia, disabitato, terremotato, disastrato, è una terra su cui si può vivere, e penso che sarebbe bene salvarla, conservarla, mandarla avanti.

Intervista a cura di: , e

Foto per gentile concessione di Anita Habluetzel Esposito

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