Me and Courtney. Storia di una recente ossessione musicale

Ovvero come perdere il controllo per inseguire la propria musa

Andrea Bentivoglio
La Caduta 2016–18

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Questa doveva essere una recensione che sto tentando inutilmente di scrivere da alcuni mesi (nda: chiedo scusa in ginocchio sui ceci alla redazione de La Caduta). Dovevo solo parlare di Tell Me How You Really Feel, secondo album di Courtney Melba Barnett, uscito il 18 maggio per la Milk! Records, Mom+Pop, Marathon Artists. Tutto qui.

Oggi (agosto) purtroppo ciò che state leggendo non è più un banale resoconto di un disco, ma la disturbante testimonianza di come un’ossessione nasce, cresce e si prende in poco tempo la tua vita.

Recensire dischi non è pericoloso; non comporta conseguenze più gravi di annoiare qualche sparuto lettore che al massimo mi ha giustamente insolentito. Anche stavolta sarebbe bastato ascoltare l’album, magari integrare leggendo qualche intervista. Invece no.

Gli ascolti non bastavano mai. Poi i video dei concerti, poi gli showcase, poi le interviste, “what’s in my bag?” resoconto comparato dello shopping all’Amoeba, il live sul tram.

E ancora recensioni, racconti, altri album, discussioni online, partecipazioni televisive. Una spirale che mi ha risucchiato.

Il risultato è che ho accumulato una quantità imbarazzante di informazioni inutili di cui sono diventato avido cacciatore. Oggi so che se CMB dovesse tatuarsi un artista sceglierebbe Jimi Hendrix, che il suo animale simbolo è il koala, so esattamente quanto ci mette da casa sua nel quartiere di Thornbury (no, la casa di cui parla in Depreston ovviamente non l’ha mai comprata, anche se è il quartiere attiguo) per arrivare al lavoro (20 minuti a piedi), conosco il suo libro preferito, il primo album che ha acquistato.

Conosco la sua band del cuore di Melbourne (i Dick Diver), il suo tour manager, so che da teenager giocava a tennis a un discreto livello, qual è il suo ristorante asiatico fisso in città e il piatto che ordina sempre (Ramen e noodles mi goreng, quello di Three Packs A Day). Ho individuato il bar dove lavorava quando era squattrinata, so cosa sta ascoltando e se non bastasse, a segnare un evidente punto di non ritorno, so anche che il suo gatto, a cui è allergica, si chiama Bubbles (è peraltro il secondo nei ringraziamenti dell’album e la sua foto fa da sfondo alla home del suo iphone ed è appiccicata nel retro di una delle sue chitarre).

E dire che conosco quest’artista almeno dal 2015, prima volta in cui passai entusiasta una sua canzone nella prima puntata di in un mio vecchio programma radiofonico. Ma era solo per provare l’effetto che fa. Poi ho addirittura scritto del disco che ha pubblicato con Kurt Vile. Eppure a quel tempo ero capace di smettere quando volevo. Certo, piacere mi piaceva. Da matti. Sin dal primo album. Ma credevo di avere la situazione sotto controllo. Ora non è più così.

Quante volte ho ricominciato a scrivere questa recensione? Per certe lettere d’amore ci ho messo di meno.

La nascita della Milk e l’inizio dell’inarrestabile ascesa

Courtney Melba Barnett, la chitarrista mancina (come Hendrix!) che suona senza plettro (come Stephen Malkmus!) e che sul palco un po’ si ingobbisce goffa sullo strumento, canta con la bocca sempre attaccata al microfono, poi fa headbanging e a fine concerto si schianta addosso alla batteria (come Cobain!). Compone, scrive e strimpella da quando aveva dieci anni, il vicino di casa le aveva insegnato il giro di Come As You Are. Milita in varie band (Rapid Transit, Immigrant Union) ma è troppo timida per cantare in pubblico e comincia a farlo non prima dei 18 anni, nelle serate open mic.

Courtney Melba Barnett, originaria di Northern Beach vicino Sidney, cresciuta in Tasmania a Hobart. Studentessa che prende appunti sulla vita mentre infila una serie di lavori deprimenti e malpagati (commessa in negozi di scarpe, impiegata in uffici pubblici, bartender e cameriera). Sviluppando pure una latente avversione per il capitalismo e le multinazionali (con cui, crescendo, è venuta a patti come tutti noi). Un’adolescenza un po’ girovaga, qualche difficoltà ad ammettere a se stessa di essere omosessuale (tutti gli altri se ne erano già accorti, nemmeno ha dovuto fare tanto sforzo per il suo come out), un bel po’ di depressione e sociopatia quanto basta.

Courtney Melba Barnett ha fondato nel 2012 a Melbourne, dove vive da quando ha vent’anni, l’etichetta Milk! Records.

Lo scopo era pubblicare il suo primo EP I’ve Got a Friend Called Emily Ferris, composto nella sua stanza.

Si è fatta finanziare dalla nonna e poi nel tempo ha chiamato a raccolta una comunità di artisti amici, gestita oggi dalla sua compagna, Jen Cloher.

Anche Jen è una musicista che fa parte del roster Milk!. Nella sua band CMB suona la chitarra, sia nei dischi che in tour. Una storia di amore nata da prima della sua deflagrazione su scala mondiale. C’è anche una cover di Jen Cloher nell’album a 4 mani scritto e suonato con Kurt Vile, Lotta Sea Lice del 2017;

Le due si sono innamorate proprio ascoltando Smoke Ring for My Halo, album del cantautore di Filadelfia, ex War On Drugs, poco prima che Jen perdesse in un anno entrambi i genitori.

Jen rivendica il suo diritto a chiamare CMB “moglie” nella sua canzone Analysis Paralysis. CMB cita Jen in Dead Fox.

Insieme hanno scritto Numbers, a supporto del progetto LGBTQI “Thirty days Of Yes” (raccolta fondi da destinare a un sondaggio postale per proporre la legalizzazione dei matrimoni tra omosessuali).

Della sua etichetta Courtney Melba Barnett, ha disegnato anche il logo (ha frequentato la School Of Art, anche se studiava fotografia, è figlia di un grafico). L’anno dopo pubblica un altro EP, grazie a un finanziamento governativo, How To Carve a Carrot into a Rose, prima prova in studio.

Lo stesso anno i due EP vengono accorpati sotto l’egida della Marathon Artists/House Anxiety (e in seguito anche Mom+Pop per gli US) nel The Double EP: A Sea of Split Peas.

Alla vigilia della pubblicazione lei è già in tour fuori dall’Australia, ha già frequentato studi televisivi da sola o in duetto con musicisti del calibro di Billy Bragg.

Il doppio EP attira l’attenzione dei media. Un folk pop sghembo e bluesy, una personalità nello scrivere testi che non passa inosservata. Incanala una sorta di flusso di coscienza impreziosito da disavventure comiche e osservazioni pungenti condite da black humor. La paura del palco un po’ resta, ma Courtney Melba Barnett riesce a vincerla trasformandola in energia.

Avant Gardener, un singolo strepitoso dal titolo geniale, capace di condensare le migliori doti dell’artista australiana, viene nominato Track of the Day da Q Magazine e Best New Track da Pitchfork.

Arrivano i primi riconoscimenti come il Best Cover Art, visto che si disegna da sola anche le copertine e gli artwork; c’è stata anche una esposizione dei suoi lavori grafici, disegni di sedie. Delle copie sono ancora in vendita sul sito della Milk. Nel frattempo monta l’hype per l’uscita del primo vero album, anticipato da partecipazioni al SXSW e CMJ e da una serie di concerti “a sorpresa” in giro per il mondo, parte di una efficace strategia di guerrilla marketing.

L’esplosione di una stella, il successo di Sometimes, l’album con Kurt Vile

Il fulminante debutto su LP è del 2015, Sometimes I Sit And Think, Sometimes I Just Sit (una frase che aveva letto a casa di sua nonna) prodotto da Burke Reid. I suoni si fanno in media più aspri, i volumi più alti, ma si conferma brillante la capacità di scrivere canzoni che assumono presto la statura dei classici, uno spiccato intuito nel trovare melodie storte e confezionare piccoli gioielli di grunge-pop ruvido e colloso a ripetizione, intrisi di una narrativa disseminata di dettagli e conditi da un lessico senza retorica, in cui è facile immedesimarsi. Arriva il successo, quello grosso davvero.

Courtney viene catapultata nello stardom mondiale: Rolling Stone, Spin, Pitchfork e Paste nominano SISATSIJS fra i migliori album alla fine dell’anno. Partecipa agli show televisivi di Ellen De Genres, Jimmy Fallon, Conan. Apre il concerto dei Blur al Madison Square Garden di NYC, duetta con Jeff Tweedy, i più importanti festival mondiali ora la vogliono come headliner, la Third Man Recs, l’etichetta di Jack White la invita a incidere qualche traccia a Nashville. Continua a non truccarsi, nemmeno quando la braccano i truccatori degli studi televisivi per metterle un po’ di make-up prima di andare in onda.

Miete premi in Australia, miglior artista del 2016, raccoglie nomination come Best New Artist e International Female Solo Artist ai Brit e ai Grammy Awards (che confessa candidamente di non aver mai seguito). Fioccano le copertine. Finisce addirittura nella compilation da palestra dell’allora POTUS Barack Obama.

Courtney Melba Barnett ha già il mondo ai suoi piedi o giù di lì, anche se non l’aveva esattamente chiesto. Ma forse l’aveva un po’ previsto. Infatti ci ha pure provato a mettere le mani avanti. In Pedestrian At Best diceva “Mettimi su un piedistallo e non farò altro che deluderti”.

Ma sul piedistallo ce l’hanno messa lo stesso, anche in virtù del mezzo milione di copie vendute. Courtney Melba Barnett è ormai suo malgrado investita del ruolo di antirockstar, un po’ ansiosa e schiva, la performer riluttante e incredula, profilo rasoterra, interviste laconiche a cui si presenta con dei cappellini discutibili che reclamizzano oscure carrozzerie di LA (sì, sono andato a cercarle su Google Maps, esistono davvero), indossa magliette di celebri copertine dei Sonic Youth e sempre tanta flanella sgualcita addosso.

Courtney Melba Barnett, cantante introversa e impacciata, songwriter fra le più ispirate della sua generazione, talento compositivo cristallino, la cui scia luminosa seguiremo brillare per anni, portavoce controvoglia dei millennials, perché sa tradurre i loro monologhi interiori in canzoni, dicono. La Lena Dunham del rock, hanno detto. La nuova reginetta dell’indie, hanno detto. La musa degli slacker 2.0, hanno detto. NPR afferma che siamo davanti alla più grande scrittrice di testi del rock di oggi. Stereogum dice “Right now, she’s a motherfucking rock star”. “COURTNEY BARNETT IS A ROCK GOD” ha detto Brooklyn Vegan, tutto in maiuscolo. CMB unisce le generazioni, è anche capace di raccogliere e riappiccicare i frantumi dei cuori dei vecchi fan dei Pavement, Weezer e Nirvana.

Si prende una specie di “pausa” da sé stessa per portare avanti un progetto in piedi da un po’ di tempo, la collaborazione con il suo amicone Kurt Vile.

Doveva dar luogo solo a uno split EP e poi è diventata un album intero. Fresco, giocoso e rilassato, risultato di affinità musicali elettive, canzoni che portano anche in tour insieme a un po’ di amici coinvolti nel disco.

All’uscita del secondo album CMB si è ritrovata a dover gestire aspettative gigantesche. Vince il blocco dello scrittore sopraggiunto dopo il successo di Sometimes grazie a una vecchia macchina da scrivere che le regala un amico. Durante l’inverno del 2017 (che per noi era ovviamente l’estate) finisce Tell Me How You Really Feel in uno studio di registrazione dotato di caminetto.

Tell Me How You Really Feel

Da un punto di vista musicale non risaltano grandi discontinuità con le produzioni passate di CMB. Una ricetta semplice e antica che funziona alla perfezione. Nulla che non abbiamo già sentito a partire negli anni 60, 70 (Dylan, Young, Lou Reed) o più probabilmente 90 (Lemonheads, Breeders, Nirvana, Pavement). CMB fra le sue influenze cita anche la musica australiana dei The Go Betweens, degli INXS, dei cantautori Darren Hanlon e Paul Kelly. C’è anche il solito pantheon femminile tirato in ballo: Patti Smith, Joni Mitchell e PJ Harvey; Liz Phair che pure molti nominano fra le probabili influenze lei nemmeno la conosceva, semmai Kim Deal, Joan Jett, Chrissie Hynde o al limite (non storcete il musetto) Sheryl Crow e la conterranea Brody Dalle in certe prove più rauche. Ci metterei anche Jonathan Richman, nume tutelare dei rockers strambi e dallo sguardo innocente. Va sottolineato il grandissimo contributo dei CB3, che a volte diventano anche CB4 quando dal vivo alle tastiere c’è anche Katie Harkin (Sky Larkin, Sleater-Kinney,) vale a dire la band che da sempre la segue: Dan Luscombe (chitarra, keyboards, ma non gira più in tour), Andrew ‘Bones’ Sloane (basso) e Dave Mudie (batteria).

La band suona un garage-pop che spazia dall’appena spigoloso al quasi-grunge, dalla ballata morbida all’orecchiabilissimo folk-pop. CMB conferma un fiuto incredibile nell’azzeccare ritornelli che non abbandoneranno mai più la vostra scatola cranica e una volta entrati dentro continueranno a rimbalzarci per settimane. La musica si muove in perfetto equilibrio sul confine che divide i rocker meno intransigenti dal mainstream radiofonico. Le chitarre insomma restano sempre in primissimo piano, anche se Tell Me sembra un album più ricco di sfumature rispetto a Sometimes. A volte il “rock” per ravvivarsi non ha bisogno di rinnovarsi completamente, quanto solo di affinarsi e distinguersi; anche solcando generi musicali già esplorati in lungo e in largo.

E dal punto di vista del songwriting CMB si era ben distinta, già dai tempi del doppio EP e di Sometimes, per l’uso molto attento e peculiare della parola (nella sua prima hit ha infilato il termine “pseudoephedrine”, in questo LP fra gli altri “anosmic”, per dire). Testi ricchi di allitterazioni, non sequitur, contrapposizioni illuminanti, giochi di parole, neologismi. Ci siamo innamorati di un’artista che sapeva raccontare le sue storie stralunate da twentysomething un po’ annoiata e cinica partendo da dettagli insignificanti, grazie a una scrupolosa osservazione e al lavoro sottotraccia da overthinker. La poetica del quotidiano al servizio di una innata tendenza al viaggione mentale. I suoi testi riuscivano a travolgere l’ascoltatore grazie a un bislacco e inesorabile susseguirsi di piani narrativi e registri: dalla minuzia banale a un finale surreale e assurdo, salti improvvisi dall’auto-riferito all’universale.

In Tell me spunta un cambio di approccio. Nel nuovo album CMB rivolge la lente d’ingrandimento verso l’interno e contemporaneamente prende posizione verso l’esterno. Può essere un indizio anche il titolo provvisorio dell’album che avrebbe dovuto essere “It All Comes Clean in the Wash”, un lavaggio di panni in piena regola. Dove CMB, a partire dalla copertina, per la prima volta dopo i vari disegni autografi, mette la sua faccia immortalata da una Polaroid. Si parla di vulnerabilità e insicurezza ma non solo con il tono distaccato e sarcastico di Sometimes. CMB è finalmente capace di riconoscere le sue ossessioni e se non proprio vincerle almeno impara ad accettarle, senza distanziarsene. Questa scelta di sostanza si riflette anche sullo stile, infatti CMB abbandona in parte anche il suo caratteristico modo di cantare. Viene meno quel tono impassibile, con sfumature che andavano dall’apparentemente scazzato al distaccato, che le è valso la fuorviante nomea di slacker. Rispetto a Sometimes lo spoken vagamente nasale à la Dylan di Subterranean Homesick Blues (quello di History Eraser e Pedestrian At Best, fra gli altri) si dirada, la narrazione di fa meno densa e più essenziale.

Le chirurgiche scene comiche che si trovavano in brani come Avant Gardener, Elevator Operator e Aqua Profunda lasciano spazio a dubbi su se stessa o sul suo rapporto con la fama e con il suo pubblico. Non si limita più a descrivere situazioni al limite del vignettistico, facendoci ridacchiare o toccando corde più intime grazie alla sua sensibilità. Tell me è per CMB quasi terapeutico, un corpo a corpo con le proprie nevrosi. A tratti più muscolare, a tratti più problematico, con inconsueti riferimenti all’attualità. A leggerne i titoli Tell Me How You Really Feel sembrerebbe una cosa a metà fra il mea culpa e la sessione di autopsicanalisi.

Fin dal primo brano, Hopefulessness (parola che ha inventato lei), praticamente un libretto di auto-aiuto per persone arrabbiate e un po’ tristi, una lotta fra la speranza e la sua mancanza.

L’intro spiazzante, come se CMB stesse ancora cercando un’accordatura, è seguito da un giro di chitarra quasi blues, oscuro e caracollante. C’è una mezza citazione di Mandela (“sai cosa si dice, nessuno è nato per odiare”), baluginano riverberi e lievi distorsioni. Uno dei versi simbolo di Tell Me è l’esortazione (altra citazione, stavolta di Carrie Fisher a sua volta ripresa da Meryl Streep ai Golden Globe del 2017) a “prendere il tuo cuore spezzato e trasformarlo in arte”. Poi la batteria entra morbida a sorreggere il verso “la tua vulnerabilità è più forte di quello che sembra”. Ma soprattutto “You Know It’s Ok To Have a Bad Day”. Questa è una delle principali novità di Tell me: la capacità di ridimensionare i propri problemi, farci i conti, imparare a conviverci. La natura quasi motivazionale si coglie anche nel verso “Just get this one done, then you can move along” che sembra davvero estratto da un manuale di istruzioni comportamentali. E poi c’è spazio ancora per una bellicosa dichiarazione di intenti (“I’m getting louder”) che troverà coerente applicazione in almeno un paio di tracce dell’album, iniziando dalle distorsioni di prima che aumentano, lampi sullo sfondo di un cielo nuvoloso. E si intrecciano sul finale al fischio di un vero bollitore, come se anche CMB avesse ormai raggiunto la temperatura di ebollizione e fosse pronta a esplodere.

Il ritmo si alza subito con il tiro incalzante di City Looks Pretty che richiama le chitarre di Strokes e Television. La canzone è stata scritta in due diversi momenti: ha iniziato a vent’anni mentre era sotto antidepressivi e non riusciva a uscire dalla sua stanza per settimane. L’ha poi ripresa nel momento in cui si è ritrovata ad affrontare lo spaesamento da tour. Disorientata nelle grandi città di tutto il mondo, dove gli sconosciuti ti trattano come se fossero amici e a volte quando torni a casa i tuoi amici ti trattano da mezza sconosciuta. “Sometimes I get sad/It’s not all that bad” canta CMB a conferma del fatto che, come si diceva prima, è ormai riuscita ad affrontare parte delle sue paure e delle sue idiosincrasie e quanto meno a sdrammatizzarle.

Il brano a metà si spezza e rallenta, diventando una specie di jam psichedelica ipnotica e narcotizzata.

Al contempo CMB ha imparato a dare voce anche a sentimenti che nei precedenti album sembravano assenti come la rabbia, allargando la visione dei problemi, con un respiro più ampio. Non solo risparmiare 23 dollari a settimana come in Depreston o le pippe mentali sulla nicotina nelle mele di Dead Fox, insomma. In Tell Me si parla anche di cyberbullismo, abusi sulle donne, misoginia, come in I’m Not Your Mother I’m Not Your Bitch, dove il suono aggressivo e potente è strumentale a una sfuriata anti-maschilista a base di feedback e rumore. CMB prende di petto gli atteggiamenti paternalisti, si inserisce di forza nella discussione odierna rinvigorita dalle reazioni al movimento #metoo (si era già schierata a sostegno del movimento #meNOmore, denunciando abusi sulle donne all’interno industria discografica australiana).

La riduzione aberrante della figura femminile al binomio di madre/puttana viene rispedita al mittente. Il brano segna la misura del livello di sopportazione di CMB (“I can only put up with so much shit.”) rassegnata però a vedere le cose immutate (“It’s all the same, never change, never change.”). Qui l’influenza sempre dichiarata dei Nirvana torna forte; è un brano che non avrebbe sfigurato nella discografia delle L7 o di altri gruppi del filone Riot Grrrls. Ricorda anche un po’ le Hole di un’altra celebre Courtney. Non manca comunque il momento di autoanalisi in cui mette in discussione i suoi stessi comportamenti (‘I get most self-defensive when I know I’m wrong’).

Il tono è feroce anche in Nameless, Faceless canzone con citazione leggermente modificata di Margaret Atwood (autrice dalle cui opere è stato tratto The Handmaid’s Tale). “Men are scared that women will laugh at them/Women are scared that men will kill them” è il ritornello cupo che un po’ contrasta con l’atmosfera allegrotta del pezzo, accompagnato da un video irresistibile corredato da gattini.

CB non si scherma più dietro l’ironia, ma si scaglia veemente e sarcastica (ma anche un po’ empatica) contro leoni da tastiera, codardi senza nome e senza faccia (“Don’t you have anything better to do?/I wish that someone would hug you”). Il tutto parte dalla lettura di alcune statistiche allarmanti sugli abusi domestici subiti dalle donne in Australia. “I wanna walk through the park in the dark/…I hold my keys between my fingers”, ovvero come una passeggiata notturna in un parco per una donna diventi un incubo, fino a farsi divorare dall’ansia di doversi difendere all’improvviso, con mezzi di fortuna.

Si tratta di uno dei due brani in cui fa capolino anche Kim Deal (la ex-bassista dei Pixies) che compare insieme alla sorella Kelly anche in Crippling Self Doubt and a General Lack of Self-Confidence (a proposito di titoli che riassumono perfettamente le canzoni), uno dei brani migliori che non a caso ricorda certe gemme di Doolittle. Le due Breeders restituiscono così il favore, visto che CMB aveva partecipato alle registrazioni di Howl The Summit, un brano incluso in All Nerve, ultimo album delle Breeders uscito per 4AD. Sono proprio le sorelle Deal a scandire (con molti punti esclamativi oltre che interrogativi, si direbbe) la frase imperativa che è il titolo all’album. Nel brano il ritornello sembra una confessione con cui CMB tenta di alleggerirsi (“I don’t Know anything/I don’t owe anything”). Per chi ha visto qualche sua intervista è più o meno la risposta che CMB dà quasi sempre quando le chiedono un’opinione (a una domanda sul suo processo creativo ha risposto “I don’t know what I am doing”).

Spesso il minimo comun denominatore, sia dell’effetto comico che di quello poetico dei testi di CMB è l’incomprensione. C’è in Walking On Eggshells, una ballata dal gusto vagamente country con piano e chitarra gentilmente fuzzy, tutta giocata sull’esitazione causata dall’incapacità di farsi ascoltare e capire (“And I don’t wanna hurt your feelings/So I say nothing”). Mentre su Need a Little Time, canta “You seem to have the weight of the world/Upon your bony shoulders/well hold on/You know what I mean?/Not really, it seems”.

In parte anche l’altra ballad, Sunday Roast gira attorno alla difficoltà di comunicare (“I got a lot on my mind/But I dunno how to say it”) con le chitarre liquide che sembrano strappate agli Yo La Tengo. Una canzone che CMB ha scritto quando era ancora una pre-adolescente in cui sembra incoraggiare in ogni modo un amico (““Keep on keepin’ on, you know you’re not alone/ And I know all your stories, but I’ll listen to them again/ and if you’ll move away, you know I’ll miss your face/ I know you’re doin’ your best/ I think you’re doin’ just fine”). Si tratta quasi di un abbraccio che chiude l’album, la domenica dell’arrosto, forse un pranzo di famiglia, il momento in cui la sua comunità si ritrova, si riconosce, si lecca le ferite. Mi sono chiesto cosa mangiasse CMB quando c’è l’arrosto, visto che è vegetariana. Ho trovato la risposta in un’intervista: raccapriccianti grigliate veggie, a base di noci e tofu, sembrerebbe. Una canzone che comunica un senso di ottimismo, infonde calore e rassicura, nonostante il tofu e nonostante (oltretutto) Courtney non mangi melanzane. E io che volevo cucinarle una pasta al forno.

Se ci sono luoghi dove l’incomprensione prospera quelli sono, ovviamente, i social network, soprattutto per chi ha guadagnato notorietà. CMB è stata per un breve periodo un’utilizzatrice entusiasta dei social, mentre oggi li ha un po’ lasciati perdere. Agli inizi della carriera si è ritrovata coinvolta in una polemica dopo l’interpretazione di una cover di ‘Black Skinhead’ di Kanye West per Triple J’s dal vivo. La columnist di un webmagazine le diede della razzista accusandola di appropriazione culturale (!) scatenando l’inevitabile shitstorm online. Più recentemente CMB è stata scelta dalla Apple per suonare la cover di un brano degli INXS “Never Tear Us Apart” (che ha fatto commuovere la sua Jen) in uno spot in supporto dei diritti degli omosessuali, per promuovere l’equiparazione del matrimonio gay a quello etero.

Da quel video su youtube gli admin hanno in seguito dovuto disabilitare i commenti a causa della violenza verbale raggiunta dai commentatori omofobi. CMB non ha paura ad esporsi in prima persona e a prendere apertamente posizione su temi come la parità dei diritti. Anche con piccoli accorgimenti come la bandiera dell’orgoglio gay (oltre a quella degli aborigeni australiani) cucita sulla tuta da astronauta del video di Need A Little Time.

In Tell Me CMB dichiara guerra a troll e hater. “He said, ‘I could eat a bowl of alphabet soup and spit out better words than you” è la frase provocatoria, ma con una sua creatività, di un commentatore mitomane che le hanno riportato e che CB ha usato per costruirci sopra Nameless Faceless. Sembrerebbe riguardare di nuovo il suo rapporto con il pubblico quel verso di Need a Little Time (“I don’t know a lot about you but /You seem to know a lot about me”) appoggiato una melodia malinconica e contagiosa, un po’ alla Weezer. E anche in Crippling Self Doubt and a General Lack of Self-Confidence dove canta “Your opinion means a lot/Well, tell me what’s the use?/I never feel as stupid/As when I’m around you”, sembra prendere le distanze da certe fastidiose dinamiche di internet.

Nei primi due album CMB ha saputo rappresentare un senso di impotenza quasi generazionale, la confusione e lo sconforto. Così tanto da fare e talmente inetti a combinare il minimo sindacale, nemmeno tagliare l’erba del prato davanti casa senza finire all’ospedale, come racconta su Avant Gardener. A leggere i testi di Tell me How You Really Feel non è che tutto si sia magicamente risolto. Oltre all’autoesplicativa Crippling Self Doubt and a General Lack of Self-Confidence basta ascoltare Charity, altro brano che sembra scritto da un comitato per la canzone pop-rock perfetta, formato da Dando/Cuomo/Black. A dispetto di un andamento vivace si affacciano paure e carenza di autostima (“You don’t have to pretend you’re not scared/Everyone else is just as terrified as you/Medication just makes you more upset/I bet you got a lot to prove/I know you’re still the same, still the same”). Una richiesta di tempo, pazienza e comprensione (“possiamo parlarne dopo averci dormito sopra? Possiamo trovare una soluzione?”).

Fondamentalmente CMB sembra rimasta sempre la solita ragazza piena di insicurezze che però ora prova almeno a disinnescare. Stavolta sembra prendere la situazione in mano e implicitamente lanciare un messaggio positivo. Sempre ironica ma diretta verso il superamento delle difficoltà. Tell Me a tratti è una specie di incitamento, una spinta ottimista verso un cambiamento interiore. Come se CMB ci/(si) dicesse: ci sono cose che non vanno, proviamo a metterci le mani. E non è poi la fine del mondo. Tentiamo di migliorarci per vincere le nostre frustrazioni.

Come in Help Yourself, una delle prove forse meno convincenti da un punto di vista musicale, in cui su un ritmo sornione i graffi di chitarra vanno e vengono per divampare sul finale. CMB parla di una pace ritrovata, di opportunità da non sprecare. Soprattutto di “restare umili ma affamati”, quasi a darsi coraggio e consigli (un altro titolo autoesplicativo!) per non lasciarsi travolgere. D’altronde “Darkness depends on where you’re standing” e forse CMB ha finalmente trovato un posto dove ogni tanto batte anche il sole.

Courtney Barnett può risultare commovente e dubbiosa, divertente e rassegnata, incazzata nera e combattiva, spaventata e sarcastica. Sin dal primo EP, grazie a una voce plasmabile e versatile che passa dalle carezze ai morsi senza fare un plissé. Il suo trucco? Tratta argomenti anche spinosi e li trasforma in singoli irresistibili. In tempi di esasperato narcisismo ha creato una piattaforma per dare spazio alla musica di altre band meno conosciute (di cui spesso indossa le t-shirt sul palco). Nei suoi testi, seppure autobiografici, l’ascoltatore si ritrova, perché chi parla delle tue stesse ansie e incertezze ti fa sentire meno solo. L’unica costante, anche in Tell Me How You Really Feel, è quella del risultato sincero di quello che racconta. Per questo forse è un po’ quell’amica che tutti vorremmo chiamare per berci delle birre al bar e parlarle delle delusioni d’amore, tornando a casa alticci.

Quando hai già capito a maggio qual è il tuo album preferito dell’anno, è un po’ come avere le famose farfalle nello stomaco. Ecco come sto davvero Courtney, visto che ci tenevi a saperlo. Ti ritrovi a pensarci, a canticchiarlo, a sorridere mentre butti giù degli appunti, a dedicargli una intera puntata della tua nuova trasmissione radiofonica, a implorare che te lo facciano recensire. E insomma se non è proprio amore pochissimo ci manca, dimmi se a 45 anni ci si può ancora ridurre così per un disco.

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